15/12/03

Il venditore di scolapasta

La notte che arrivò il venditore di scolapasta, stavo costruendo il mio palazzo della memoria.
Ci lavoravo già da due mesi in quel cantiere di pensieri, impastavo ogni notte tre caldarelle di sabbia e cemento e poi a colpi di cazzuola tiravo su le pareti, le tiravo su cantando perché cantando tutto è più facile: impilare mattoni, comporre poesie, pedalare, uccidere ricordi e fingere di aver imboccato il percorso giusto.
Cantavo e con la cazzuola spalmavo su ogni fila due centimetri di impasto e poi riprendevo a cantare, lo facevo prima di mandare a letto i sensi di colpa, lo facevo con la testa nel cuscino e piano piano sognavo il contenuto di un altro piano.
Quella notte stavo per iniziare il tetto di marzapane della stanza dei Sogni Sciupati e dalla finestra entrò la voce del venditore, era lì, sotto un lampione, con l'ombra smozzicata e un dubbio sotto il cappello di panno. Lasciai tutto il materiale alla rinfusa e caracollai dalle scale. Con le mani sporche di cemento e rimpianti mi avvicinai al suo cappello di panno e gli chiesi cosa aveva da vendere sotto la luna che lucidava i marciapiedi. Mi rispose che lo sapevo, che era già stato scritto.
Parlammo a lungo, mi disse che viveva nella collina dei broccoli, era nato lì e lì sarebbe stato seppellito insieme al suo cappello di panno. Non si allontanava mai dalla collina, l'aveva fatto perché erano anni che nessuno dedicava tanta passione alla costruzione di un palazzo della memoria. Mi disse che stavo lavorando bene e che cantavo malissimo, me lo disse porgendomi uno degli scolapasta che si portava dietro tenendoli attaccati a una cordicella per buchi. Dovevo semplicemente scolare le mie paure, i pensieri, i rancori e tutto il resto. Se avessi scelto bene, il ricordo avrebbe luccicato prima di andare ad occupare la stanza che gli spettava.
Lo ringraziai e decisi di tornare a casa. La sua ombra smozzicata che lisciava i lampioni che si spegnevano uno dopo l'altro.


Ripresi il mio sonno-lavoro, ripensai agli aquiloni e alla prateria delle anime che devono rinascere, pensai che, in fondo, si trattava solo di pescare nei ricordi e di lucidarli per bene. Dovevo pescare e lustrare: sapevo cosa cercare e felice misi la cazzuola nella calderella svuotata e volai via, oltre le antenne, oltre gli aquiloni.


Era passata una settimana e stavo per iniziare l'armatura dei pilastri per tirar su qualche altro piano. I ricordi più radicali li avevo finiti, restavano quelli freschi, soffici come gli orologi liquidi dei baffi di Dalì. Dovevano ancora asciugare.
Mia madre mi aveva aiutato a costruire il mio primo palazzetto della memoria, uno spazio giallo recintato da tre fila di mattoncini lego. Era quello il trucco di mia madre per evitare il trasloco notturno verso l'agognato lettone, mi diceva che non sarebbe venuto a masticarmi nessun incubo; dovevo solo snocciolare le cose belle della giornata.


Ci sono notti che il lavoro di mura-ricordi non mi pesa, altre che non riesco ad appiccicare più di una dozzina di mattoni, dipende tutto dal tipo di ricordi che ho tra le mani: incandescenti pezzi di vita o solo tappa-buchi tra le ics blu sui numeri del calendario.
Ecco che prende quota il mio palazzo, si vedono le navate e le stanze leccate dalla luce dei lampadari, c'è la pendola che mi ha prestato Poe e il ghiaccio arrivato a Macondo e nel soffitto altissimo vivacchiano gli aquiloni e le lucciole di Pasolini. Scivolo seguendo le lumache che disegnano costellazioni e desideri incollati alle code delle loro comete, le seguo sino al tunnel dell'amore. Passo oltre e dalle finestre ad ogiva intravedo il parco che ho cucito al tragico telaio di Cloto, Lachesi e Atropo: c'è la cuccia di Snoopy e sul suo tetto rosso il bracchetto che danza sui tasti della mia prima macchina da scrivere, la mia Olivetti lettera 22. Salgo al primo piano arrampicandomi sulla pila dei libri che mi hanno macchiato l'anima, vedo ancore metafisiche e pezzi degli scacchi che trotterellano felici inseguiti dal gatto di Alice. Nel bagno c'è un veliero, le sue vele le ho fatte io, incollando le pagine dei libri che mi hanno portato, qui e ora, a farmi leggere da voi.

10/12/03

il palazzo della memoria


Eccomi giunto ai campi e ai vasti palazzi della memoria, dove si accumulano tesori di innumerevoli immagini, per ogni sorta di oggetti della percezione. Lì è custodito tutto ciò che ci avviene di pensare, amplificando o riducendo o comunque variando i dati dei sensi, e quant'altro vi sia stato riposto in consegna, purché l'oblio non l'abbia ancora inghiottito o sepolto. E lì mi basta chiedere, quando mi ci trovo, che mi si presenti qualunque cosa io desideri: alcune arrivano subito, altre si fanno cercare più a lungo, come se occorresse stanarle da più segreti ricettacoli, altre ancora irrompono in massa, e mentre non le si cerca affatto saltano quasi fuori a dire "Siamo noi per caso?" E io con la mano del cuore le caccio via dalla sua vista, dal ricordo, finché lo sguardo non si snebbi e non appaia proprio la cosa nascosta che cercavo. Altre cose si offrono docilmente e di seguito, senza interruzioni, nell'ordine in cui erano state richieste, così che le precedenti fanno posto alle successive per tornare ai loro depositi, pronte a uscirne di nuovo a mio piacere. Tutto questo avviene quando recito a memoria.


Agostino, LE CONFESSIONI, libro X


Ho deciso di costruire il mio palazzo della memoria, vediamo che ne viene fuori...


05/12/03

come se non dovessimo mai morire

Lisa e Ulisse s'erano incontrati sei anni prima all'oratorio, portati lì mano manuzza alle rispettive apprensioni materne. L'oratorio era l'ultima oasi sicura dove posteggiare i figli in attesa della terrificante ondata ormonale di cui si avvertivano le prime avvisaglie. La madre di Ulisse l'aveva beccato a tarda notte con il pinnacolo tra le mani a visionare casalinghe perverse che agitavano tetteeculiecosceelingue sul piccolo mivar in bianco e nero. L'aveva strappato dalle occasioni di peccato spruzzandolo con acqua benedetta contrabbandata in una bottiglietta di Lourdes e l'aveva ammanettato con tre rosari. La madre di Lisa era ancora più sconvolta, sua figlia stava imbambolata con gli occhi persi nel poster di Antonello Venditti e colorava i suoi album aggiungendo giganteschi attributi agli orsetti del cuore. I rispettivi pater erano persi nei 90 minuti, sordi e ciechi a qualsiasi novità. Avevano scaricato i loro figli là e tanti saluti.


La prima volta s'erano odiati, Lisa piatta e informe con un mega assorbente negli slippini di Barbie, Ulisse a capire come mai un preservativo così stretto potesse contenere litri e litri d'acqua.


Era stata Lisa a interrompere le ostilità, s'era avvicinata con i capelli corti sotto un cappello del Wwf e con un sorrisino tutto calcolato gli aveva chiesto delucidazioni sul suo massimo dubbio. "Ulì, ma… ma, insomma, come fate a sedervi sulla tazza con quel "coso", non vi si schiaccia sulla tavolozza?" la domanda era arrivata al bersaglio, Ulisse stava fermo tra i pali della porta con le mani guantate aspettando qualche pallonetto. Strabuzzò gli occhi e vide lo scarafaggio in mini short "guardaquellochenonpotraimaimancosfiorare", un solo attimo di distrazione e gli occhialoni tartarugati finirono a terra spezzati in tre pezzi. Aveva ancora nella faccia la firma del capocannoniere e l'unica cosa che riusciva a pensare era come potevano venire certi dubbi a una ragazzetta che ancora aveva solo i capezzoli nel vuoto cosmico del primo reggiseno.


Nemmeno si levò i guanti e scappò sullo ciao perdendo la targa appena girato l'angolo. Era la fine di marzo e lui ancora aveva l'ingombrante verginità marchiata a fuoco sul sorriso da ebete, proprio sotto gli orrendi baffetti di pelo canino. Manco mangiò rimuginando quella domanda e pure che non aveva nessuno stimolo si andò a posizionare sulla tavolozza con un senso di soggezione che non aveva mai provato prima, per intere settimane cercò di riacquistare la tranquillità. Inutile, appena qualche strombettata posteriore gli suggeriva di andare al cesso arrivava il panico e si rivedeva Lisa davanti a guardargli il pacco. Incominciò a considerare i lati positivi della faccenda, la cagata era stata sostituita da un pornofilmazzo dal vivo, Lisa continuava ad essere il suo chiodo fisso e lui l'aveva eletta a sua musa ispiratrice. Non doveva più sfogliare gli umidi giornaletti che aspettavano sopra lo scaldabagno. La sua fantasia incominciò a vedere Lisa che gli carezzava le palle e lei stessa rispondeva ai suoi dubbi tenendogliele piacevolmente sospese, adagian-dole nel palmo delle sue piccole mani.


S'erano rincontrati dopo due settimane, lei era fasciata in un abito da monachella ma lui la vedeva in nudo integrale grazie alla sviluppatissima vista a raggi X che accompagna tutti i pipparoli. Avevano parlato per tre ore di fila e avevano scoperto l'ovvio. Odiavano il mondo e volevano morire prima d'essere vecchi e flaccidi. Erano andati a passeggiare sulla spiaggia con le ascelle pezzate e lì Lisa aveva snocciolato la sua teoria sull'omosessualità, tutta a vantaggio delle seguaci di Saffo. <> S'aspettava magari le solite frecciatine d'Ulisse, qualche accenno ironico nel suo ostinarsi a mettere sempre qualche testicolo nei suoi discorsi. Nada, quello continuava a guardarla estasiato come uno scarabeo stercorario. Ulisse era troppo occupato a prendere appunti per la pippa post pranzo, le lesbiche erano le sue preferite…


"Dammi qualche segno di vita… C'è nessuno?" Ulisse aveva la vista annebbiata e l'udito freudiano, aveva sentito "dammi un colpo nella fica, non c'è nessuno…" e un'erezione formato famiglia aveva deformato i suoi boxer portafortuna. Aveva troppo caldo, si gettò a mare tutto vestito per stemperare l'eccitazione.


Lisa s'era tolta i mocassini proletari e aveva incominciato a correre sul bagnasciuga con una risata chiara, dolce e fresca. Ulisse riemerse dal brodo salato, s'arrotolò i jeans appena sotto il ginocchio e corse pure lui. Aveva le gambe più lunghe e in cinque falcate l'aveva già raggiunta e abbracciata. La guardò e la vide per la prima volta e vide com'era bella. Nelle orecchie Vasco Rossi gli urlava ALBACHIARA, guardò un'altra volta i suoi occhi neri, le tolse gli occhiali e il bacio fu.


Per tre mesi tutto era andato a meraviglia, sembravano schizzati fuori da un romanzetto Harmony, tutt'e due stracotti a pensare al futuro incrociando le lingue. Erano felici ma le cicatrici erano sempre in agguato.Ulisse s'era faticosamente intrufolato nelle coppe nemiche e aveva scoperto un tracciato di sfregi e piccole bruciature di sigaretta. Lisa s'era subito calata la maglietta color aragosta e il resto della serata era passato in un silenzio insostenibile. Lui doveva sapere, troppi dubbi s'agitavano nel suo cervello. S'immaginava il padre di Lisa vestito con un solo perizoma di pelle che la torturava con una faccia traboccante di soddisfazione. Sapeva che era un pensiero assurdo ma quel perizoma proprio non riusciva a scordarselo. Forse Lisa faceva parte di una setta satanica, era stata messa al centro della stella a cinque punte e il capro l'aveva stantuffata per tre ore di fila… Doveva sapere, non poteva continuare a partorire ipotesi tanto schifose. La verità l'avrebbe volentieri lasciata agli sceneggiatori di X-files.


Lisa è nella sua stanza, stava ripensando a quella domenica di marzo quando aveva accettato di salire sullo ciao di Ulisse. Non lo vede da una settimana e il mondo non se lo ricordava così mediocre.. Fuori piove e anche stasera lui non verrà. Stavolta ci sono andati giù pesanti. Forse non tornerà più, non tornerà più e lei resterà prigioniera della sua stanza grigia. Lo ama ma la storia è diventata un macigno che la sta schiacciando. Lui è stato il primo ragazzo, l'unico che ha esplorato il suo corpo e lei l'amato con ogni atomo. Sono state le cicatrici a distruggere tutto, lei non poteva mentirgli ma la verità ha ammazzato tutto quello che avevano costruito.


La sua famiglia è andata a messa e lei fuma uno spinello nel balcone della cucina. La bottiglia di martini è quasi vuota, la deve ricomprare prima che se n'accorgano. Fa gli ultimi tiri con la gola bruciata dal pressato che ha comprato da Laura e getta il filtrino giù in strada. Si chiude in bagno, la vasca è quasi piena, aggiunge qualche pugno di sali da bagno e si toglie l'accappatoio. Dicono che con l'acqua calda è tutto più facile, la sua lametta la guarda dal lavandino. Sarebbe bello smettere di rimandare l'inevitabile, diventare vecchia e grassa come quella vacca di sua madre non è il massimo delle sue aspirazioni. Lei vuole viaggiare, viaggiare con il suo uomo, lisciandogli la barba e i capelli lunghi che s'arricciano sulla schiena. L'acqua è troppo calda, riesce dalla vasca e la sua schiena bianca si riflette nello specchio dell'armadietto. L'alito della finestra le indurisce i capezzoli e nuove gocce colorano l'acqua.


Ripensa all'ultime cose che si sono detti, si rivede nel sedile della renò con lui che cerca di capirci qualcosa e lei… "Farmi toccare da te o da un estraneo sarebbe lo stesso. Prendiamoci una pausa, meglio se frequentiamo altre persone… potremmo uscire a quattro…" s'era bevuta il cervello, sparava cazzate e lui cercava di farla ragionare. Ora lo sapeva, non aveva più dubbi, amava quel ragazzo con i capelli lunghi. Aveva bisogno di rivederlo ancora una volta, fargli leggere le sue ultime poesie, aveva bisogno di sentirsi amata. Dovrà parlargli di tutti questi momenti, spiegargli ogni sua assenza. Sarà un motivo valido aver tentato di morire un'altra volta? Stava spellando una vena e non pensava a nessuno, stavolta non ci sarebbero state scuse da inventare per un maglione, un cuscino, un pavimento macchiati. Non avrebbe più potuto pulirli. Aveva detto che siamo tutti figli di Sisifo, due Sisifo nello stesso tartaro a ripetere l'errore, sempre meno forti, più spossati e stretti, fianco a fianco e stretti, i cuori in cima al monte con quel maledetto macigno che scivola un'altra volta. Sisifo per destino e volontà. Sarebbe bello vivere come se non dovessimo mai morire, respirando a pieni polmoni l'aria fresca del mattino, come se non dovessimo mai morire… Andare e ritornare nel medesimo luogo, senza essersi mai allontanati. Altri motivi per ridere e piangere, altro ancora dovrebbe dire a quel ragazzo con la barba troppo lunga. Se n'andrà via presto, che voglia piangere o ridere, seguirla o scegliere la strada opposta non vuole saperlo.


Sarebbe mai tornato? Avrebbe dovuto chiederlo al suo cuore. Non chiedere a chi ami di tornare, chi fugge sta solo e sta solo anche chi insegue. È tardi per tornare sui propri passi, loro sono tornati, la chiave gira e la porta sta per essere attraversata e l'ultima goccia timida cade sul vuoto biancore delle piastrelle.