19/01/09

Tre gocce di zammù (9)

Minico non se lo poteva ancora spiegare perché gli s'era guastato il seme quando c'era da fare Piné, lui Rosalia l'aveva presa come sempre, senza variazioni e senza seguire le voglie malsane, aveva pure atteso che si rivestisse senza gingillarsi con quei due coppi di minne con cui lei l'aveva accalappiato. E Rosalia era una sposa felice: Minico la trovava ancora tanto bella da svegliarsi in piena notte per darle vasate appassionate, come quando s'erano conosciuti alla processione di San Tarcisio d'una ventina d'anni prima.

S'erano subito innamorati, a quei tempi Minico era il maniscalco di Comala, talmente bravo che la gente veniva sin dalle pendici del Mongibello per farsi ferrare i muli e i cavalli e tutti pagavano bene, tanto che coi risparmi accumulati i Battaglia avevano aperto l'omonimo forno dove Rosalia aveva cresciuto Michele, il loro primogenito, bello più d'Apollo, coi ricci biondi che gli cascavano sulla fronte liscia liscia. Michele era così colmo di bellezza che aveva fatto per quattro anni il Bambin Gesù nel presepe vivente e poi l'angelo in tutte le sacre rappresentazioni. L'unico difetto era la balbuzie che s'accentuava quando Caterina veniva a prendere a credito la pagnotta da mezzo chilo.

Pinè ora aveva venticinque anni, cinque lustri e ancora c'era chi giurava di sentire nelle campagne, all'ora degli spiddi, l'eco dell'urlo che la levatrice lanciò quando lo fece uscire da Rosalia.

Tre gocce di zammù (8)

La famiglia Battaglia portava ancora il lutto stretto e di fianco alla persiana e alle sue gelosie verniciate di verde bottiglia c'era la cartolina funebre "per il mio caro figlio" che oramai si leggeva a mala pena. Michele non aveva avuto manco un funerale, che don Calorio irremovibile fu: per i suicidi le porte della sua chiesa erano chiuse. E Don Minico Battaglia aveva stoicamente accettato, con tutto il rispetto che poteva portare alla tonaca del parrino, ma dentro di lui qualcosa si guastò. Smise di mangiare perfino lo sfincione e le sue promesse di oblio fradice di olio, mollica e primosale. A Comala lo sfincione era piatto nazionale, che lo sanno tutti che ogni comunità non ha bisogno di far provincia per cementare le sue abitudini in un alone di sacralità e patriottismo, spesso incomprensibili a chi viene da fuori.

Quando si favoleggiò che la Sicilia sarebbe divenuta la quarantanovesima stella della bandiera americana, fu Don Minico con tutta la sua autorità e la mole dei suoi centoventinove chili a proporre Comala come capitale e lo sfincione come simbolo da far campeggiare sulla bandiera del movimento autonomista. Ai bei tempi tutti gli portavano rispetto e nessuno s'arrischiò a ridergli appresso, che ad uno sfincione in campo giallo e rosso a spodestare la Trinacria mai nessuno aveva nemmeno osato pensare.

11/01/09

Tre gocce di zammù (7)

È tradizione che il presepe si faccia sempre la domenica prima dell'Immacolata e tutti assieme: si tirano fuori le pecorelle, i pastori, l'angelo che sventola il drappo in cui c'è scritto "Gloria in Excelsis Deo", lo scantato, l'addumisciuto e la vecchina che carda la lana, la lavandaia a cui saltò la testa e che era stata accomodata con quella di un'altra.

Qualche statuina è spizzicata, qualche altra ha visto giorni davvero migliori ma la plastica non ha mai tentato Pinuzza, i suoi pastorelli di terracotta li ha da quando s'è maritata e li erediteranno Caterina e Rossella. E poi la notte tra il ventiquattro e il venticinque sarà il momento del bambinello di cera che suo marito gli portò da Palermo, bastava mezzo giro di corda per vedergli muovere la testa e gli occhiuzzi dello stesso colore di quelli di Rossella.

Quest'anno avrebbe aiutato anche Carlo. Aveva dimostrato d'essere un bravo picciotto, rispettoso ed educato. Non era scappato quando qualche solerte comalese l'aveva informato della misteriosa sparizione del padre di Rossella, amava sua nipote d'un amore pulito, senza volersela portare chissà dove a fare le porcherie, sapendo bene che c'era una picciridda di mezzo.
Cucchiara incominciò a scodinzolare e a lamentarsi, quel canuzzo aveva uno stomaco su cui si potevano rimettere gli orologi, un po' come quello di Ninuzzo.

08/01/09

Tre gocce di zammù (6)

Carlo passeggiava sui marciapiedi del Corso Federico dal lato dell'ombra, che pure ch'era dicembre il sole picchiava sul borsalino. Si pigliò un caffè al bar Aurora e si accese una sigaretta con uno zolfanello.

Da quando suo padre s'era trasferito da Monreale a Comala la sua vita era stracanciata, aveva perfino smesso di correggere il caffè con la grappa e aveva detto addio alla facoltà di legge che nulla aveva accucchiato in sette anni di studi, giusto giusto diritto civile e filosofia del diritto. Tanto valeva passare ad ingegneria e iniziare a pensare di entrare nel bisinissi del mattone che tanti amici suoi aveva arricchito. Nel riflesso della vetrina della torrefazione s'aggiustò il cappello e il baffetto alla Clark Gable che tanto facevano ridere Caterina.

A Rossellina Carlo piaceva, le faceva fare cavalluccio e le portava sempre le rotelle di liquirizia che le facevano la lingua nera nera come il pelo del canuzzo che le aveva regalato, lei l'aveva chiamato Cucchiara perché quando Carlo l'aveva portato dentro una scatola di scarpe era talmente piccolo che dovevano dargli a mangiare con un cucchiaino. Fu amore a prima vista: dove c'era Cucchiara, trovavi pure Rossellina.

07/01/09

Tre gocce di zammù (5)

«Rossellina, lo vuoi un mottarello?»
«Minico, quelle cose confezionate lasciale agli americani e agli amici loro, che meglio del gelato alla nocciola del bar Carmelo non ce n'è»
Nell'emporio dei Lanzafame era arrivata un'alitata di progresso, dopo quasi cent'anni di resistenza a qualsiasi novità, accanto alle bottiglie d'anice comparvero di soppiatto le merendine e le patatine imbustate. Pinuzza sorrise sollevata: per fortuna quelle porcherie erano giunte quando già Ninuzzo era volato via dal nido, che altrimenti la pensione se la sarebbe scialata tutta in due giorni per riempirsi la panza di gelati da passeggio. A lei bastava un chilo di pane di frumento, un litro d'olio e una caciotta per saziare la famiglia tutta, assieme ai rigatoni col sugo di pomodoro e i biscotti col cimino che mai dovevano mancare.

«Prendo pure lo sciroppo alla menta e due chili di bucatini che domenica viene a pranzo Carlo e voglio fargli la pasta con le sarde e il finocchietto selvatico che mi portò mio cugino Saro».
La signora Pinuzza con un nipote quasi parrino e a tre anni dal fattaccio, poteva permettersi di squietare la curiosità di Minico Lanzafame, che avrebbe poi provveduto a diramare il bollettino con tutte le commarelle che l'avevano evitata negli ultimi tre anni, manco avesse la spagnola.

Tre gocce di zammù (4)

La signora Pinuzza iniziò a cucire biancheria di fino per i corredi delle comalesi prossime a maritarsi, così poteva far campare dignitosamente Rossella e Caterina. Ninuzzo ora studiava teologia a Messina e venne fuori che voleva farsi gesuita. Quella notizia portò una ventata di rispettabilità tra le mura dei Lo Cicero, tanto che i cugini che avevano smesso di andare nella casa del Corso ricominciarono a farsi vedere e a riempire di balocchi e dolciumi Rossellina che diveniva di giorno in giorno più bella.

Caterina si convinse che Ciccio era stato rapito da una donna di fuora che l'aveva visto bello, asciutto e gagliardo come Nembo Kid e l'aveva tenuto con sé a forza di incantamenti. Di sicuro Ciccio non lo sapeva che ogni volta che s'ammazzava una lucertola o un rospo si doveva dire a voce alta "pri serpi t'ammazzu, si si' donna m'arrispunni" e così la donna di fuora se l'era scinnuto in mezzo ai diavoli della Zisa che nuddu mai riuscì a contare. A questi pensieri sputò tre volte per terra e si stricò per bene sulla fronte la coda di lupo che una volta Ninuzzo gli aveva portato di ritorno da un'andata a caccia con gli amici suoi.

06/01/09

Tre gocce di zammù (3)

Caterina aspettò a lungo sotto la pioggia, sulla straduzza del cimitero, accanto all'ossario in cui Ciccio l'aveva fatta donna e donna tutta. Aspettò pure lì le notti passare, che il beccamorto Agostino la vide e la lasciò fare in memoria dell'amicizia che aveva stretto con il nonno suo durante la guerra coi tedeschi. E i giorni si fecero settimane, e le settimane divennero fogli di calendario. La panza cresceva senza premura e crescevano pure le minne che tanto danno avevano fatto.

E siccome i diavoli e le malelingue mai dormono e tutto scombinano, la gente s'incominciò a stancare di Caterina, che le veglie e la gravidanza mal curata l'avevano fatta sfiorire presto. In un'altra storia Michele l'avrebbe impalmata, magari prima che la panza sollevasse troppo l'abito bianco, ma a Comala una fimmina che aveva già conosciuto i piaceri di sotto il viddico era bollata per sempre, solo le altre fimmine della sua casata e i parrucchieri arrusi potevano continuare a parlarle come se niente fosse. Tutti gli altri comalesi la dovevano lasciare stare. E così fecero.

Tre gocce di zammù (2)

Ninuzzu cresceva in diametro, colesterolo e quoziente intellettivo, mentre sua sorella Caterina diventava la più bella picciotta del paese, attirando orde di masculi da tutti gli ottantadue comuni della provincia di Palermo. Cresceva pure la distanza tra la Germania e Comala e pian piano le lettere dei genitori divennero sempre più rare, si venne poi a sapere che l'aria teutonica aveva sfasciato il matrimonio di Sara e Pitrino, che si separarono senza troppi strepiti. In quegli anni c'era un'aria strana pure a Comala, succedevano cose di cui nessuno capiva bene il motivo: spariva gente, sempre di più.

Una mattina Don Calorio, il parroco che passava le domeniche a far predicozzi lunghi, barbosi e pieni di livore per il progressivo degrado della sua comunità - omettendo che lui stesso contribuiva a quel degrado prestando picciuli con interessi da cravattaro, camminava intabarrato nella tonica lacera e ripizzata lungo il Corso, tutto intento a riscuotere gli interessi settimanali dei suoi investimenti, quando vide Caterina con il viddico di fuori che si ammuccava senza pudore col figlio di Tano Battaglia che, dato che c'era, le dava pure una bella sistemata alle minne.

05/01/09

Tre gocce di zammù (1)

Dove si narra dell'appettito di Ninuzzo e di due negozi di Comala


«Sangu miu, che stai facendo?» disse la nonna aggiustandosi la vestaglia.
«Guardavo la processione di San Tarcisio dal finestrone... Lo sai che hanno scelto il mio amico Micheluzzu per la volata degli angeli? Se non avessi 'sta panza magari sceglievano pure me».
E la nonna sorrise storta ripensando a quando la buon'anima del nonno s'era arricampato dal fronte che era ridotto a quattr'ossa col pantalone tenuto su con lo spago duro, che solo la guerra ti insegna davvero cos'è il pititto. La fame lo sbranava dall'interno, di notte, quando faceva ancora più male e aveva tanta voglia di addentare qualsiasi cosa che non riusciva nemmeno a chiudere gli occhi. Provava allora con le pagliuzze della seggiola ma niente da fare, le gengive sanguinavano e perdeva un dente dopo l'altro.

Mandò via quell'immagine del marito affamato e ritornò a pettinare il nipotino che aveva una pancia tonda tonda e gli occhi buoni. «Non ti preoccupare, Ninuzzo, questa tutta altezza è».

03/01/09

Tre gocce di zammù

[caption id="" align="alignright" width="138" caption="venditore di acqua e anice"]venditore di acqua e anice[/caption]

La nonna ci tirava su ad acqua fresca e tre gocce di zammù, l'anice che la ditta Tutone imbottigliava ininterrottamente dal 1813, da quando Bolivar s'era preso Caracas e tutto il Venezuela. Sta connessione tra l'anice e il Sudamerica era uno dei cavalli di battaglia del nonno che in Venezuela aveva due fratelli e tre cugini che erano andati a cercar fortuna lì, sognando di divenir ricchi tanto da farsi il pediluvio e il bidè col petrolio.

Quando la fame rummuliava negli stomaci il beccuccio dell'oliera d'acciaio tracciava generose scie d'oro sul pane appena scaldato sulla piastra della cucina economica che divorava ciocchi d'ulivo e di limone.  Dopo la merenda c'era il riposino obbligatorio che durava sino all'ora di Dallas da vedere in ossequioso silenzio che l'alternativa era la mitragliata di sculacciate col battipanni di canapa intrecciata.