30/11/05

un blog in 160 caratteri

le idee buone pensa di averle solo l'amico JB, ora si sta crogiolando con il COME ERAVAMO... ha rispolverato gli archivi degli arciblogger per recuperare i primissimi posti. Colpo su colpo: questo lo sapevano fare tutti. Chi è che sa sintetizzare nei canonici 160 caratteri di un essemmesse l'essenza dei medesimi blog? Care voi e cari voi, sotto a chi tocca!

 Chi spreme JB in 160, dico centosessanta, caratteri?

Quelli del Corriere l'hanno fatto con i classici della letteratura... noi con i blog che classici lo sono già.

I simpson e la filosofia. 2 (riflessioni)

tutto l'interesse che avete rivolto al libro sui Simpson e la Filosofia mi spinge a sviluppare meglio il discorso. Rispondo per primo all'amico Guido (che da Roma osserva e implementa i suoi neuroni come oggi Homer dopo essersi tolto il pennarello dal cervello): il titolo è significativo, non è la filosofia DEI simpson, dove la solita baggianata del genitivo oggettivo o soggettivo avrebbe tenuto banco per dieci minuti buoni. Il titolo è limpido: i Simpson e la filosofia, i gialli diventano altrettanti spunti per discutere di filosofia, di quella con la F maiuscola, la stessa che andò a consolare in cella il povero Boezio dopo che la giostra del potere l'aveva scagliato in quella prigione buia e umida. La filosofia, donna bella dai vestiti lacerati dalle continue disquisizioni, con  le iniziali di Praxis e Theorein, azione e riflessione su quella stessa azione (che sia essa parallela? e quindi bifida, dicotomica, destinata a tagliarci in due le possibilità sviscerate dalle storie a bivi di Topolino?). La bella donna dai vestiti laceri decide di passare da Springfield.

Che sia un libro catalogabile tra gli infidi ISTANT BOOK è lapalissiano ma questo non toglie merito all'azione di William Irwin (è professore di filosofia al King’s College. È autore, tra gli altri, di Welcome to the Desert of the Real (2002) e The Matrix and Philosophy (2004). Di filosofia è imbevuta tutta la vita per l'ovvietà che sta alla base della priorità logica e ontologica del reale sulla riflessione che di questo reale si può fare. Abbiamo dimenticato (e la pubblicità dei Kinder Cereali non ci ha aiutati) che la filosofia è innanzittutto questo:

«Un giorno Talete osservava gli astri, Teodoro, e con lo sguardo rivolto al cielo finì per cadere in un pozzo; una sua giovane serva della Tracia, intelligente e graziosa, lo prese in giro, dicendogli che con tutta la sua scienza su quel che accade nei cieli, non sapeva neppure vedere quel che aveva davanti ai piedi. La morale di questa storia può valere per tutti coloro che passano la loro vita a filosofare, ed effettivamente un uomo simile non conosce né vicini né lontani, non sa cosa fanno gli altri uomini, e nemmeno se sono uomini o altri esseri viventi. Ma che cosa sia un uomo, in che cosa per sua natura deve distinguersi dagli altri esseri nella attività o nella passività che gli è propria, ecco, di questo il filosofo si occupa, a questa ricerca consacra le sue pene».

(Platone, Teeteto, 177 b-c)


Prima di tutto l'uomo... E se per ritornare all'uomo si deve passare da uno dei più pregevoli prodotti dell'uomo (cosa che è universalmente riconosciuta, Homer e tutti gli altri sono un capolavoro inarrivabile) ben venga. Perfino il Prof. Roccaro (che ha tradotto la Metafisica di Avicenna) al mio esame di Storia della filosofia medievale, mentre discettavo di Tommaso e delle Questiones Disputatae, attirato da una mia carpetta dei Simpson mi disse che non se l'aspettava che quei mostri gialli fossero così profondi e complessi. Era capitato a Springfield per caso, portato lì dal telecomando tenuto dai suoi figli. E lì era rimasto, folgorato dal caleidoscopio che Matt Groening ha creato.
E voi che ne pensate?

29/11/05

lo voglio!


Indice:
Ringraziamenti;
Introduzione Meditare su Springfield? ;
Parte I. I personaggi:
1. Homer e Aristotele, Raja Halwani;
2. Lisa e l'antintellettualismo americano, Aeon J. Skoble;
3. L'importanza di Maggie: il valore del silenzio tra Oriente e Occidente, Eric Bronson;
4. La spinta morale di Marge, Gerald J. Erion e Joseph A. Zeccardi;
5. Così parlò Bart: Nietzsche e le virtù della cattiveria, Mark T. Conard;

Parte II. Temi simpsoniani:
6. "I Simpson" e l'allusione "Il peggior saggio di tutti i tempi", William Irwin e J.R. Lombardo;
7. La parodia popolare: "I Simpson" e il film giallo, Deborah Knight;
8. "I Simpson", l'iperironia e il significato della vita, Carl Matheson;
9. "I Simpson" e la politica del sesso, Dale E. Snow e James J. Snow;
Parte III. Non sono stato io: l'etica dei "Simpson":
10. Il mondo morale della famiglia Simpson: una prospettiva kantiana, James Lawler;
11. "I Simpson": la famiglia nucleare e la politica atomistica, Paul A. Cantor;
12. L'ipocrisia di Springfield, Jason Holt;
13. Gustando la cosiddetta "crema ghiacciata": Mr Burns, Satana, e la felicità, Daniel Barwick;
14. Ned Flanders e l'amore verso il prossimo, David Vessey;
15. La funzione della narrativa: il valore euristico di Homer, Jennifer L. McMahon;
Parte IV. "I Simpson" e i filosofi:
16. Un marxista (Karl, non Groucho) a Springfield, James M. Wallace;
17. "E il resto si scrive da solo": Roland Barthes guarda "I Simpson", David L.G. Arnold;
18. Che cosa significa pensare secondo Bart, Kelly Dean Jolley.
Episodi;
Filosofi.

la notte che hanno dato fuoco al carro di Santa Rosalia

Uno pensa che certe cose siano limitate a quelle scene ciclostilate dei filmacci di serie C, uno esce, giorni di digiuno emotivo per studiare pagine e pagine di date del Medioevo e che succede? Lungo le curve che carezzano i monti della Sicilia, lì dove gli aerei ti allisciano il ciuffo, una di quelle scene che neanche Stephen King usa più.

Nello specchietto vedo che un'auto mi sta incollata alla targa, con gli abbaglianti che mi masticano le cornee. Accosto per farlo passare, fuori il vento sega le foglie che aspettano di ridare all'albero ogni preziosa goccia di clorofilla. Dopo due curve è lui ad accostare, mi fa passare e riprende il suo mefistofelico divertimento, prosegue la sua tortura psicologica per un'eterna mezz'ora.

Accosto di nuovo, la scena si ripete. Nell'inferno della ripetizione l'adrenalina ormai mi ha intossicato il sistema linfatico. Accendo il cellulare. Accosto per la terza volta e stavolta spengo il quadro. Compongo il 112, mi risponde la voce baffuta di un carabiniere. Alle mie spalle il pazzo è ancora lì, s'è fermato pure lui, attaccato alla mia targa e alza la radio al massimo, tutto il campionario di canzoni napoletane.

Dopo sette interminabili minuti arrivano due volanti, scendono quattro agenti, uno col mitra e tre con la pistola spianata. Fanno scendere il pazzo dalla macchina. Lo portano in caserma. Il maresciallo e i suoi baffi comprensivi elogiano il mio agire, sono stato bravo a mantenere la calma, la notte insonne che m'aspetta non mi consola. Era ubriaco e strafatto, aspettava che io scendevo dalla macchina per dar sfogo ai suoi dissapori con la vita e col disamore che ci avvelena questi anni.

E la stessa notte qualcuno ha dato fuoco pure al carro della Santuzza. Di sicuro un disperato deluso che aveva pregato con fervore Santa Rosalia per trovare il posto fisso e un po' di serenità. E questi non sono illusionismi.
Un'altra notte palermitana scoppia al sole come le chiocciole ai bordi delle strade nelle pagine di Vittorini.

va' pure, ci sono altri mondi oltre a questo

Stephen King alla Marvel!

NEWS MARVEL ITALIA 29/10/2005Finalmente la notizia è ufficiale: il grande scrittore e maestro dell'horror Stephen King sceneggerà un fumetto per la Marvel Comics! Il progetto non è però di argomento supereroistico, dato che la nuova serie regolare di cui si occuperà King si intitolerà The Dark Tower, e sarà quindi legata all'opera in più volumi nota in Italia come la torre nera. Non si tratterà però di un adattamento a fumetti dei romanzi della saga, dato che la serie racconterà le inedite avventure giovanili del protagonista Roland Deschain. La collana sarà disegnata da Jae Lee, autore che King ha dichiarato di amare molto, e colorata da Richard Isanove, noto per il suo lavoro su 1602. L'uscita del primo albo della serie è prevista per aprile 2006, mentre per l'estate è già in programma la raccolta delle storie in un volume hardcover. Di fatto è la prima volta che King entra nel mondo dei comics, dato che in precedenza il romanziere aveva sceneggiato solo alcune pagine di X-men: heroes for hope, albo realizzato a scopo benefico dalla Marvel nel 1985.


© Marvel Characters, Inc.

il mio primo comunicato stampa

Giornata della Solidarietà
Domenica 4 Dicembre la Giornata della Solidarietà



Domenica 4 Dicembre, per l’intera giornata, in Corso Umberto I, l’Assessorato alle Politiche Sociali in collaborazione con la Caritas cittadina e l’Associazione Nuovo Millennio organizzano per il secondo anno consecutivo la “Giornata della Solidarietà”. In tutte le parrocchie cittadine saranno presenti stand con prodotti destinati alla vendita, per finanziare opere di beneficenza. La giornata sarà animata con esibizioni musicali e con spettacoli di animazione per bambini.

Sarà presente anche uno stand dell’Assessorato alle Politiche Sociali per informare i cittadini sui numerosi progetti già realizzati (Piano infanzia ed adolescenza –legge 285, Centri socio ricreativi per anziani, Servizio di educativa familiare, APQ verde e blu etc.) e sui progetti in imminente fase di attivazione (presentazione dei due progetti del Servizio Civile Nazionale “Insieme si può2” e “Mai più soli2”, il centro di socializzazione per la Terza Età ed il taxi della solidarietà).

“Grazie all’aiuto dei volontari, afferma l’Assessore alle Politiche Sociali Pietro Pagano, ci auguriamo di raccogliere molti contributi per aiutare le famiglie bisognose del nostro territorio. Pertanto invitiamo i cittadini a partecipare numerosi”.

27/11/05

Con che voce parlano i vostri mucchi di parole?

Ogni volta che a un personaggio concediamo la parola ci sembra di scimmiottare ventriloqui scadenti.
Almeno per me funziona così, è raro che un personaggio si distacchi dagli stilemi tipici del mio linguaggio. Il buon vecchio Stas dice sempre che un personaggio troppo aggettivato è nato morto, aggiungo che non se la passa troppo bene neanche quello obbligato a leggere da un gobbo che riporta il nostro personalissimo slang, con tutto quel bagaglio di idiosincrasie che ci determina inequivocabilmente.

Voi come fate? Con che voce parlano i vostri mucchi di parole?

Poeti legati dal filo dell'inquietudine




venerdì 25/11/2005

Poeti legati al filo dell'inquietudine

Dubbio, limite, attesa, perdita sono i temi che percorrono il libro dello studioso domenicano Jean-Pierre Jossua, «La letteratura e l'inquietudine dell'assoluto», sulle tracce di poeti e scrittori che gli consentono di tentare una sorta di teologia letteraria. Tra questi, Miguel de Unamuno, Katherine Mansfield, Philippe Jaccottet e Cristina Campo alla quale è dedicato anche un libro di Margherita Pieracci Harwell tessuto di echi, lettere, memorie

ANTONELLA ANEDDA

Mostrare la ricerca di assoluto in poeti e scrittori prevalentemente agnostici fino a formulare l'ipotesi di una «teologia letteraria»: è questa la sfida che Jean Pierre Jossua, studioso domenicano di famiglia ebraica, aveva già annunciato nella monumentale Pour une histoire religieuse de l'expérience litteraire e ora ribadisce nel libro La letteratura e l'inquietudine dell'assoluto, recentemente pubblicato da Diabasis per la cura di Antonio Spadaro e la traduzione di Maria Zanichelli. L'ammissione di inquietudine permette libertà: la forza di interrogare libri e autori nella maggior parte dei casi non credenti, senza mai cedere alla tentazione di assimilarli o tanto meno di convertirli. Jossua riflette ma non intellettualizza. La sua concezione di cultura risponde all'esigenza di coltivare se stessi in quanto esseri umani, la sua predilezione va a una fede non pacificata, ma anzi alimentata dai dubbi, la sua diffidenza verso la categoria del «sacro» lo porta a non amare quegli autori come l'ultimo Claudel che sottomettono l'esperienza creatrice a un'ideologia religiosa. Davvero religiosa è invece, ai suoi occhi, ogni esperienza in cui la scrittura (la poesia piuttosto che la prosa) si pone come ostensione del finito, come esposizione - secondo la definizione di Paul Celan - e non come imposizione.

Dialogo tra due mondi distanti

Dubbio, limite, attesa, perdita sono allora i temi che percorrono l'intero libro attraverso le figure di Miguel de Unamuno, Katherine Mansfield, Peter Handke, Cristina Campo, Margherita Guidacci, Maria Luisa Spaziani e Philippe Jaccottet. Autori diversissimi tra loro ma uniti da una stessa inquietudine, da una tensione che tuttavia prescinde nella maggior parte dei casi dal tradizionale linguaggio della fede. Consapevole dei rischi che per un cristiano comportano le parole di una letteratura profana, Jossua articola il proprio pensiero con rigore ma senza mai perdere di vista la terra delle cose. Il suo obiettivo è provare a ridefinire il rapporto tra credenti e non credenti, cercando di far parlare due mondi distanti, diversi, ma potenzialmente capaci di ascolto reciproco. Per questo smantella i luoghi comuni sia della critica letteraria che della teologia, alla ricerca invece di quei luoghi in comune, soprattutto nella poesia, dove l'altezza sia data dalla semplicità e la religiosità da una realtà profana «ma come illuminata dall'interno». Il titolo di uno dei capitoli: «sacra conversazione tra poeti» commenta perfettamente quello che Jossua intende dire, sia attraverso una citazione di Bonnefoy che attraverso il linguaggio dell'iconologia: si può parlare di sacro perché esiste la conversazione, perché anche attraverso il silenzio - come nel dialogo muto tra le mani in Lorenzo Lotto o nel paesaggio in Giovanni Bellini - esiste una realtà comune in cui presenze diverse comunicano a dispetto del tempo in uno spazio creato dal loro stesso esserci, guardarsi, riconoscersi. Così La vita di Don Chisciotte di Miguel de Unamuno è lo specchio di un'interiorità commossa, mobile, comune, di una fede che è prima di tutto fiducia, «facoltà di ammirare e di fidarsi», di riconoscere nel volto dell'altro lo spazio da percorrere per rintracciare la propria verità più profonda.

L'amore per le cose mortali

Ciò che interessa Joussua, come sottolinea Antonio Spadaro nella introduzione al libro, è proprio «l'irraggiungibilità dell'infinito attraverso il dispiegarsi del finito.» Sono infatti i limiti, i confini, le barriere che con le loro incerte possibilità di varchi, l'intermittenza delle luci, lo struggimento delle attese rendono la realtà non un ostacolo ma una promessa. In Don Chisciotte, del resto modello, per ammissione di Dostoevskij, del Principe Myskin protagonista dell'Idiota, Jossua, vede la gratuità di chi ama senza calcolo, la generosità e la follia di chi, per usare le parole di Unamuno, «non spegne il lume per risparmiare il lucignolo» e si spinge là dove non vede, non comprende, obbedendo alla parte più autentica, anche se meno comoda, di se stesso.

Jossua non esita invece a mostrare il suo distacco da una «religione emotiva, estetica, venata da una sorta di sensualità soprannaturale». Ama e propone attraverso Baudelaire e Bonnefoy «l'amore per le cose mortali», vedendo frammenti di verità nel congedo, nello smarrimento, nell'inquietudine appunto che segna il nostro essere finiti, nel nostro essere sempre per ora solo sul ciglio di una porta. Una posizione coraggiosa che vieta non solo ogni sentimentalismo, ma qualsiasi tentativo di sacralizzare, ieraticizzare, allontanare la vita, fosse pure in nome della bellezza. È questo tipo di abbassamento poetico e religioso che Jossua individua nella poesia (e nella fede) dell'ultima Cristina Campo. Se infatti apprezza alcune liriche giovanili meno compiute ma più forti, si ritrae invece da poesie come Missa romana, a suo parere tanto esplicitamente cattoliche da indebolire sia la religiosità sia la forza poetica dei testi.

Ridondanza e raffinatezza, esaltazione per la liturgia e la bellezza formale, predilezione per un Dio persecutore e apocalittico fanno dell'ultima Campo l'esempio da non seguire di un cristianesimo che insiste sull'astensione e la proibizione, di un'ansia di perfezione che può diventare amarezza, di una difesa della tradizione che s'irrigidisce in polemica, dell'ossessione per un'assenza che diventa distruzione. Con rimpianto, Jossua nota come citare la mistica e San Giovanni della Croce non impedisca all'ultima Campo di allontanarsi da quella materia sonora che è invece la realtà, l'umanità della poesia. L'autrice che apprezza è la lettrice consapevole del pericolo della bellezza come rischio, come «spada a doppio taglio», la scrittrice appassionata che scrive a Williams Carlos Williams per sottoporgli le sue traduzioni, la studiosa radicata nell'attenzione e vicina al pensiero di Simone Weil, tradotta e condivisa con il filosofo veneziano Andrea Emo. È l'immagine che affiora dal volume curato da Margherita Pieracci Harwell dal titolo: Cristina Campo e i suoi amici (Edizioni Studium, 2005). In questo libro fatto di echi e lettere, di memorie e dialoghi tessuti con uguale intensità tra vivi e morti forse si può rintracciare la parte più autentica e inquieta dell'opera di Cristina Campo, sicuramente quella più libera da condizionamenti ma anche più drammaticamente tesa a restituire nella propria opera, soprattutto critica, il respiro dell'opera altrui. Descrivendo il suo primo incontro con Cristina Campo, Margherita Pieracci Harwell mette in luce, da lettrice, «l'urgenza di sapere come a un altro essere umano sia o sia stato possibile... in senso spirituale, vivere». Una domanda che si rispecchia nella frase di uno degli «amici» (e maestri), non necessariamente viventi della Campo, quell'Hugo von Hofmannsthal che insieme ad altri era destinato a comporre, per l'appunto, «un libro degli amici». Se infatti il senso della poesia è lettura del mondo ma anche del destino, quello dell'amicizia è conoscenza di sé nell'altro. Alla radice di entrambe, come nota Pieracci Harwell, «è il mistero che appartiene al sacro» quel mondo altro che per la Campo poteva essere suggerito solo da un linguaggio «alto» che, secondo la testimonianza della studiosa, Cristina Campo usava anche per parlare con giornalai, camerieri di caffè, tassisti e «che loro intendevano perfettamente, perché era alto alla maniera di quello petrarchesco...».

A questa esigenza si collega la domanda sul vivere «in senso spirituale» che attraversa tutto il volume, non solo come tema fondamentale ma come traduzione di traduzioni, possibilità per una lettrice, ma soprattutto per un'amica, di serbare, attraverso i ricordi, i brandelli di frasi, le citazioni condivise e amate, i volti e i luoghi, quella realtà spettrale che è la vita di una persona cara.

Nonostante le affinità tra Jossua e la Campo siano tangibili anche stilisticamente (frasi come «incontrare un altro è trovare la porta di se stessi» potrebbero essere state pronunciate da entrambi) quello che resta estraneo allo studioso è la volontà della Campo di mettere la propria opera e la propria religiosità sotto «il segno quasi esclusivo del destino». Un disagio che rende severo il suo giudizio (religioso e critico) su quella «conversione» che per la Harwell è invece esito naturale di un cammino che dalla frequentazione dei poeti porta a quella dei santi.

Più vicine alla concezione di Jossua sono invece altre due autrici italiane protagoniste con la Campo del capitolo intitolato, dai versi di Gerard de Nerval «I sospiri della santa e le grida della fata»: Margherita Guidacci e Maria Luisa Spaziani, rispettivamente tese verso «un assoluto di saggezza» e «di poesia» e apprezzate per la loro capacità di «collocare la poesia dalla parte dell'attenzione al quotidiano». Ancora più esemplari sono la vita e l'opera di Katherine Mansfield alla quale è dedicato uno dei capitoli centrali del libro. Nei Diari della scrittrice spezzati dal dubbio e dalla difficoltà, sempre in bilico tra disperazione e fiducia, Jossua rintraccia quella scrittura capace di attraversare la perdita e di accogliere il dolore, di una persona non «credente» ma comunque tesa «a non essere inferiore al proprio io più profondo». Etica del lavoro, ricerca di una verità senza enfasi, morte continuamente vissuta attraverso la malattia e riassorbita nella vita solo alla luce di brevi tregue di contemplazione e di amore. Come il tanto amato Cechov, anche l'opera di Katherine Mansfield parte dal riconoscimento della realtà «dolceamara» dell'esistere: una ironia quieta, senza fiele, nata dal non chiudere gli occhi davanti all'altrui e soprattutto al proprio male, la propria colpa, la propria limitatezza e che si trasforma in compassione per la sofferenza delle creature. A questa poetica dell'errore e dell'errare si connette l'autore che insieme a Yves Bonnefoy e a Gustave Roud resta uno dei più amati, forse il prediletto da Jossua: Philippe Jaccottet, che sigilla il capitolo finale del libro e alla cui opera lo studioso aveva dedicato il volume Figures présentes, figures absentes. Pour lire Philippe Jaccottet (Paris, 2002) e uno dei saggi del libro La passione dell'infinito nella letteratura (2005) a cura di Riccardo Emmolo e Antonio Sichera. Jaccottet è per Jossua l'interprete di un'autentica «poetica dell'Inafferrabile», di un'inquietudine paradigmatica che parte dal dubbio e si radica solo nella luce della propria fragilità e della propria ignoranza.

Nella debolezza la nostra verità

La lettura di Jaccottet procede attraverso una serie di citazioni tratte sia dalle liriche (per le traduzioni italiana, cfr. Il barbagianni e l'ignorante titolo dell'antologia curata e tradotta da Fabio Pusterla, Milano,1999, Alla luce d'inverno, Milano, 1997, Arie, Milano, 2000) che da numerosi testi in prosa come La Semaison , Eléments d'un songe, Une transaction secrète. Poeta agnostico, attentissimo a non dire ma anche a non alludere, rispettoso dell'enigma, ma anche dell'esattezza, cauto verso tutta la terminologia del sacro ma deciso a seguirne le tracce, i cenni, e i segni sulla terra, Jaccottet riesce a registrare le intermittenze, i lucori, le ombre e le assenze che valicano i luoghi. Lontano da ogni arroganza, «nutrito di ombra», l'io di questa poesia è laterale, addossato, fragile, «disattento a se stesso» secondo la lezione ancora una volta di Simone Weil, nome che del resto attraversa tutti i carnets della Semaison, per essere attento al mondo. Così «chiesa» è un muro sbrecciato o una casa invasa dall'edera e abbandonata, «eterna» è la polvere di un gregge che torna a casa la sera, «illimitato» un paesaggio dove sembra cancellarsi il confine tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti.

La stessa poesia (come in una lirica a cesura delle prose del primo taccuino della Semaison) ritrova il ritmo dei Salmi per farlo rintoccare su immagini di pioggia, nebbia, ombre, abbassa e non alza il suo tono davanti all'inatteso: «Io parlo nutrito d'ombra\ e ruminando magre pasture di tenebre\ povero, debole, addossato alle rovine della pioggia\ mi stringo a ciò di cui non posso dubitare,\ il dubbio...» L'infinito è allora la finitezza di questa voce e di questo sguardo, la debolezza l'unico riconoscimento della nostra verità, il canto una possibilità del silenzio.

Verso spazi senza potere né vittoria

Se c'e' un logos divino, se di questo discorso la terra trattiene qualche traccia imprecisa e semicancellata, forse la poesia è, nella sua insoddisfazione, nella sua incompletezza, nella sua stessa marginalità, uno dei pochi linguaggi in grado di ascoltare e faticosamente decifrare una lingua più vasta, più profonda, ancora lontana e straniera. Certo, la fede può separare, ma il mondo creato può diventare per tutti, un varco, una possibile apertura e comprensione: «... solo intende il cuore\ che non cerca potere, né vittoria», recitano altri versi di Jaccottet. Il cuore che intende è capace di accogliere, di raccogliere cenni dispersi che forse potranno parlare ad altri, sorprendendoli, se non trasformandoli.

Chi ascolta, ed è questo che preme a Jossua nella sua duplice veste di credente e innamorato della poesia, riesce a tendere l'orecchio verso uno spazio dove non c'è posto né per il potere, né per la vittoria. Chi legge trova, non la poesia con la maiuscola, ma le poesie, queste «piccole lanterne nelle quali arde il riflesso di un'altra luce».

JEAN-PIERRE JOSSUA
Nato da una famiglia di origine ebraica Jean-Pierre Jossua entrò nell'ordine domenicano a ventidue anni. Da trentacinque anni analizza da teologo la letteratura moderna e in particolare poeti agnostici come Nerval, Reverdy, Jaccottet, Bonnefoy. Rettore dell'università domenicana Le Saulchoir, tiene attualmente corsi di estetica al «Centro Sevres». Tra i suoi numerosi volumi, i quattro della monumentale Pour une histoire religieuse de l'expérience littéraire (Parigi,1985-98), inoltre La littérature et l'inquiétude de l'absolu (Parigi, 2001, appena tradotto da Diabasis con il titolo La letteratura e l'inquietudine dell'assoluto), e il libro dedicato a Philippe Jaccottet, dal titolo Figures présentes, figures absentes. Pour lire Philippe Jaccottet (Parigi, 2002). Inoltre, sono da ricordare i cinque volumi del Diario teologico (1976-2001) e l'autobiografia Une vie (Parigi, 2001). Una parte importante del lavoro di Jossua - il cui filo comune è la ricerca delle analogie tra i vincoli che incontrano tanto i poeti quanto i teologi nel nominare il mistero e l'esperienza spirituale - è anche quella dedicata allo studio del vocabolario della transcendenza.

CRISTINA CAMPO
Il suo vero nome era Vittoria Guerrini, nacque a Bologna nel 1923 da una famiglia al tempo stesso agiata e colta. Una affezione cardiaca le impedì di frequentare la scuola, ma ebbe una buona istruzione privata e studiò l'inglese e il tedesco sui testi dei poeti, che cominciò a tradurre già tra il 1943 e il `44. Figura schiva e umbratile, fu al centro di numerose relazioni con alcuni tra i protagonisti dell'ambiente culturale fiorentino: fondamentale fu l'incontro con Leone Traverso, che la introdusse allo studio di uno degli autori da lei preferiti, Hugo von Hofmannsthal; mentre è all'amicizia con Gianfranco Draghi che dovette la scoperta di Simone Weil. In vita Cristina Campo - che morì nel 1977 - pubblicò in vita solo due libri: Fiaba e mistero (1962) e Il flauto e il tappeto (1962). Quasi tutta la sua opera venne curata, postuma, dall'amica Margherita Pieracci Harwell. Tra i suoi titoli, Lettere a un amico lontano, Scheiwiller, 1989, Gli Imperdonabili, 1987, La tigre assenza, 1991, Lettere a Mita, 1999, tutti pubblicati da Adelphi, come pure lo studio che le ha dedicato Cristina De Stefano con il titolo Belinda e il mostro, 2002




Ottobre 2005

Collana Il castello di Atlante
Formato 13x21
Pagine 152
Prezzo di copertina: € 12,00
ISBN 88 8103 241 4
Ed. Diabasis



Jean-Pierre Jossua è un padre domenicano che ha partecipato al Concilio e alle riflessioni che l'hanno preceduto e accompagnato, teorico di una teologia della letteratura (oltre che come leggere criticamente un testo in modo teologicamente significativo). Perché questo avvenga Jossua ipotizza la nascita di una teologia letteraria che sappia essere mediatrice, rigorosa, personale ed essenziale e, insieme, di una "scrittura teologica", non necessariamente religiosa, che sia ispirata ad una poetica del trascendere.
Questa proposta teorica si sviluppa lungo un affascinante percorso di cinque casi concreti di "teologia letteraria", cinque autori diversi per provenienza geografica e scelta del genere letterario: Miguel de Unamuno, Catherine Mansfield, Peter Handke, Philippe Jaccottet e le poetesse Cristina Campo, Margherita Guidacci e Maria Luisa Spaziani.

26/11/05

manuela perrone. la mia generazione

sventravano cappelli la notte davanti al mare
gettavano gli ami dai terrazzi per pescare parole
era una caccia grossa all’amicizia
era un’imboscata alla vecchiaia

me li ricordo i muscoli frementi e tesi
gli odori del gel e dei sudori
rossori al contatto con pelle nuova
le ragazze profumavano di phon

oh, i denti sempre in primo piano
(mica come ora)
i denti trofei di una battaglia vinta
perché non combattuta ancora
i denti delizia della lingua e marmo
criselefantino ripetuto a scuola – la vergogna
delle mani alzate con le risposte note. meraviglia
oggi quell’ansia di uguaglianza senza voglia
di mentire chiacchiere amori e distinzione

il doppiopetto avrebbe marciato a marzo
e scatenato quegli orribili chiarori:
di grazia, all’improvviso, un Arlecchino grigio
s’impadronì di loro scalzò i furori vinse allori

quale è stato il volo, dove è morto
quando han perso l’ossuta distrazione
chi ha sbagliato la conta delle more:
trenta candele da soffiare, mosche in mano

una metà sprecata del cammino
come una mezza mela marcia
e l’altra ancora da addentare
tra le braccia fioche di papà futuro.

19/11/05

voglio una vita indeterminata

La facciamo una piccola antologia (racconti e poesie) sugli anni precari che stiamo vivendo?
Perché una letteratura che schivi il problema sarebbe vile e menzognera.
Vecchi CO.CO.CO. e precari del mondo unitevi...

Anche con la controparte dei lavoratori fissi e invidiati, naturalmente.

16/11/05

l'unica cosa che conta e 40000 volte grazie

Leggendo questa cosa qui ho capito davvero che forse stavo imboccando un sentiero sbagliato, voglio solo invecchiare felice con quel poco che basta a vivere dignitosamente. Non voglio aspettare né i Barbari né i Tartari.

Pure che Kafka mi scrive che "tutti gli errori umani sono impazienza, interruzione precipitosa di ciò che è metodico, apparente recinzione intorno all'apparente", so solo che ho avuto la pazienza di aspettare l'arrivo della Speranza per ventidue anni, ora che ho smesso di farmi concupire dalla sterile superbia dei miei vent'anni vedo con un pizzico di chiarezza in più, nei Padri del Deserto leggo che la superbia è paragonata a un cane che lecca una lima, il cane lecca il suo stesso sangue, non smette perchè quello che lecca è dolce, dolce e letale: continuando a leccare la morte giungerà. Dolce e letale come il frutto amaro di un ego ipertrofico. Sarei disonesto a non dire che per interi anni ho dedicato parecchio tempo ad arrotare la mia lima, l'ho capito solo ora. E ho smesso appena in tempo, prima ancora - spero - di iniziare a leccare.
L'ho fatto capendo che è giunto il momento di commisurare i sogni e le legittime aspirazioni ai reali e concreti bisogni.

Questo è quanto. Mi accorgo pure che avete letto 40000 volte i miei dicotomici furori, non posso che dirvi altrettante volte grazie.

Avete capito che mi ha messo sulla strada la voglia di rovesciare la preoccupazione di Calvino: "Come scriverei bene se non ci fossi! Se tra il foglio bianco e il ribollire delle parole e delle storie che prendono forma e svaniscono senza che nessuno le scriva non si mettesse di mezzo quello scomodo diaframma che è la mia persona!" (Italo Calvino, Se una notte d'inverno un viaggiatore, cap. VIII).

Io ci sono, ci sono ancora di più quando scrivo e scrivendo vedo meglio cosa mi detta dentro questa vita. Ma questo, se siete arrivati a leggere sino a qui, lo sapete già.

15/11/05

Silvia Geraci:

Sottoscrivo la poetica dello scolapasta.

bella sintesi tonino, efficace
io devo ancora mettere l'acqua sul fuoco, ma intanto aggiungo alla preparazione del tuo pasto di scrittura, un ingrediente per farla brillare.
Per un pasto, non grigio, ma bianco. Semplice pasta con l'olio.

Dici delle olive, anch'io le ho raccolte qualche giorno fa e mentre tenevo stretto un ramo, quasi tiepido sotto il sole come carne, il mio corpo aderente al tronco, e poi davanti all'olio che iniziava a uscire dal rubinetto, denso, verde, profumato, una carezza della terra, pensavo appunto, che quello era il punto..

come nel saggio sulla cosa, das Ding, di Heidegger:
la cosa non è lo strumento, l'oggetto utilizzabile, ma il crocevia tra terra e cielo, lo squarcio dell'apertura Il buon Martin col suo gusto delle cose antiche che sanno di classico, faceva l'esempio della brocca.
La brocca è "cosa" perchè è accoglienza di vino, il vasaio l'ha modellata intonro a quel vuoto centrale, che è lo spazio dell'offerta, del dono cui il vino è destinato, quando sarà versato per qualcuno o per un dio.
"La scienza trasforma la cosa-brocca in qualcosa di nullo, in quanto non ammette che a dare la misura siano le cose. Ci costringe ad abbandonare la brocca colma di vino e a sostituirla con uno spazio cavo in cui si espande un liquido"

Al frantoio di Scopello, tra un vecchio siddiato e intabarrato di lana vecchia e spessa, il volto millenario, e le macchine che trituravano e comprimevano le olive, l'olio erano le mani di mio padre, tutte le sfumature del suo passo, era la casa da cui l'olio viene e a cui va, era la misura del mio essere fatta di carne e sangue, finita, dipendente, obbediente alla materia e al tempo, corpo che abita uno spazio, mano che raccoglie il rosario delle olive, che sgrana la treccia degli ulivi, mano che versa il filo d'olio nella zuppa, che si nutre per parlare grazie all'olio, nell'olio che porta in sè, per parlare poi anche dell'olio stesso, di questo fuori che lo fa vivere.
Nutrimento pensato. Riconoscere un'esteriorità: l'oliva non è per-me, ha un'opacità di mondo che resta segreta, anche se quel che colgo io, dell'oliva, è solo o il fatto che è bella, o che mi aiuta a vivere. Mi viene in mente mia nonna che rende grazie prima di mangiare, o i cimiteri di orsi dei primi uomini fatti per espiare la colpa.
Che è poi la colpa di essere fatti di corpo, mentre vedendole pensiamo le cose, e le sappiamo fuori, lì, potenzialmente oggetto custodito, o potenzialmente aggressori. Insomma esterni.

"L'ulivo nutrice di bambini", diceva Sofocle nell'Edipo a Colono.

La poetica dello scolapasta la direi anche poetica del frantoio.
Come si usano gli oggetti, appunto.
Filtrare il reale, lasciare la pasta al fondo dello scolapasta, e fissare nelle parole quella poca cosa che viene da lontano, mentre si versa l'olio di questo pasto bianco (l'ho letto, il libro, Demetrio, e medito da un po' di scrivere quello che ne penso)

14/11/05

Aquilone vs. Scolapasta

Ho capito che ero cresciuto quando per la prima volta sono salito su una scala per raccogliere le olive, lì col sole che filtrava nell'intrico dell'ulivo ho visto e capito. Capito che esistono fondamentalmente due visioni dello scrivere e in esse uno può perdersi e solo perdendosi ritrovarsi. Schematicamente possiamo riferirci a due oggetti totemici che incarnano queste dicotomiche visioni di letteratura e di vita.

La prima è l'aquilone, simbolo di una letteratura che ti scaglia lontano, in alto nei cieli di metafore e mondi di parvenze fallaci. E' la visione imperante soprattutto nella prima fase, quella di chi s'accosta alla letteratura per allontanarsi dalla vita. La lettura e, di conseguenza, una scrittura che appanni la visione che uno ha del mondo, un facile nascondiglio, cadiamo tutti nella tana del bianconiglio per dimenticare che con l'euro è diventato pure difficile acquistare un mocio vileda con quella leggerezza che caratterizzava i folli anni Ottanta.



Ma questa è una fase che deve durare poco, il tempo necessario per la scomessa che il lettore deve fare con sé stesso come Dio con il Tentatore quando si trattava di provare la fede del buon Giobbe. In questa scommessa dobbiamo metterci in gioco, scegliere letture che aprano nuovi modi di fruire il reale, è la letteratura che possiamo chiamare dello Scolapasta, una letteratura che funge da filtro per il reale.

Antologia Dicotomica (the best of 2005)

Anno dopo anno ogni estate accumulo dicotomici furori che lascio andare liberi nella rete, poi quando la vita vera, quella lontana da questo schermo ha il sopravvento mi piace recuperare le pietruzze più belle, come Pollicino, una manciata di sassi segnavia, ve li dono con cuore d'aquilone:

Ero sul divano bianco a finire di leggere Le correzioni (l'avevo messo da parte per godermi la conclusione all'inizio delle mie vacanze) e leggevo di Alfred, sceso nello scantinato con un fucile, un biscotto e l'immancabile poltrona blu. Davanti alla spirale di vecchie lampadine di natale, Alfred pensa al tempo che impietoso passa.


Scrivere per traghettare me e le mie parole nel futuro che mi sto costruendo? La scrittura-caronte? O la scrittura-orfeo che non deve mai girarsi indietro? Forse per dimostrare a me stesso che molto, forse troppo, di quello che ho già scritto lo sottoscrivo ancora oggi?


... lo scenario apocalittico è uno di quegli altri sogni iperdiffusi, lo ficchiamo tutti nel nostro carrello nell'ipermercato delle idee. Le donne hanno spesso due amici immaginari quando sono piccole principesse con gli occhi stellati di speranza, noi maschi siamo più estremi sogniamo di essere gli unici sopravvissuti di un mondo al crepuscolo che si spegne lento come una nevicata di neve nera.


il resto è quello che accade a tutti, ritrovarsi in case di cui non sai manco chi è il proprietario o che minchia ci fai lì. Bere e vomitare per poi ricominciare a bere e vomitare.
Forse così butti fuori l'angoscia che cala come mannaia sull'adolescenza che è agli sgoccioli. Perché, sin quando si tratta di abituarsi alla voce bassa e al rasoio da usare sempre più spesso, siamo tutti bravi. E' dopo che viene il difficile, quando devi metterti davanti allo specchio e dimostrare al mondo che non sei solo buono a sciupare shampoo. Che tutte le promesse che hai fatto le sai mantenere. Che sei pronto a rimetterti sempre in discussione per ribadire quello che di buono hai messo al centro del tuo mondo.



Alla fine dell'estate puntualmente andavamo a farci il convegno dell'oratorio, ma anche lì anno dopo anno eravamo sempre meno. E masticavamo sempre più spesso la frase che lampeggia alla fine dell'adolescenza: "ti ricordi?".
Sembra che tutto quello che abbiamo fatto, l'abbiamo portato a termine solo per poi poterne riparlarne oggi.

09/11/05

letture e scritture

Io ripeto sempre che scrivere è un atto nobile nel migliore dei casi, ingenuo nel peggiore. Tranne poche eccezioni di grafomani arroganti inediti che imitano grafomani arroganti già editi, scrivere non peggiora il mondo. I libri sono firmati parola per parola. I loro pregi e tradimenti sono visibili, la loro libertà o corruzione e inutilità apparirà chiaramente, sulla pagina sterminata dei secoli. Alcuni dureranno, altri scompariranno. Ogni segno su di loro è nobile ruga di tormentata e ripetuta lettura, logorio del breve vento da una pagina all'altra, sbiadire di copertine tra amori e rifiuti, sottolineature, polvere di abbandono. Mentre inalterabili, mai scelti né respinti, mai veramente nostri, i dominanti schermi ci circondano di felicità non abitata, colpiscono ipocritamente, con falsa neutralità e velenosa indifferenza, creano parodie di sentimenti che evaporano nello spazio di una sigla. Hanno soldi, potenza, ma meno idee di una singola pagina. Scrivere nasce dal leggere e al leggere è grato. Scrivere è una delle poche cose rimaste uniche e nostre, dalla firma al romanzo, dal primo tema al testamento.

Stefano Benni




Il diritto di non leggere
Il diritto di saltare le pagine
Il diritto di non finire un libro
Il diritto di rileggere
Il diritto di leggere qualsiasi cosa
Il diritto al bovarismo
Il diritto di leggere ovunque
Il diritto di spizzicare
Il diritto di leggere ad alta voce
Il diritto di tacere

Daniel Pennac

La vera verità sulla poetica delle 4 M

Un anno fa è capitato uno di quegli eventi che rendono la vita speciale, vagavo sperduto con la tesi su Paul Celan da finire e alla Feltrinelli di Palermo ho incontrato lei, la mia musa. Sembrava tutto perfetto: il luogo, i rumori, le voci sommesse dei lettori. Era una metafora fattasi carne. Ci siamo innamorati subito. Da lì ho incominciato a pensare alla metafora, il fondamento biologico di tutta la nostra vita e quindi anche di quella parte fondante che è la letteratura. Scrivevo la tesi, scrivevo di Paul Celan e del rapporto con sua madre che recupera proprio nello spazio della poesia. Proprio per Paul Celan la poesia è innanzitutto dialogo, lo esplica tramite varie metafore: la stretta di mano, il messaggio in bottiglia, sino all’estremo dell’incontro tra lettore e autore che avviene in ES IST ALLES ANDERS, il poeta legge Mandelstamm e compie un rito archetipale, smonta il proprio corpo e lo rimpiazza con quello dell’autore che legge. Una sintesi mistico chirurgica che poi riecheggia nelle pagine di Calvino nella metafora della lettura amplesso di Se una notte d’inverno un viaggiatore. Insomma tornavano sempre grappoli di metafore e il tema dell’amore, in quel tempo, Bombasicilia stava attraversando una delle sue corroboranti crisi grafico-contenutive, l’incontro con Maria mi ha fatto partorire l’etichetta di “Macchiafogli mortale e innamorato”. Pensai che era un buon punto di partenza. La poetica delle 4 M è nata anche come omaggio all’iniziale della donna che amo, niente capita per caso. Dopo la metafora, proposi alla redazione la Memoria. Di questo lascio parlare Demetrio: “Il concetto di Memoria è –a mio avviso - fondamentale per quel che riguarda la Letteratura, per capire, comprende e fare – o cercare di fare - Letteratura, perché ci dà il senso di ciò che siamo stati, e la funzione di un setaccio entro cui le storie che raccontiamo vengono nettate”.

Il mistero è stato il naturale continuamento, indagare proprio sul perché si scrive, e poi è stato un omaggio esplicito al tema del prossimo convegno organizzato dagli amici di Pietre di Scarto. Lo stupore che sta all’origine ci ha suggerito invece il tema dell’ultimo numero del primo anno che ha chiuso idealmente la poetica delle 4 M, la meraviglia che lascio commentare a Laura: “La Meraviglia è la porta parallela capace di unire e separare il tempo del reale a quello dell’immaginifico, gli anni delle faide degli adulti al tempo generico, latteo e atipico dell’Infanzia, dove quasi tutto è lecito credere e creare. È l’Utopia del demiurgo,la Meraviglia, la terra del Prete Gianni, un Mulino a Vento non vinto dalla malinconia e dal bisogno”.

03/11/05

giovani dopo la tempesta

«C'è oggi nel mondo, non solo in Italia, una disperazione di vivere che sembra togliere, proprio ai più giovani, ogni possibilità, anche semplicemente storica, di lottare. Durante il fascismo c'era almeno risentimento, negli scrittori che la mostravano. Oggi ci sono occhi che nemmeno guardano, tanto li offusca stanchezza o pianto. Ma sono occhi, sono uomini. Sono una realtà con la quale dobbiamo pur fare i conti.»



(Elio Vittorini - Il Politecnico, n. 29 - maggio 1946)