27/11/06

Finirà mai questa malía?






Un tempo per la laurea in filosofia erano sufficienti 19 esami. Permettetemi d'usare lo spazio di questo post per dialogare con la mia coscienza. Ne bastavano diciannove.

Diciannove, solo diciannove



Oggi, sommando quelle della triennale e quella della specialistica ho abbondantemente superato la quarantina.



Però tra poco potrò fregiarmi dell'invidiabile titolo di Dottore Magistrale. Doc Mag per gli amici...

Sposando da diretto interessato i legittimi dubbi del buon Severgnini, sintetizzo la faccenda.

Allora, se il dizionario non mente "magistrale "dovrebbe significare "relativo al maestro, all'insegnamento".



Ma sarebbe troppo facile andare ad insegnare con 40 materie sulla schiena (non entro nel merito di materie più o meno profonde o approfondite, me ne frego della faida tra vecchio e nuovo, tra nuovo e nuovissimo, tra ultranuovo e vetusto. Dico solo che andare a sostenere 40 esami è sempre una sfacchinata immensa, qualunque sia la portata del singolo evento):




  • Con la laurea specialistica è possibile accedere all'insegnamento secondario. In virtù della classe di afferenza del titolo e della distribuzione dei crediti in determinati settori o gruppi di settori scientifico-disciplinari (e non più delle annualità come accade per i diplomi di laurea del previgente ordinamento), come previsto dai decreti ministeriali che disciplinano le classi di concorso, i titolari di laurea specialistica o magistrale possono richiedere l'inserimento nella terza fascia delle graduatorie d'istituto per l'insegnamento nella scuola secondaria, di durata triennale. Per l'accesso alla prima fascia delle graduatorie d'istituto e alle graduatorie permanenti occorre conseguire l'abilitazione tramite concorso ordinario – non ne vengono banditi da un decennio – o diploma di specializzazione che si consegue al termine dei corsi biennali tenuti presso le scuole di specializzazione all'insegnamento secondario (SSIS). La legge 53/2003 prevede la possibilità di istituire, da parte delle università di concerto con il Ministero, di corsi di laurea specialistica ad accesso programmato direttamente abilitanti, ma non ne sono stati ancora istituiti. All'uopo il Ministro sembra intenzionato ad attendere l'emanazione delle classi delle nuove lauree magistrali.




Quindi dobbiamo aggiungere almeno cinque storie (A Palermo esistono due corsi di laurea diversi: filosofia [a sua volta bisezionata] e scienze storiche [parcellizzata in un numero imprecisato di curricula] ma la cattedra è unica, da sempre, si insegna filosofia E storia).



Quindi conditio sine qua non per insegnare è il superamento del test d'ingresso alla SSIS e, naturalmente altre migliaia di euro - gentilmente elargiti dai genitori che aspirano a foraggiarci in eterno - per semplicemente COMPRARE (pane al pane...) punti per scavalcare storici precari in una lista tendenzialmente infinita.



Bene, domani ho l'ultimo esame della specialistica.



Poi restano - aggiunte per sordido masochismo (tra quadre metto il conto alla rovescia):


  1. Storia Greca (6 cfu) [-4]


  2. Storia Romana (6 cfu)  [-3]


  3. Storia Medioevale (3 cfu) [-2]


  4. Storia Moderna (6 cfu) [-1]



E, naturalmente, dopo aver scritto già 120 pagine su Paul Celan - lette e apprezzate pure da Giuseppe Genna - un'altra tesi.



Sintesi: cinque anni di studio, 44 materie e manco la possibilità di una semplice supplenza...




*Tanto per nostalgia canaglia e menzognera riporto il piano di studi tradizionale della vecchia  e gloriosa filosofia


  1. Letteratura italiana

  2. Letteratura latina

  3. Storia romana

  4. Storia medievale

  5. Psicologia generale

  6. Storia della filosofia I

  7. una materia a scelta tra quelle attivate nella Facoltà

  8. Storia della filosofia II

  9. Storia moderna

  10. Filosofia morale I

  11. una  materia complementare

  12. una materia complementare

  13. Filosofia morale II

  14. Filosofia teoretica I

  15. Pedagogia generale

  16. una materia complementare

  17. Filosofia teoretica II

  18. una  materia complementare

  19. una materia complementare

Artisti all'assalto!

«Le arti esistono, per dirla secondo il nostro stile primordiale, in quanto rappresentano la gloria di Dio, o, per tradurre lo stesso concetto in termini psicologicamente comprensibili, per svegliare e mantenere vivo nell’uomo il sentimento della meraviglia.



Il successo dell’opera d’arte consiste nel dire, di qualsiasi soggetto (albero, nuvola o carattere umano che sia): “L’ho visto migliaia di volte ma non l’ho mai visto sotto questa luce fino ad ora”.



Ora, per far questo, una certa variazione di stile è naturale e persino necessaria. Gli artisti variano a seconda di come compiono il loro assalto, in quanto è di loro competenza compiere un attacco a sorpresa.



Devono donare una nuova luce alle cose, e non c’è da stupirsi se talvolta si tratta di un raggio ultravioletto impercettibile o una luce che ricorda l’ombra nera della pazzia o della morte».



da un articolo di G. K. Chesterton

(su segnalazione di Andrea Monda)




Gilbert Keith Chesterton



Nasce a Londra 29 maggio 1874. Benché si definisse modestamente un giornalista, egli fu un grande e versatile scrittore (saggista e romanziere brillante, con eccellenti doti di polemista, ironico ma senza acredine, di una ironia sanamente umoristica).



Notevole fu la sua capacità di trattnere rapporti amichevoli con gente, come George Bernard Shaw e H. G. Wells, con cui pure era in forte dissidio.



Affermava con forza ciò in cui credeva. Ad esempio fu uno dei pochi intellettuali ad avere il coraggio opporsi pubblicamente alla guerra boera.



Notevole anche la sua capacità di biografo, con saggi importanti tra l'altro su Charles Dickens e S. Francesco. La sua opera forse più famosa è legata al nome di "Padre Brown": un genere giallo, con storie scritte tra il 1911 e il 1936, in cui Ch. seppe racchiudere sempre un senso di utile saggezza.



Chesterton morì il 14 giugno 1936 a Beaconsfield, nel Buckinghamshire. La sua opera comprende 69 libri, pubblicati durante la sua vita, più una decina postumi.



Se Chesterton ha un merito notevole nell'ambito della letteratura cattolica, è quello di essere riuscito a dare della Weltanschaung cristiana un'immagine ilare, ironica, per quanto non perciò meno seria. Diciamo ciò non certo per deprezzare altri scrittori cattolici, come un Bloy o un Bernanos, nel mondo dei cui romanzi aleggia una tensione più implacabile, che sembra non potersi mai sciogliere in un sorriso: anche hanno una loro insostituibile funzione. Semplicemente, dentro la grande sinfonia della Provvidenza a Chesterton è toccato suonare uno spartito di altro genere.

25/11/06

La presunta morte della letteratura

mortedi Carla Benedetti



 (fonte lavagna del sabato n.222)



Qual è l'idea più memorabile espressa dalla critica letteraria italiana negli ultimi decenni?

Questa: che la letteratura italiana da decenni non esprime più nulla di memorabile. Che non solo non ci sono più scrittori dell'altezza di Calvino e di Pasolini, ma che nemmeno potrebbero più esserci, essendo venute meno le condizioni, essendo la letteratura entrata in una impasse storica. E questo è stato detto e ripetuto e teorizzato mentre libri vivi e importanti, che anch'io ho cercato di segnalare in questo giornale, continuavano a uscire in Italia.



Non si sa chi cominciò.  Forse Franco Cordelli con il suo Poeta postumo del 1978. ma quel che è certo è che non c'è mai stata nella cultura italiana un'idea più condivisa, che ha messo d'accordo tutti quanti, ex neo avanguardisti ed ex anti-neoavanguardisti, postmodernisti e neo modernisti, cattolici e laici, di sinistra e di destra. L'hanno formulata e ripetuta negli anni Luigi Baldacci, Cesare Garboli, e Giovanni Raboni, da poco scomparsi; Giulio Ferroni, Alfonso Berardinelli, Romano Luperini, Pier Vincenzo Mengaldo e molti altri. Talvolta persino qualche scrittore. L'annuncio è stato fatto talmente tante volte che ormai sembra una gag comica. E hanno detto anche che non ci sono più critici né "intellettuali".

Ma il picco più alto si è registrato in questi ultimi mesi , come in un gran finale di fuochi d'artificio. Ecco un piccolo florilegio dai giornali estivi.





Goffredo Fofi sul Sole 24 ore: "Trent'anni fa ci lasciarono Carlo Levi e Pier Paolo Pasolini. Vent'anni fa ci lasciarono Italo Calvino e Elsa Morante … un grande passato. Nessuno ha colmato questi vuoti, nessuno potrà più colmarli". Angelo Guglielmi intervistato sul Venerdì di Repubblica: "Cosa sta avvenendo nella nostra letteratura? Assolutamente nulla dagli anni Sessanta, dai tempi di Calvino e di Pasolini. E anche del nostro Gruppo 63". Alfonso Berardinelli sul Foglio scrive che "gli autori entrati in scena dopo il 1990" sono "mutanti". Persino Piergiorgio Bellocchio, il fondatore di Quaderni piacentini, intervistato sul Corriere fa capire che dopo Volponi non ha più incontrato nessuno scrittore italiano interessante. E lo scrittore Sebastiano Vassalli, anche lui intervistato sul Corriere, ripete amaramente che in effetti questa non è l'epoca giusta per gli scrittori.



Un intero mondo culturale che da decenni ripete lo stesso verdetto: siamo tutti morti. E' impressionante. Un'allucinazione collettiva di cui verrebbe voglia di ridere, se non fosse che non è affatto innocua come potrebbe sembrare. Al contrario agisce e ha agito in modo devastante. Non solo perché non riconosce le energie artistiche, critiche e di pensiero che ancora nascono in Italia, ma soprattutto perché fa loro il deserto attorno. Per anni hanno azzerato le attese e represso gli slanci. Hanno bruciato il terreno della cultura e così spianato la strada ad altre forze che hanno potuto invaderle incontrastate.

Guglielmi: "Nessuno oggi apre nuovi campi dell'immaginazione. Arte e letteratura producono opere tutte uguali". E' vero. La macchina editoriale internazionale occupa il mercato con libri tutti uguali, rendendo difficile la circolazione di quelli che non sono conformi. Ma è di questo che sta parlando Guglielmi? No, sta parlando di un destino epocale. La colpa è del "tempo nostro" che sarebbe addirittura affetto da un'"impotenza generandi", come ha ribadito sull'Unità.



Purtroppo tesi del genere si trovano anche in studi seri, competenti, come quello di Guido Mazzoni (Sulla poesia moderna, il Mulino) che sostiene la necessità storica del declino della poesia nel mondo odierno: "La qualità degli scrittori non ha alcun peso in questo processo... Purtroppo le grandi trasformazioni storiche prescindono dal valore degli individui, che è sempre troppo piccolo per non risultare irrilevante". E se oggi nascesse a Recanati un grande poeta gobbo? Ma no, sarebbe ugualmente irrilevante. E' tipico dello storicismo vedere la storia sotto la lente della necessità. Ma almeno i vecchi storicisti credevano nello sviluppo, in un realizzarsi progressivo dell'essenza umana. Questi nuovi storicisti delusi credono invece nella necessità del declino, dell'impotenza degli individui, e dell'epigonismo. Uno storicismo rovesciato, ancor più paralizzante.



E non parlano del colonialismo culturale, dell'aggressività della nuova industria editoriale (questa sì mutante), o dell'abbandono del campo da parte di critici e giornalisti culturali rassegnati, quando non conniventi con la logica pubblicitaria che sta aggredendo il terreno del pensiero e dell'espressione. E chi dice che non c'è più un Pasolini si guarda bene dall'aggiungere che oggi probabilmente anche a Pasolini sarebbe stato molto più difficile parlare dalla prima pagina di un importante quotidiano. Su "Panorama" Fofi ribadisce la sua diagnosi: Nessuno oggi ha "un coraggio, un'intelligenza un'irrequietudine attiva, una capacità di rischiare paragonabile alla loro", cioè ai soliti Pasolini, Calvino, Morante e Carlo Levi.

Alias del Manifesto ha ospitato un dibattito tra Franco Cordelli e alcuni scrittori più giovani. Discutevano se è vero o no che la letteratura continua. Poiché - come scrivono un po'comicamente i due coordinatori, Andrea Cortellessa e Graziella Pulce - bisogna pur ammettere che "non tutto è già finito: altrimenti faremmo un altro mestiere" sembrava di assistere ad una seduta spiritica. Persone che da anni predicano la condizione postuma della letteratura, e che ora, sentendosi scavalcate da tutte quelle voci che fanno ancora scommesse forti sulla scrittura, tentano con fatica di riposizionarsi. Però senza il vigore rigenerante di una seria autocritica. Senza il coraggio di affermare la forza antagonistica che può esserci in quella cosa che chiamano "letteratura". Sul Foglio Berardinelli così sintetizza il dibattito di Alias: "Fra critici e scrittori non c'è differenza... La critica è un genere letterario e il romanzo è un genere critico".



Andiamo bene. Dopo che si è detto che il romanzo è morto e la critica è morta, si può scegliere dal menù del cimitero la combinazione che si preferisce.



Da tempo mi interrogo su quale sia stata la funzione dei miti di morte che hanno accompagnato la modernità occidentale fin dai suoi albori, a partire da quello hegeliano della morte dell'arte. E poi di quello poststrutturalista della morte dell'autore. E di quello postmodernista dell'esaurimento della letteratura, della fine del nuovo, della fine della storia, della morte del futuro. Disperazioni apparenti e consolazioni segrete. Miti ambigui, ora euforici, ora malinconici, ma sotterraneamente annichilenti. E mai come in questo ultimo periodo se ne è potuta avere la conferma concreta. Quei ritornelli sono serviti a smobilitare e a liquidare. Sono stati utili agli altri, ai veri avversari con cui oggi ci troviamo in un conflitto diretto: la normalizzazione dei generi letterari, la monocoltura del noir e del thriller, il ricatto populistico delle classifiche di vendita, l'enorme spazio dato alla cultura anglofona, l'audience che sostituisce il giudizio, la promozione pubblicitaria travestita da recensione, i testimonial televisivi e i book-jokey che hanno preso il posto dei critici, i tempi stretti imposti dagli uffici stampa editoriali che impediscono la riflessione, le grandi macchine di ottundimento e la colonizzazione dell'immaginario.



L'alveo della cultura, quella semiosfera protettiva in cui si svolgevano un tempo le discussioni, le contrapposizioni, gli scontri di poetiche, è stato smantellato. È una situazione inedita nella storia della modernità. Ma è anche una situazione finalmente aperta, da cui tutto può ricominciare. Perché ormai i veri termini del conflitto non sono più nascosti. Perché è emersa anche un'altra posizione rispetto a quei discorsi di capitolazione ripetuti per decenni. Perché ormai è chiaro che in questo combattimento non sono in gioco solo schermaglie estetico-letterarie basate sul gusto, ma cose di vitale importanza, decisive anche da un punto di vista antropologico.



Articolo tratto dal settimanale L'Espresso, Febbraio 2006

23/11/06

meglio di Sharon Stone

Riceviamo e volentieri segnaliamo

fonte: Ozarzand Journal



Saruzzo era tutto in fermento come il mosto ribollente del vino di Pachino che gli piaceva tanto, di dentro stava tutto scombussolato come le macchine che aggiustava nella sua officina; solo che quelle riusciva ad aggiustarle, mentre lui, a sé stesso, non sapeva come dare aiuto



Per farla breve ché il tempo è poco e passa veloce, s’ era innamorato di Carmela, lo aveva acchiappato per lei un appassionamento carnale di bestia ferita che ansima e cerca disperatamente l’ abbranco, una cosa di carne tirata ed esasperata....


La lettera di Lord Chandos. Rileggendo Gino Tasca





Una lettura di Gino Tasca (che alla lettera aveva dedicato il suo blog)

[Il testamento spirituale di Gino: Isaia Greco, qui una lettura di Gabriele Dadati]



Ultimamente mi è capitato di leggere – per il laboratorio di lettura che tengo presso l’Accademia Platonica fondata dal mio ex analista, Ettore Perrella - la "Lettera di Lord Chandos" di Hugo Von Hofmannsthal (il titolo originale, però, è solo "Ein Brief", "Una lettera").



Per chi non sapesse nulla di Hugo Von Hofmannsthal, preciso che è più famoso per la sua collaborazione – come librettista – con Richard Strauss ("Il cavaliere della Rosa", "Arabella", "La donna senz’ombra", "Capriccio") che per il resto della sua opera e che era così precoce da scrivere apprezzatissime ed estenuate poesie stando ancora al liceo, a diciassette anni, sotto lo pseudonimo di "Loris".



Nato nel 1874, scrive questa lettera che parla di una grave crisi nella scrittura, al limite dell’afasia, nel 1901-02, cioè a ventisette anni.



(Ero così convinto che questa lettera fosse opera di un autore ben maturo che non me ne ero mai accorto.)



E – come capita quasi sempre – quando si scrive una cosa sull’impossibilità di scrivere, si è già guariti. Infatti, dopo, non fece che scrivere, fino al 1929 quando morì per un’emorragia cerebrale, pochi giorni dopo che il figlio si era ucciso.



Ma c’era una cosa che continuavo a non capire.



A pag. 41 (dovrete avere pazienza: mi toccherà fare molte citazioni) descrive lo stato di felice incoscienza in cui scriveva prima della "crisi", così:



"Una esperienza valeva l’altra; una non era inferiore all’altra né nell’energia vitale né nel carattere onirico soprannaturale, e così era per tutto quanto la vita abbracciava, da ogni lato; in tutto ero coinvolto profondamente, mai mi avvidi di una parvenza fallace. Oppure intuivo che tutto era identità, e ogni creatura la chiave per un’altra. E mi sentivo come colui che doveva essere in grado di afferrarle una dopo l’altra e di schiuderne tante altre con essa, quante quella ne potesse disserrare."



Non sembra la descrizione di qualcosa di negativo, no?



E, quindi, perché – dopo tre righe – aggiunge "Chi fosse incline a tale modo di sentire, dovrebbe giudicare saggio piano di una provvidenza divina il fatto che il mio spirito fosse destinato a cadere da una così gonfia presunzione (n.b. – le sottolineature sono mie) a questo estremo di scoramento e debolezza"? Perché?



Anche perché, poco dopo, a pag. 51 (sto seguendo la edizione della BUR), descrive lo stato di rinnovata innocenza, più o meno con le stesse parole e, quindi, cosa era successo – in mezzo – per cui il primo atteggiamento si transvalutasse da "gonfia presunzione" in salvezza?



Trascrivo il brano di pag. 51.



"Era assai più e assai meno che compassione: una smisurata partecipazione, un trasfondermi in quelle creature, o la sensazione che un fluido di vita e di morte, di sogno e di veglia si fosse riversato per un momento in esse …"



E, subito dopo, a pag. 52.



"Queste creature mute, talvolta inanimate si levano verso di me con una tale pienezza, una tale presenza d’amore (le sottolineature sono mie) che il mio occhio letificato non riesce a scorgere dattorno nulla che sia morto. Mi pare che tutto, tutto q uello che c’è, tutto di cui mi sovviene, tutto quanto sfiorano i miei più confusi pensieri, sia qualche cosa. … Sento dentro di me e attorno a me una solleticante infinita rispondenza, e tra gli elementi che si contrappongono nel gioco non v’è alcuno in cui non sarei in condizione di trasfondermi."



E, ancora, a pag. 59:



"E tutto è una sorta di febbrile pensare, ma pensare in un elemento che è più incomunicabile, più fluido, più ardente delle parole. Sono vortici, ma a differenza dai vortici della lingua, questi non paiono condurre a sprofondare nel vuoto, bensì al contrario in qualche modo riportano in me stesso e nel più riposto grembo della pace".



E, poco prima, a pag. 51 ancora, all’inizio:



"… era qualcosa di più, di più divino, di più animale: ed era presente, il presente più pieno e più vero."



Prima di chiedermi cosa sia avvenuto, nel frattempo (o nel non-tempo?) per transvalutare completamente il "panico" di pag. 41 nel "panico" di tutte le altre successive citazioni, vorrei far notare come quel "qualche cosa" riassuma le tre doti che – per Joyce – devono avere gli oggetti epifanici: integritas, riconosciamo che l’oggetto è un’unica cosa; consonantia: riconosciamo che, avendo una sua certa struttura, quella è una cosa di fatto; claritas: riconosciamo che è quella cosa che è. Tutto questo sta in quel "… sia qualche cosa".



Faccio anche notare - prima di provarmi a fornire una risposta che, avviso già da ora, sarà fortemente arbitraria – che, a pag. 45, fra i sintomi della sua malattia, Lord Chandos, dice che non era più in grado di dare anche i più semplici giudizi. Non sapeva più dire se il fittavolo fosse onesto o meno o se il tal predicatore fosse bravo.



E questa cosa mi lasciava molto perplesso – avevo come l’impressione che questa parola, giudizio, contenesse in sé la spiegazione di tutta la faccenda e, con questo pensiero in testa mi ero messo a letto e mi ero addormentato. Poi, verso le due di notte mi ero svegliato e avevo pensato che il giorno dopo avrei messo a confronto – su questo termine – un certo libro e la lettera. Sì, sì, mi ero detto, mi sembra una buona strada. Potete ben immaginare come è andata a finire. Alla mattina non sapevo se avevo sognato o se sul serio avevo pensato quella cosa. Fatto sta che del libro non c’era più traccia.



E così, per disperazione, il pomeriggio, mi ero messo a confrontare il testo di Von Hofmannsthal con il commento alla lettera di San Paolo ai Romani fatto da Ettore Perrella e – solo dopo avere letto tutte le sue complicate e luminose pagine sul "giudizio" – mi ero accorto che lì c’era la chiave per capire Chandos e che era proprio quello il libro a cui avevo pensato durante la notte.



Bene. Perrella fa un commento riga per riga di tutta la lettera di San Paolo ma a noi, qui, interessa, quello che dice a proposito del giudizio, partendo dal testo paolino laddove dice qualcosa come: voi che giudicherete, solo voi sarete giudicati. Attenzione: non è la solita storia buonsensaia della trave e della pagliuzza. Non è la solita etica del: non giudicare visto che chi è senza peccato, solo lui, potrebbe scagliare la prima pietra. No. Qui si tratta di non giudicare mai, in nessun caso, anche se si è puri. Anzi, nel momento in cui si giudicasse già tali non si sarebbe più.



Trascrivo, quindi, alcuni brani del commento di Perrella.



"Paolo, ora, trae le conseguenze di quanto ha detto prima, facendo squillare le trombe del giudizio. Infatti anapologhetos, "indifendibile", è termine giuridico, come krino, "giudico", e katakrino, "mi condanno da me", ma, letteralemente, "giudico di ritorno" o "retroattivamente": verbo riservato a coloro che giudicano gli altri secondo la Legge, e in questo modo si condannano, perché il giudizio che emettono sugli altri ritornerà direttamente su loro stessi, non tanto, come sembra dire il testo, perché fanno a loro volta le azioni che condannano, quanto perché le giudicano negli altri, e proprio in questo modo si espongono al giudizio retroattivo, al katakrinein in cui consisterà il giudizio divino e definitivo … Dio giudica secondo verità. Lo sappiamo, evidentemente, perché il suo stesso giudizio assoluto non sarà (o non è) che un giudizio "di ritorno", vero con assoluta evidenza proprio in quanto non è formulato da Dio, ma dall’uomo stesso che viene giudicato."



"L’evo eterno, il Tempo assoluto, l’ aion, è concesso, nel giudizio – ancora una volta attraverso il katakrinein – solo ai fedeli che hanno saputo pazientare – in realtà restare indietro nella loro "pazienza", ipomoné, cioè nella sospensione della loro attesa -, perché un atto può dirsi buono solo in quanto viene compiuto in questo restare indietro del giudizio … proprio perché chi lo compie "resta indietro" rispetto ad esso, trattenendosi nella sua ipomoné, mentre il giudizio può solo concludere e chiudere un atto … questo restare



indietro è la vita eterna …"



Parlando, poi, di un altro commentatore della lettera ai romani, Schlier, che si stupisce dell’uso del verbo al presente che Paolo fa nel parlare del giudizio finale, che, senza dubbio, è futuro, dice:



"Tuttavia questo futuro, abbiamo detto, non è tale se non perché è già incluso nel presente … Ma è presente solo in quanto l’atto stesso è sempre presente: lo è quello di ieri come lo è quello di domani, perché nella giustizia della decisione noi abbiamo già superato ogni determinazione temporale. Solo per questo il giudizio futuro è già presente nell’atto, tanto che possiamo spingerci a dire che il tempo si genera nell’atto, al punto che esso è poiesis, fattura, o addirittura ktisis, creazione, del tempo, ma lo è solo nella misura in cui è anche apokalypisis, rivelazione definitiva e chiusura del tempo stesso che genera. Il tempo si apre e si chiude a partire da ciascuna giusta poiesis, in quanto questa è giusta proprio perché è un restare indietro, una ipomoné del giudicare nel fare. Ed è una ipomoné di cosa? Evidentemente solo di ciò in cui si scrive la legge: il linguaggio. Nel restare indietro del giudizio, le parole … tornano ad essere Logos vale a dire Parola come principio dei loghismata, vale a dire Parola al di là del tempo e al di qua del tempo, insomma "al tempo stesso" arché, principio, e conclusione del tempo.



"Il tempo cristiano è quello della vita eterna, della Theò aionion, cioè il tempo della vita, eterna solo in quanto vita, vale a dire solo in quanto il suo tempo e il Tempo – l’evo, l’aion – del suo ritorno. La vita è eternamente-ritornante nel tempo. Questo eternamente-ritornante è il movimento della salvazione, mentre la salvezza, di per sé, è sovratemporale, come il Logos ch’è principio e fine del tempo creato."



Insomma, che lo sapesse o meno, Lord Chandos, nel sospendere il giudizio (anzi, per grazia – la sua crisi è la grazia della noche oscura - non potendolo più emettere), si stava salvando nell’eterno presente divino ed animale di cui parla.



E, quando nelle righe finali, prova a dire perché non scriverà più (lui sì ma Von Hofmannsthal – grazie a lui – no) dice.



"perché la lingua in cui mi sarebbe dato non solo di scrivere, ma forse anche di pensare, non è il latino né l’inglese né l’italiano o lo spagnolo, ma una lingua di cui non una sola parola mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute,



e in cui forse un giorno nella tomba mi troverò a rispondere a un giudice sconosciuto".



Diciamo che Von Hofmannsthal è finalmente passato dall’estetica di un al di qua del principio del piacere, ad un etica di un giusto fare.



La cosa da dire resta la stessa ma gli occhi si sono – finalmente – illimpiditi.



30 dicembre 2004


Novantazeroundici.it: Bagheria on line







“Novantazeroundici.it”, notizie da Bagheria: nasce con questo nome nella cittadina palermitana un notiziario on-line (sul sito www.90011.it) che intende «raccontare la realtà in maniera puntuale, senza condizionamenti né peli sulla lingua».



Direttore responsabile della neonata testata (al momento in attesa di registrazione) è Giusto Ricupati.



La redazione si occuperà di informazione a trecentosessanta gradi partendo da Bagheria ma con un occhio alle notizie dal mondo.



Tutti gli articoli pubblicati sono aperti ai commenti del pubblico e liberamente riproducibili.





(fonte Balarm)

21/11/06

iLit: letteratura per Ipod

Marsilio Editori presenta iLit Letteratura per iPod


Audioracconti in mp3 da ascoltare e scaricare liberamente, tratti dai romanzi di Marsilio X, la nuova collana dedicata alla ricerca di nuovi talenti e voci innovative sulla scena letteraria italiana


I primi audioracconti, realizzati dalla compagnia teatrale Teatro Minimo, sono:



  • Il volo di sole di Gero Giglio (tratto dal romanzo Bungee jumping) L'amore tra due adolescenti difficili. Un salto nel vuoto alla ricerca della libertà


  • La Nanda di Nino G. D'Attis (tratto dal romanzo Montezuma airbag your pardon) Sesso. Alcolici. Codici a barre. Carrelli della spesa pieni di merce. Questa è la storia di un uomo che cade a pezzi


  • Fanteria mentale di Marco Bacci (tratto dal romanzo Supervita) Una guerra del futuro combattuta con i cadaveri comandati telepaticamente dei soldati "veri"



I racconti si possono ascoltare qui: http://www.treemo.com/users/marsilionews/sets/2806


Il podcast di iLit: http://www.radiopodcast.it/user/podcast/iLit.xml


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Marsilio Editori

www.marsilioeditori.it

15/11/06

Pubblicità VibrisseLibri

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13/11/06

Faccio Vibrisselibri perché

Il giorno che ho finito di raggruppare le facce dei vibrisselibrai ho tirato un sospirone di sollievo da far schiattare d'invidia Eolo...



Tutto ebbe inizio con una criptica email di Giulio Mozzi che all'inizio di giugno mi disse che c'era un piccolo lavoretto di grafica da fare... Praticamente per tutta l'estate, sino alla fine di settembre ho dedicato almeno mezz'ora al giorno a reclamare, richiamare, uniformare, ingabbiare le facce dei volenterosi "vibrisselibrai". Che poi sarebbero tutti quelli che hanno accettato ad occhi chiusi l'idea bombetta di Giulio Mozzi.



Oggi il risultato è sulla scrivania di molti giornalisti italiani, la cartelletta stampa con tanto di facce è una cosa di cui vado particolarmente fiero, soprattutto dopo che l'ufficio grafico ha valorizzato tanto lavoro in un voluto omaggio a Warhol.



Ognuno dei vibrisselibrai ha messo la faccia e il perché. Un vecchio pallino di Giulio, figlio di una pubblicità degli anni settanta a un amaro d'erbe.



Oggi, ad appena tre giorni dal giorno più lungo per Vibrisselibri voglio ricordare almeno i perché di tutti quelli che hanno detto sì.



Senza nessuna prospettiva di guadagno, al semplice pensiero di poter concretamente fare qualcosa per dei libri che sono "mostruosi" nel senso etimologico del termine: piccoli prodigi come il saggio di Demetrio Paolin sugli anni di Piombo e la loro ricezione nella letteratura italiana, o tomazzi come "L'organigramma" di Andrea Comotti, giustamente sottotitolato "il largo addio":



  • Giulio Mozzi scrittore,“faccio vibrisselibri perché o lo faccio adesso o mai più”

  • Bartolomeo Di Monaco pensionato,“faccio vibrisselibri perché si sta in compagnia e si scoprono nuovi talenti. Vi pare poco?”

  • Lucio Angelini scrittore/traduttore,“faccio vibrisselibri perché dopo aver fondato le ormai defunte edizioni Libri Molto Speciali, non ho resistito all'idea di occuparmi di nuovo di LIBRI MOLTO SPECIALI”

  • Luca Tassinari lettore lento, “faccio vibrisselibri perché i libri, come i dispetti, è meglio farli che subirli”.

  • Stefania Nardini giornalista-scrittrice, “faccio vibrisselibri perché vorrei evitare di emigrare”

  • Annamaria Manna insegnante di tedesco e guida internet, “faccio vibrisselibri perché mi piace navigare e pescare buoni libri”

  • Mauro Mongarli copywriter, “faccio vibrisselibri perché odio la polvere sui/dei/nei libri”

  • Mauro Mirci impiegato comunale,“faccio vibrisselibri perché trovare buoni libri non è un lavoro per gente qualunque”

  • Rossano Astremo giornalista e scrittore, “faccio vibrisselibri perché m'allettano le sfide editoriali impossibili...”

  • Tonino Pintacuda & Maria Renda giornalista praticante & latinista, “facciamo vibrisselibri perché qualcuno doveva farlo pure in Sicilia”

  • Maura Gancitano studentessa universitaria, “faccio vibrisselibri perché è un progetto nuovo e leggere è una delle cose che mi piace di più al mondo”

  • M. Cristina Di Luca studentessa,“faccio vibrisselibri perché il gruppo lavora con il sorriso”

  • Fabio Fracas autore, editor, compositore, docente universitario e analista di sistemi, “Faccio vibrisselibri perché non sapevo come occupare il tempo libero”

  • Anna Bonfiglio pubblicista e scrittrice,"faccio vibrisselibri perché non ho nessun motivo per non farlo"

  • Federico Miozzi laureando in Medicina e Chirurgia e allenatore di pallavolo,"faccio vibrisselibri perché amo le imprese"

  • Demetrio Paolin artigiano del sostantivo e del predicato,“Faccio vibrisselibri perché alla fine rimane la letteratura, almeno un po'”

  • Marco Candida scrittore, “faccio vibrisselibri perché lo fa anche Enrica Brambilla”

  • Ezio Tarantino bibliotecario, “Faccio vibrisselibri per non lamentarmi più dello stato dell'editoria”

  • Giorgio Morale insegnante e scrittore, “faccio vibrisselibri perché mi piacciono i libri”

  • Giulia Tancredi traduttrice e interprete, "faccio vibrisselibri perché è un'idea innovativa e romantica insieme"

  • Ramona Corrado infermiera,“faccio vibrisselibri perché magari imparo un mestiere diverso. E perché intanto... impara l'arte e mettila da parte”

  • Stefano Mazzoni archivista “faccio vibrisselibri perché ad un certo punto bisognerà pur iniziare a fare qualcosa di buono”

  • Francesca Dello Strologo avvocato, “faccio vibrisselibri perché: non vorrei finire come Don Ferrante”

  • Valeria Cappelli redattore, “faccio vibrisselibri perché...sto dalla parte di tutte le parole che diventano storie”

  • Gualtiero Bertoldi anglista,“faccio vibrisselibri perché così posso mettere mano e occhio nel magma vivo della scrittura italiana”

  • Antonio Brancaccio coordinatore di redazione, “faccio vibrisselibri perché... scriverlo sarebbe troppo facile"

  • Giuseppe D’Emilio docente,“faccio vibrisselibri perché... voglio scovare i classici del XXII secolo”

  • Gianluigi Bodi studente, “faccio vibrisselibri perchè Fight Club è a numero chiuso”

  • Cristina Coppellotti responsabile risorse umane, “faccio vibrisselibri perché c'era una parte di me che non aspettava altro”

  • Margherita Trotta redattrice, “faccio vibrisselibri perché esserci è più divertente che stare a guardare”.

  • Lorenzo Ireni programmatore,“faccio vibrisselibri perché amo i fuori programma”

  • Gaja Cenciarelli scrittrice e traduttrice, “faccio vibrisselibri perché resisto a tutto tranne che alle tentazioni...letterarie!”

  • Claudio Ambrosi bibliotecario, “faccio vibrisselibri perché voglio prestarmi ai libri”

  • Monica Golfari redattrice, “faccio vibrisselibri perché lavorare con e per i libri mi dà soddisfazione”

  • Pamela Canali impiegata statale, “faccio vibrisselibri perché la carta è passata di moda, quest'anno si porta il web”

  • Toni La Malfa dentista, “faccio vibrisselibri perché lo farebbe anche Woody Allen”

  • Massimo Adinolfi filosofo, “faccio vibrisselibri perché, a quel che so, la rosa fiorisce senza perché, e credo che vibrisselibri possa fare altrettanto”

  • Gianfranco Recchia informatico,“faccio vibrisselibri perché le parole sono amanti e i libri sono i figli della colpa. ”

  • Manuela Perrone giornalista, “faccio vibrisselibri perché aspettavo Godot”

  • Giuseppe Mauro impiegato-scrittore,“faccio vibrisselibri perché è cosa buona e giusta”.

11/11/06

I nuovi sentimenti

Riceviamo e segnaliamo:



Il libro I nuovi sentimenti, curato da Romolo Bugaro e Marco Franzoso, pubblicato dall'Editore Marsilio, con la partecipazione di Marco Bellotto, Gianfranco Bettin, Umberto Casadei, Mauro Covacich, Alberto Fassina, Roberto Ferrucci, Alberto Garlini, Marco Mancassola, Giulio Mozzi, Massimiliano Nuzzolo, Tiziano Scarpa, Vitaliano Trevisan, Gian Mario Villalta,


sarà presentato nell'Aula Magna dell'Univeristà di Padova martedì 14 novembre, alle ore 17, con la partecipazione di Cesare De Michelis, Marco Paolini, Gian Antonio Stella.


Qui una scheda del libro

Altri squilibri di Annalisa Bruni

Mercoledì 15 novembre 2006, alle ore 17.00 al Centro Polifunzionale “Giovanni Pascoli”

Piazzale San Benedetto n. 1, Campalto – VE


Sarà presentato il libro

Annalisa Bruni, Altri squilibri, Spinea, Edizioni Helvetia, 2005



Coordina Caterina Albano.

Interverrà l’autrice.



Info: 041.900330



Annalisa  Bruni, Altri squilibri, Spinea, Edizioni Helvetia, 2005



Undici short stories sul pluriverso femminile contemporaneo, scandagliato in punta di penna da Annalisa Bruni secondo traiettorie oblique ed ineccepibili, con repentini sbandamenti del baricentro calibrati appositamente per tenere spostato il punto focale del lettore verso gli aspetti più borderline della nostra quotidianità. Nei racconti di Altri squilibri si sperimenta molto, si provoca altrettanto, si gioca liberamente (e talvolta un po’ cinicamente) con le “donne sull’orlo di una crisi di nervi”, procedendo per costruzioni a cerchi concentrici che finiscono inevitabilmente per convergere in gustosi colpi di scena. Madri apprensive, mogli fuori luogo, amiche autolesioniste, amanti a perdere, stravolte dalle loro stesse ossessioni, dal loro ininterrotto monologare autofagocitante ed implosivo, dalla paranoia degli occhi degli altri sempre puntati addosso, dai modelli omologati “made in USA”, dal fiato corto per correre appresso ai tempi che corrono, per sentirsi donne in un mondo in cui non si sa più bene cosa voglia dire essere donna.



E gli uomini? Ci sono anche loro, ovviamente… in qualche caso risolvono le questioni, ogni tanto amano giocare al gatto e al topo e se va male se ne escono con le ossa rotte, ma il più delle volte se ne stanno semplicemente lì a vedere come va a finire.

Annalisa Bruni con Altri squilibri ha accostato brillantemente l’intelligenza al senso del grottesco, la scrittura leggera, vitale e spigliata a trame solide e ben delineate, fatte apposta per durare a lungo sia nel tempo che nella memoria.





Annalisa Bruni
è nata a Venezia e vive a Mestre. Lavora alla Biblioteca Nazionale Marciana dove organizza e promuove mostre ed eventi. Ha pubblicato racconti su riviste e volumi antologici. Ha scritto radiodrammi e sceneggiature radiofoniche per Radio3 Rai e la Radio Svizzera Italiana.  Ha esordito con il suo primo libro (Storie di libridine) nel 2002.

Dal 1998 al 2005 ha diretto il Laboratorio di scrittura creativa del Circolo culturale "Walter Tobagi". Di recente ha ideato un nuovo corso di scrittura creativa per l'Associazione "RistorArti": "Cucina di storie". Dal 2003 al 2005 ha curato il corso di scrittura cinematografica "Raccontare Mestre". Nel 2005 ha pubblicato la sua seconda raccolta di racconti: Altri squilibri, e ha curato, con Lucia De Michieli e Tiziana Agostini, l'antologia di racconti degli allievi del Laboratorio: Non disturbare. Scritture in corso. In questi giorni è uscito, edito dalla Fondazione Querini Stampalia, il suo racconto: Langenwang.

È attivamente impegnata nella promozione della lettura.

09/11/06

Leggere lentamente anche Genna

ritratto del lettore"Luca Tassinari è il profeta del lentismo". Durante la rassegna stampa ho trovato l'articolo sulla lettura lenta. Il caso, che scorre lento e inesorabile, m'ha concesso l'onore d'essere stato il primo a segnalarlo al diretto interessato, consiglio a tutti di leggere - lentamente - l'articolo che oggi campeggia sulla Stampa a p.29- Celebra ovviamente la Lettura Lenta (qui la versione digitale).



E leggete lentamente pure i progressi della nuova opera dello scrittore Giuseppe Genna. Nella seconda puntata entra in gioco anche il sottoscritto... nella terza tocca a Walter Benjamin.



05/11/06

L'essenziale nel quotidiano

di Antonio Spadaro

(fonte: CONQUISTE DEL LAVORO, supplemento "Via Po"- 16 marzo 2002)



Carver e la moglie Tess Gallagher«Bruciante»: è forse questo l'aggettivo che meglio definisce la prosa e la poesia di Raymond Carver (1938-1988). Egli nella sua splendida poesia The pipe, affermò di voler scrivere poesia che avesse «della legna/ proprio al centro, legna da ardere» o addirittura un «caminetto dove pezzi di abete impregnati/ di resina andranno in fiamme, consumandosi tra loro».



Queste parole descrivono una «letteratura di potenza» che è potenza dell'attesa di un senso per il nostro essere vivi. Nell'opera dello scrittore statunitense le parole infatti si muovono in un territorio compreso tra un certo spaesamento esistenziale, la paura della morte e il bisogno di essere amato, facendo comprendere come l'espressione letteraria migliore sia sempre frutto di una necessità interiore. Nell'opera carveriana non troviamo trucchi, orpelli, stratagemmi per catturare il lettore. L'efficacia espressiva è garantita da una vibrante capacità di porsi in relazione alla vita, ai fatti, agli oggetti, alla realtà. Carver ha avuto la capacità di cogliere l'essenziale nel quotidiano e di mostrarne la tragedia (specialmente nei primi racconti) e la grazia (specialmente negli ultimi). È dunque nelle pieghe della vita che Carver può invocare una salvezza, scoprire la tenerezza e rintracciare un'energica quanto sotterranea apertura al mistero, al senso di rivelazione, e a una «redenzione», stimolata dalla dura esperienza di alcolista, che lo segnò profondamente.



Carver nacque nel 1938 in un minuscolo paese nell'Oregon (Stati Uniti) ed è ormai considerato un «autore di culto», sempre più viene letto e conosciuto anche in Italia soprattutto come narratore, nonostante egli si sia sempre considerato innanzitutto un poeta. La casa editrice Minimum fax sta pubblicando in Italia tutta la sua produzione letteraria, compresi i testi già pubblicati in passato da altri editori. Ciò che colpisce nelle sue prime raccolte di racconti (Vuoi star zitta, per favore? [1976], Di cosa parliamo quando parliamo d'amore [1981]) è senz'altro l'incredibile rapidità ed essenzialità espressiva. Le narrazioni spesso nascono solo da una frase ascoltata per caso o da situazioni colte fotograficamente all'interno della vita ordinaria. L'arte deve tornare alle cose che contano, «le cose che sono vicine al cuore dello scrittore, le cose che ci muovono interiormente». In Dostoevsky (1985), l'unica sceneggiatura che Carver scrisse, il grande scrittore russo afferma: «... un essere umano è un misteroŠ mi dedicherò a questo mistero perché voglio essere un uomo...».



La sua vita non fu facile: sin da giovanissimo fu costretto a lavorare per mantenere la sua famiglia, ma nello stesso tempo riuscì a continuare gli studi letterari. A diciotto anni ebbe un figlio dalla sua ragazza sedicenne, Maryann Burk e i due si sposarono. Ma la vita dello scrittore da questo momento proseguì ancor più in salita. La necessità del sostentamento economico della famiglia lo costrinse a lavori duri e il rapporto con la moglie si deteriorò fino alla rottura definitiva. L'alcolismo assediò la sua vita proprio mentre i suoi testi, poesie e racconti, cominciavano ad essere pubblicati e a fornirgli notorietà. Questa vicenda biografica ha in qualche modo plasmato i tratti dei personaggi dei primi racconti. Loro caratteristica fondamentale è l'incomunicabilità, nonostante nel testo ci siano molti dialoghi, i quali sono tutti fitti, sincopati e ritmati da continui «dissi» e «disse». In una pagina se ne contano fino a sedici. Una sorta di destino inesorabile allunga la sua ombra sulle vicende da essi vissute, che anche quando finiscono in tragedia non cedono minimamente alla concitazione. Il male accade spesso è il generico, ma realissimo, «male di vivere»; e la tragedia assume i tratti della quotidianità e del piccolo gesto. Non c'è altro da dire o da commentare circa la nuda, scandalosa e tragica oggettività del male: è un fatto.



Con la pubblicazione della raccolta Cattedrale (1983) emerge un certo ottimismo e sembra possibile una forma, anche delicata, di redenzione, di salvezza, grazie a sentimenti di tenerezza, a sguardi in un passato di innocenza, a modi alternativi di porsi di fronte al reale che procurano un'inattesa meraviglia. Anche nella vita di Carver qualcosa era cambiato: il contatto con gli Alcolisti Anonimi era giunto come un'esperienza di vera e propria «redenzione». Come afferma T. Gallagher, a sua volta Carver voleva «redimere» i suoi lettori, «nel senso biblico di riscattarli, affrancarli dalla loro schiavitù", ma anche di "assolverli". Ray lavorava alla sua arte, ma questa lo coinvolgeva nei metodi classici per ottenere l'assoluzione: ascoltare e raccontare». Un avvenimento centrale della sua vita fu, mentre si distaccava dall'alcool, la conoscenza di una poetessa che insegnava letteratura all'Università di Syracuse, dove Carver stesso insegnò tra il 1980 e il 1984: Tess Gallagher, la quale gli starà accanto fino a quando lo scrittore non verrà stroncato da un tumore nel 1988 a soli cinquant'anni. Poco prima aveva ottenuto un Dottorato honoris causa in Lettere dall'Università di Hartford.



Lo stesso Carver definisce le storie di Cattedrale «più piene, più forti, più sviluppate, più aperte alla speranza», una «"speranza" nel senso di aver fede», un atteggiamento di fiducia aperta sul reale e sulla vita. La sua ultima poesia è composta di una domanda e di una risposta: E hai ottenuto quello che/ volevi da questa vita, nonostante tutto?/ Sì. E cos'è che volevi?/ Potermi dire amato, sentirmi/ amato sulla terra». Le ultime sue parole scritte: «No more words», non più parole.

"Tutto in Sud America parla italiano"

USA. Domenico Porpiglia: un inviato speciale che ha a cuore la “gente d’Italia”.

di Antonella Parmentola

fonte: La Mescolanza



Domenico Porpiglia, 61 anni, è direttore de “La Gente d’Italia”, quotidiano che fonda nel 2000. Conosce profondamente il continente americano, da nord a sud, perché, per 35 anni, è stato “inviato speciale” del Mattino. Sulla variegata situazione degli italiani all’estero dice che “dovremmo cominciare a capire che nell’altra Italia c’è un pezzo di noi che ha bisogno di tutto”.

 

Da quanto tempo vive all’estero?

“Da sette anni”.



Per quale motivo ha deciso di trasferirsi?

“Perché già mi recavo negli Usa e nei Carabi in media quattro volte l’anno”.




E così…?

“Sono andato via dal “Mattino”, dopo 35 anni di “inviato speciale” in giro per il mondo: avevo casa a Miami ho pensato bene di trasferirmi definitivamente in Florida”.



Come è arrivato alla direzione del suo giornale?

“L’ho fondato io”.



Perché ha sentito la necessità di fondare un giornale in lingua italiana?

“Mi sono reso conto che gli italiani all’estero avevano bisogno di un giornale, di notizie fresche dall’Italia e soprattutto di commenti ed opinioni di giornalisti italiani veri. Mi spiego: la maggior parte dei mezzi di comunicazione presenti all’estero si regge sul sacrificio e l’abnegazione di giornalisti improvvisati, a parte pochi professionisti. Il segreto del successo di “Gente d’Italia” è proprio questo. Quando i lettori comprano il giornale sul quale scrivono Cucci e Tosatti per lo Sport, Ghirelli e Caretto per la Politica, Torchia per le Inchieste, Guiglia per il Sud America, senza dimenticare le opinioni di Luca Giurato, Arturo Diaconale, Gianni Perrelli, colleghi bravissimi e conosciutissimi, tutto diventa più facile. Ora bisognerà espandersi soprattutto in Sud America, dove siamo solo noi sul mercato”.



Quella del direttore è sempre stata una sua ambizione o un giorno le è capitato che…?

“A dire il vero sono stato costretto. Non l’ho voluto fare dove lavoravo…”.



Quale altro lavoro avrebbe voluto fare?

“Quello che ho sempre fatto, il giornalista”.



Di sicuro, dopo le ultime elezioni, la curiosità sugli italiani all’estero è cresciuta. A suo parere, cosa sarebbe necessario sapere degli “altri italiani” che invece non si sa?

“Per esempio, cosa pensano, realmente, del voto all’estero e se a loro servirà…Gli italiani che vivono fuori dall’Italia si dividono in due grandi categorie, quelli che hanno fatto fortuna e che se la passano, come dire, benino, e quelli che, invece, per varie vicissitudini, in Argentina, Uruguay e Venezuela si sono trovati, da un giorno all’altro, a dover vivere in condizioni quasi subumane, senza uno straccio di pensione, senza assistenza sanitaria e con pochi mezzi di sostentamento. Ecco, dovremmo cominciare a capire che nell’altra Italia c’è un pezzo di noi che ha bisogno di tutto. Il voto all’estero ed i primi rappresentanti italiani scaturiti dalle ultime elezioni dovranno prima di tutto cercare di colmare  questa grave lacuna. Hanno a disposizione poco tempo, però, perché se non si faranno sentire in Parlamento difficilmente questi poveri connazionali riandranno a votare. Diranno “a cosa serve se non cambia nulla?”.



Quale è stato il periodo più difficile da affrontare?

“I primi quattro anni”.



Perché?

“Perché fare i giornalisti non significa fare gli editori e ti trovi da un momento all’altro ad improvvisarti capo dell’ufficio vendite, capo della distribuzione, capo del marketing, e poi la concorrenza. Non dimentichiamo che, per esempio, sbarcando a New York dove già da anni esiste un altro quotidiano, non sei certo visto bene…

Allora devi imparare i trucchi del mestiere, mandare il tuo uomo nelle edicole a magnificare il tuo giornale, ma, soprattutto, devi convincere, nel caso specifico, il capo della diffusione del “New York Times”, che il tuo è un buon prodotto. E ci vogliono mesi, anni… Poi devi ridurre i prezzi: noi vendiamo il giornale a 50 centesimi tutti i giorni e il venerdì a un dollaro, per attirare il lettore… E ancora le scorrettezze, le maldicenze, di chi non ti vuole sul mercato. Così per alcuni sei un fogliaccio della destra, per altri sei il portavoce della sinistra. Questo ci riempie di gioia perché significa che fai un buon giornale, pulito ed aperto a tutti… E’ dura e non è ancora finita”.



Come descriverebbe la comunità italiana di oggi?

“Vecchia, poco attenta ai fatti italiani, perché nessuno si è mai interessato a loro”.



Come è mutata negli ultimi anni? Quali sono stati i cambiamenti più eclatanti? Quali invece sono le costanti?

“Si è integrata perfettamente. Parlo delle nuove generazioni. Loro, i “vecchi” sono ancora legati all’Italia di una volta”.



Come valuta, nel complesso, il risultato delle ultime elezioni? E cosa, nella pratica, gli italiani si aspettano dal nuovo governo?

“Credo che ci sia stato un equilibrato pareggio, cioè metà centrodestra e metà centrosinistra. Si aspettano un maggiore coinvolgimento, che a mio parere non avverrà mai. Sono società diverse, vite diverse, salvo a fare una cosa importante: esportare cultura, lingua italiana, informazione”.



Per sfatare i luoghi comuni sugli italiani all’estero, “mafia-pizza-spaghetti”, tanto per dirne qualcuno, quale è il rapporto degli italiani con:

-          gastronomia: “Ottimo, i prodotti italiani veri vanno a ruba”.

-          moda: “Troppo cara, per molti”.

-          cultura/storia: “Ne vedono poca…scarsi i mezzi a disposizione degli Istituti di cultura e soprattutto televisione inesistente (Rai International è da rivedere, servono più soldi e programmi ad hoc, soprattutto informazione).

-          politica: “Ancora legata a stereotipi. La lontananza aumenta questo tipo di disinformazione”.

-          sport: “Solo il calcio tira, ma…”




Ma?

“Non essendo il nostro un giornale sportivo non possiamo certo uscire ogni giorno con due pagine di sport, quindi va bene così…”.



E le nuove generazioni, come (e se) manifestano il loro essere italiani?

“A scuola o nelle università, per il resto sono integratissimi nella cultura locale”.



Cosa risponde a chi sostiene che per la cittadinanza italiana sia necessario conoscere almeno l’italiano?

“Che, forse, ha ragione”.



Quale è, oggi, il ruolo dei giornali italiani editi all’estero?

“Dovrebbero informare, invece sono più orientati alla “gazzetta locale”, che serve, ma non deve costituire la maggioranza delle notizie”.



Infine, quale valore aggiunto hanno apportato le comunità italiane nelle società nelle quali si sono insediate?

“Dipende. In Nord America tanto, dalla cultura alla moda, dalla tecnologia alla musica, alla gastronomia…Nel Sud America, lo spirito di sacrificio è stato anche maggiore, consacrato soprattutto all’agricoltura, all’allevamento, alle grandi opere edili, ai ponti, alle strade, ai teatri: tutto in Sud America parla italiano. Da tempo anche la viticoltura è nelle mani dei nostri connazionali. Ottimi vini vanno in giro per il mondo, e poi la lingua…in Uruguay anche i parlamentari vanno a scuola d’italiano…”.



Anagrafica giornale

-          nome testata: “La Gente d’Italia”

-          anno di nascita: 2000

-          luogo di pubblicazione: America del Nord e del Sud

-          periodicità: quotidiano

-          direttore: Domenico Porpiglia

-         editore: Porps international

-          numero di copie: circa 30mila



Anagrafica direttore

-          nome: Domenico Porpiglia

-          luogo di nascita: Napoli

-          età: 61

-          stato civile: coniugato

-          anno in cui si è trasferito all’estero: 1997

-          anno di inizio direzione: 2000

04/11/06

Anticipazioni d'esplosioni creative

L'associazione culturale BombaCarta parteciperà al convegno che la scuola Omero ha organizzato alla Fiera della piccola editoria a Roma "Più libri più liberi" che si propone di fare il punto sull'insegnamento della scrittura creativa.



A parlare l'8 dicembre alle 16:00 nella sala "Montale" del Palazzo dei congressi all'Eur, oltre al sottoscritto, ci saranno Enrico Valenzi e Paolo Restuccia (scuola Omero), Giorgio Vasta (Scuola Holden) e Antonella Cilento (Lineascritta).







Sul nuovo numero di Letture
(n. 631, Novembre 2006) trovate un'intervista ad Antonio Spadaro sul sito della Federazione BombaCarta, al centro il seguitissimo BombaPod, la raccolta di interventi audio di BombaCarta (tra cui spicca la mia magistrale digressione su scolapasta, misteri e Simpson).

L'intervento faceva parte del Convegno dello scorso febbraio a Reggio Calabria organizzato dalle attivissime Pietre di Scarto, (segnalo pure che sono appena usciti gli atti per i tipi di Città del sole edizioni).

02/11/06

La psichiatria nei mezzi di comunicazione

di Cristiano M. Gaston 

“Depressione” è un termine ormai di uso corrente, tanto corrente quanto impreciso è diventato il suo alone semantico. Un “googling” improvvisato e privo di ogni presunzione sociologica ci permette di trovare oltre tre milioni di pagine web in italiano che contengono la parola “depressione”, contro un milione e settecentomila che contengono “tristezza” (la prima dell’elenco, neanche a farlo apposta, riporta: “la depressione come forma della tristezza” - e ci risiamo). Come detto, questa indagine svolta dal salotto di casa non dimostra nulla; eppure, tornano i conti con la sensazione diffusa che nessuno si senta più banalmente triste, quando ha la possibilità di definirsi depresso.


Se fino a trent’anni fa chiedevamo conto ai poeti della nostra tristezza, oggi devono risponderci gli psichiatri, i quali generosamente non si sottraggono alla domanda e ci illustrano da trasmissioni, libri e rubriche cosa la depressione sia e come liberarcene. Lodevole il tentativo di rasserenare gli animi inquieti della società, però urge anche una riflessione sui rapporti fra società civile, mezzi di comunicazione e tematiche psicologiche. Queste ultime hanno infatti una presa formidabile sull’immaginario collettivo e, nel momento in cui propongono chiavi di lettura (seppur con le migliori intenzioni) non si può ignorare che lavorino anche come suggestioni potentissime e - se non ben identificate - in gran parte inconsce.


L’età dell’innocenza prefreudiana è ormai svanita: l’inconscio è nozione comune. La prima conseguenza di questo fatto è che i meccanismi di difesa (ovvero le strategie che l’Io predispone per non sperimentare l’ansia conflittuale, depistandola e permettendole di evadere dalla coscienza) sono cambiati: l’Io deve trovare vie più sottili per evitare l’ansia, perché la nostra cultura ne smaschera i meccanismi in partenza. Ad esempio: lo svenimento in pubblico (il classico “deliquio”) è un pessimo sistema per uscire da una situazione conflittuale, non funziona più. Lo stesso si dica della paralisi degli arti inferiori: non è più un modo per “non andare da qualche parte” e ricevere mille attenzioni, si viene scoperti subito. Quel che è peggio, è che si viene scoperti innanzitutto da se stessi: se prima bastava sfuggire alle maglie del censore sociale, il censore di oggi è quasi completamente interiorizzato. continua sul sito di Asterione

I cinesi dell'informazione

di Andrea Cottone







Quando il Giornale di Sicilia è uscito nelle edicole durante gli ultimi scioperi della stampa, a causa del mancato rinnovo contrattuale, ha messo a nudo tutta una realtà che vi sta dietro.



Chi ha fatto il giornale? Il comitato di redazione aveva parzialmente aderito allo sciopero e durante un’assemblea allargata si è consumato uno scontro tra direzione e organi di rappresentanza: sindacati e Ordine dei giornalisti.



Tutto ciò va letto inquadrando l’episodio all’interno della polemica tra giornalisti ed editori. I motivi della contrapposizione sono nella domanda dei giornalisti del pieno riconoscimento dei free lance e di altre misure volte ad adeguare la professione al mutato mercato del lavoro. Gli editori mirano a salvaguardare le loro prerogative di ricorso al lavoro precario da cui traggono non pochi vantaggi. E in questo scenario il Giornale di Sicilia ha messo a segno un colpo. Un chiaro segnale di una politica editoriale votata più al lato commerciale che a quello giornalistico, ponendo il profitto dinnanzi alla qualità di un prodotto informativo, di opinione pubblica che, in questo senso, è anche di tutti. I cinesi Per collaborare con il Giornale di Sicilia è necessaria una presentazione. Attenzione non una raccomandazione, una semplice segnalazione al caposervizio, di qualcuno all’interno o in collegamento col giornale. Vengono specificate chiaramente le scarse prospettive ed è detto chiaramente che non c’è alcuna speranza di assunzione. Così si comincia a essere collaboratori esterni, con una ferma raccomandazione, quella di non mettere, quasi o nulla, piede in redazione. Ma non è sempre stato così. Questa avvertenza è stata dettata solo dal momento in cui al Giornale di Sicilia sono arrivate vertenze sindacali proprio da parte di loro collaboratori, vertenze che hanno sempre portato a un riconoscimento per il giornalista. La crescente domanda di giovani che volevano entrare a far parte del mondo giornalistico ha dato la possibilità di fare riferimento a questo serbatoio di collaboratori esterni.



Giovani per lo più senza esperienza, manodopera a basso costo e a scarsa tutela sindacale. Questi venivano impiegati, di fatto, come veri e propri dipendenti. A parte una prima ’selezione naturale’, i più attivi erano impegnati per un tempo complessivo anche di otto o nove ore al giorno e settimanalmente si davano i turni per rispondere alle telefonate dei lettori. Tutto questo per il pagamento di un euro per una ’breve’ e tre euro per un articolo. In media, per i più attivi, 150-180 euro al mese. La presenza di questi collaboratori ha generato il problema di come giustificarli di fronte a degli ispettori del lavoro. Per questa ragione è stata creata una sede distaccata in via Cavour dove i giovani contribuivano a scrivere le pagine del giornale. Ma quando sono cominciate ad arrivare le vertenze questa sede è stata chiusa e gente che per due anni aveva lavorato ogni giorno ha perso il suo punto di riferimento. Quindi si è provveduto a diminuire drasticamente la loro presenza in redazione e a gestire il lavoro utilizzando la posta elettronica. Questo a discapito dell’unico fattore che, in tutti i riscontri, i ’cinesi’ hanno indicato positivamente: l’esperienza di lavoro di redazione e la partecipazione alla composizione del giornale. C’è un numero di contratti a termine a cui alla fine accede chi ha dimostrato quasi devozione al giornale e alcuni di questi contratti trovano anche un seguito.



I precari La strategia commerciale dell’editore mira ad abbattere i costi fissi ricorrendo al mercato del lavoro precario per la maggior parte del personale nelle sedi centrali e periferiche. L’uso dei contratti a tempo determinato è caratterizzato da un ciclo. Variano da quindici giorni a periodi anche più lunghi, e sono seguiti o intramezzati, da periodi di ’fermo biologico’. Questo modo di operare tutela l’editore da eventuali rivalse di lavoratori che rivendichino l’assunzione per la continuità nella prestazione d’opera. Così come penalizza il giornalista sul versante personale, come tutti i lavoratori precari, e sul versante professionale. Altro strumento utilizzato è quello dei contratti di praticantato a termine. Questa forma di contratto porta all’editore il vantaggio di un contratto meno oneroso sia come retribuzione che come contributi da versare. All’interrompersi dei contratti di praticantato a termine, a tutela del giornalista praticante interviene l’Inpgi, l’ente pensionistico dei giornalisti, che versa un’indennità di disoccupazione giornaliera. E così via alternando assunzioni a periodi di fermo biologico, all’Inpgi veniva scaricato l’onere degli ammortizzatori sociali.



Il praticantato è richiesto dalla legge per diventare Giornalisti professionisti. Esso deve essere svolto in una testata giornalistica riconosciuta, per un periodo non inferiore a diciotto mesi continuativi. Per questa ragione questi contratti non sono riconosciuti dall’Ordine dei giornalisti se la durata è inferiore ai diciotto mesi (delibera del Consiglio nazionale 16-17 marzo 1988 e 12 luglio 1991, nda).



Non a caso, su mandato della procura, la Guardia di Finanza è andata ad acquisire documenti di indagini autonome dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia. Franco Nicastro, presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia, ha dichiarato all’Isola Possibile: «È chiaro che la condizione che emerge è quella di una ridotta capacità contrattuale da parte di chi non ha un rapporto certo con l’azienda editoriale. Ma questo è un problema che investe anche i lettori. Un giornalista non garantito è meno libero. È una questione che riguarda qualità dell’informazione e autonomia della professione. La libertà di stampa è una parte importante della democrazia e la sua autonomia è la colonna portante del sistema democratico».



Il condirettore del Giornale di Sicilia Giovanni Pepi, chiamato in causa dall’Isola Possibile, non ha risposto all’invito. Tutto ciò accade in una regione dove vige un solido duopolio pacifico costituito dal Giornale di Sicilia e da La Sicilia, che si sono spartiti il mercato partendo dai loro centri: Palermo e Catania. La mancanza di concorrenza nel giornalismo equivale a una fattiva mancanza di pluralismo. Un mercato praticamente monopolistico, in cui non è garantita l’autonomia dei giornalisti, può solo portare al controllo dell’informazione e questo ha ancora più significato in una regione che ha raccolto più morti delle altre nel giornalismo militante e civile. Ci sono tante cose che devono essere raccontate della Sicilia e ci sono i giornalisti per farlo, basta metterli nella condizione di farlo. Il progresso civile dell’Isola non può prescindere da queste figure di riferimento. Questo scenario è privo dei contributi dei cinesi delle testate radiotelevisive e delle agenzie di stampa, ma questa è un’altra storia.




fonte: L'Isola Possibile, maggio 2006

La freschezza più cara

«VIVE IN FONDO ALLE COSE LA FRESCHEZZA PIÙ CARA». La poesia di Gerard M. Hopkins

di Antonio Spadaro



La poesia di G. M. Hopkins è un «piccolo pacco d'esplosivo ad alto potenziale» (A. Bertolucci). Ecco alcune domande che si levano dalla sua opera: A che cosa serve la bellezza mortale? Come salvare la bellezza dallo svanire lontano? L'uomo è in attesa di un compimento e vive del desiderio che la primavera pervada l'essere, rendendo giustizia al suo destino, che è dayspring, alba, momento iniziale e sorgivo del giorno, promessa di pienezza. Per chi è toccato dalla Grazia, la bellezza è sempre un filo di Arianna che permette di giungere alla freschezza più cara che vive in fondo alle cose. Il principio primo della poesia hopkinsiana è che ogni bellezza, anche quella mortale, appartiene a Cristo.  



© La Civiltà Cattolica 2006 IV 234-247

Biblomov - Incontri di Lettura a Palermo

Gli amici di Oblomov - Associazione culturale



Cari amici,

abbiamo articolato un programma di massima degli incontri di lettura (Biblomov) per i prossimi mesi.

Quest'anno li dedichiamo ad alcuni "classici" e abbiamo alternato italiani, europei e americani, spaziando liberamente nei secoli.



Gli incontri (uno al mese, sempre di lunedì) si tengono al Parco letterario Tomasi di Lampedusa, in Vicolo della Neve all'Alloro, traversa di Piazza Marina (Palermo).



Si inizia lunedì 6 novembre alle ore 21.00 con Giacomo Leopardi. Introduce Matteo Di Gesù.



Come sapete, tutti i partecipanti possono portare un breve brano e leggerlo ai presenti.



Si continua, nei mesi successivi, con


  • Philip Roth, introdotto da Sandro La Rosa;

  • William Shakespeare, introdotto da Alfonso Geraci;

  • Dante, introdotto da Matteo Di Gesù;

  • Herman Melville, introdotto da Marcello Benfante;

  • Anton Cechov, introdotto da Mario Desti;

  • Leonardo Sciascia, introdotto da Marcello Benfante;

  • Ernest Hemingway, introdotto da Sandro La Rosa;

  • Georges Simenon (introduzione da definire).




Vi aspettiamo.

01/11/06

Nel territorio del diavolo

A cinque anni feci un'esperienza che mi ha segnato per il resto della vita. "Pathé News" aveva inviato un fotografo da New York a Savannah a ritrarre uno dei miei polli. Questo pollo, un Bantam marrone chiaro della Cocincina, aveva la particolarità di riuscire a camminare sia in avanti sia all'indietro. La sua fama aveva fatto il giro dei giornali e quando giunse all'attenzione di "Pathé News", ormai non aveva più via di scampo: né avanti né indietro. Poco dopo morì, e non c'è da stupirsene.

Se introduco con questo aneddoto un articolo sui pavoni, è perché mi viene sempre fatta la stessa domanda: come mai li allevo. E non ho ancora trovato una risposta breve o sensata.

Dal giorno dell'inviato di "Pathé" ho cominciato a collezionare polli. Quello che era un vago interesse si tramutò in passione, in ricerca. Dovevo avere sempre più polli. I miei preferiti erano quelli con un occhio verde e uno arancione, o con il collo troppo lungo e la cresta deforme. Ne avrei voluto uno con tre zampe o tre ali, ma non mi è mai capitato niente del genere. Avevo meditato a lungo sulla foto, tratta da Believe It or Not di Robert Ripley, di un gallo sopravvissuto per trenta giorni senza testa, ma non ero portata per le scienze. Sapevo cucire bene e iniziai a confezionare abiti per polli. Un Bantam grigio di nome Colonnello Eggbert sfilava in cappotto di piqué bianco, con collo in trine e due bottoni sul dorso. A quanto pare, "Pathé News" non ebbe mai notizia di questi altri miei polli: non si sono mai visti altri fotografi.



© 2003 minimum fax Editore



Il libro

Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere di Flannery O'Connor

A cura di Robert e Sally Fitzgerald

Edizione italiana a cura di Ottavio Fatica

Prefazione di Christian Raimo

150 pag., Euro 7.50 - Edizioni Minimum Fax

ISBN 88-87765-74-X



L'autrice


Flannery O'Connor (1925-1964) ha scritto due romanzi, La saggezza nel sangue e Il cielo è dei violenti, ma è soprattutto celebre per i suoi racconti che l'hanno consacrata come una delle voci più rappresentative, insieme a William Faulkner, della letteratura del Sud degli Stati Uniti. Di recente è stato pubblicato l'epistolario Sola a presidiare la fortezza.



Per approfondire:


composto dai seguenti saggi: