28/04/06

Pagine e almanacchi

Su Vibrisse trovate la guerra degli allegati, una mia piccola riflessione sulle biblioteche che vogliono affibbiarci col Corriere della Sera  e con tutti gli altri quotidiani e periodici.

Poi nei pochi scampoli di tempo libero, il calendario scorre inesorabile e devo mettere mano SERIAMENTE alla tesi di specializzazione, sto facendo qualche pagina statica per integrare questo blog, ho iniziato con una mia piccola presentazione.

Buon ponte del primo maggio.

puffi massoni

Puffi, una setta massonica?


Ma vi sono anche altre interpretazioni: gli ometti colorati sarebbero la risposta del Kgb alla guerra fredda. O invece dei perfetti nazisti, o dei manicheisti. Insomma, le letture si sprecano...

Di Roberto Beretta

«Noi puffi siamo così...». Già: ma così come? Massoni o comunisti, cattolici o atei, positivisti o gay? La canzoncina mica lo spiega, limitandosi ad enfatizzare il colore blu che - da solo - non dice granché.
E allora ha avuto buon gioco un sardo studioso di scintoismo, Antonio Soro, ad arruolare le buffe creature del belga Peyo in una loggia. Ne I Puffi, la «vera» conoscenza e la massoneria (Edes), Soro argomenta infatti la sua tesi secondo la quale i curiosi gnomi non sarebbero altro che una setta di iniziati gnostici, di una tendenza tuttavia minoritaria rispetto al razionalismo seguito dai riti massonici più moderni. Il Grande Puffo come un «gran maestro», insomma, e sotto di lui 99 puffi (99 come i gradi della massoneria) che vivono in case a forma di fungo in una sorta di Eden, preoccupati soltanto di sfuggire a Gargamella. Il quale simboleggia il «non iniziato» e veste di nero come un prete: non a caso, un «nemico» delle Logge. C'è poi un dettaglio filologico che induce a vedere i puffi col grembiulino addosso: la loro prima avventura si intitola «alla ricerca del flauto magico».

La vicenda potrebbe anche finire qui, in una stramberia fondata su qualche analogia azzeccata e molte illazioni peregrine. Senonché, il lavoro di Soro induce a rispolverare altre letture della medesima saga; anzitutto quella socialista. Sono tutti uguali - persino nel vestito -, vivono in una specie di comune forestale ad economia centralizzata tipo kolkhoz, non hanno nome se non per la funzione sociale che rivestono e il Grande Puffo ha la barba come Karl Marx (e non a caso è l'unico che porta calzoni e berretto rossi)... Anche questa teoria ha trovato i suoi sostenitori, Christian Fineschi e Geroge Guiggiani, che in un sito Internet di contro-informazione sui fumetti hanno spinto l'analogia alquanto in là. Puffo Quattrocchi, ad esempio, assomiglia parecchio a Trockij, e difatti lo buttano regolarmente fuori dal villaggio; lo stesso appellativo egualitario di «puffo» sarebbe un cripto-riferimento al termine «compagno», mentre Gargamella rappresenta il sistema capitalista - infatti vorrebbe tramutare gli omini blu in oro. Secondo i due interpreti, anzi, le storie puffesche costituiscono addirittura un tentativo del sinistrorso Peyo per indottrinare le masse alle idee socialiste.
Grande Puffo uguale «piccolo padre»? L'analisi è alquanto approfondita e nota ancora come nel cartoon non si faccia uso di denaro, i lavoratori cantino come tanti bravi stakanovisti e persino la marcetta che li accompagna sia piuttosto simile all'inno dell'Urss! A ciò s'aggiunga che i puffi sono nati nel 1958, in piena guerra fredda, e non ci si stupirà dunque se qualcuno non si perita di arruolarli - in modo conscio o no, su questo il dubbio resta: c'è chi sostiene che dietro il progetto di disinformazione di cartoon ci fosse il Kgb... - come quinta colonna del mondo sovietico in Occidente, in diretta contrapposizione con il «capitalista» Walt Disney. O come apologia di Cuba (il piccolo popolo di Castro e dei suoi barbudos prendono il potere nel 1959) contro l'orco americano.

Come ha notato però Massimo Introvigne, esperto di esoterismi e molto altro, Peyo alias Pierre Cuillford, morto nel 1992, era in realtà cattolico e la scuola belga cui apparteneva si richiamava alle «linee chiare» proprio in contrapposizione ai fumetti americani più violenti e meno «familiari». Se dunque i puffi adombrassero lo stile di vita della prima comunità cristiana, capace di condividere ogni cosa e costretti a nascondersi per non incappare in qualche feroce persecutore e nel suo gatto Birba (magari Nerone e i leoni del Colosseo)? Tra l'altro, il gruppo è governato da un anziano - un «presbitero» - e non comprende donne: come in un grande seminario.
Che il mondo dei puffi sia debitore in qualche modo all'universo religioso sembrano testimoniarlo pure altri particolari. Per esempio il berretto frigio, derivante dagli ambienti magici d'Oriente: lo portavano anche i re magi, quindi i sacerdoti caldei e gli adepti dei culti mitraici. E qui torna il collegamento con la gnosi e il manicheismo: in effetti (ma come in parecchi altri fumetti o nelle fiabe) la società puffosa è estremamente manichea, con bene e male nettamente separati. E c'è chi nella Puffetta ha visto incarnata la Sophia, la Sapienza esoterica riservata agli eletti.

D'altra parte, indizi diversi depongono anche per influssi paganeggianti: a cominciare dal genere stesso dei puffi, che sono gnomi o folletti dei boschi. Certi aspetti magici sono poi dichiarati, come il libro delle formule di Gargamella e gli intrugli del Grande Puffo; in fondo lo stesso linguaggio dei puffi, che sostituisce ogni verbo con «puffare», costituisce una sorta di lingua per riti o sortilegi. Altri dettagli sono più sottili: ad esempio i funghi in cui vive la popolazione bluastra richiamano da vicino certe specie allucinogene come l'amanita muscaria, usato sia dagli stregoni indiani che dagli hippies, o il peyote (anche se pare che l'autore fosse soprannominato Peyo per tutt'altro motivo: era il nomignolo che un nipotino inglese gli aveva assegnato). Dicerie di satanismo legate ai puffi sono del resto circolate negli anni Ottanta a Porto Rico e tra i gruppi cristiani fondamentalisti negli Stati Uniti, mentre in Francia il sito tradizionalista «Salve Regina» ha qualche riserva sul far vedere ai figli i puffi perché «di ispirazione comunista».

Tuttavia il più inquietante parallelo tracciato con le creature alte «due mele o poco più» riguarda indubbiamente il nazismo. Non solo Gargamella è stato trovato possedere caratteristiche caricaturali da rabbino (naso adunco, gobba, veste lunga nera) e il suo gatto, nella versione inglese, porta un nome ebraico: Azreal, come l'angelo della morte che conduce le anime al Giudice supremo. Non solo vuol mangiare i piccoli puffi, come la propaganda antisemita accusava gli ebrei di fare coi bambini. Qualcuno (in Internet) sostiene che «i puffi praticano forme nazi-platoniche di eugenetica integrale. Tutti i puffi si conformano fisicamente all'ideale del perfetto puffo, incarnato nella realtà da Puffo Forzuto, al tempo stesso Faust, Sigfrido e Arbeiter jungeriano. Puffetta è l'unica donna: ariana, bionda e con gli occhi azzurri». Nel villaggio della foresta si celebrano «liturgie politico-pagane» e tutti sono ordinati, laboriosi, virili e obbedienti come in una falange hitleriana. Sarà per questo che - pare - i cartoni animati dei puffi non vengono trasmessi in Israele?
Altre ipotesi paragonano l'ordinamento puffesco alle «città utopiche» dei filosofi illuministi, in particolare all'Eldorado descritto nel Candido di Voltaire o dal «buon selvaggio» di Rousseau o - prima ancora - nella Nuova Atlantide di Francesco Bacone: realtà in cui regna una felicità da paradiso terrestre, grazie soprattutto all'assenza di denaro; per venire invece più presso ai nostri giorni, qualche legame si può trovare con certe «comuni» ecologiche sessantottine. Chi accentua invece l'aspetto repressivo nella società degli gnomi colorati preferisce avvicinarla alle banlieues monocordi (grigie loro, blu il mondo dei puffi), che sfogano la frustrazione facendo dispetti atroci al Gargamella-sistema e agli artigli del suo gatto-polizia.

Ma l'ultima possibile lettura è legata alla storia italiana. In effetti, la serie televisiva dei Puffi è andata in onda in Italia con immenso successo dall'inizio degli anni Ottanta, contribuendo al lancio delle neonate reti Mediaset. Anzi, il gradimento popolare del cartone fu uno degli argomenti che indusse a superare molti ostacoli che i pretori mettevano allo sviluppo delle tv private. Forza Italia era di là da venire, ma un popolo azzurro esisteva già. Altro che «comunisti»...

25/04/06

Che sarà, sarà...

Incagliavo spesso nei ricordi, che a leggerli bene ci danno direzione e senso. Del liceo tutti ricordiamo il senso bello e pieno di serenità diffuso, minchiate orbe, stavamo male nei nostri corpi che cambiavano così veloci da non darci il tempo di capire. Ripenso a Salvino, Calogero, Paride che rivedo sempre più di raro, con nessuna voglia di finire nel loro paesino per ripettinare quei ricordi che sanno di stantìo oramai. E dire che addentavo il liceo per non perderlo subito, per non lasciarlo in mano all'oblio. Dubitavo che potesse durare quello stallo ma non pensavo neanche che sarebbe successo così, senza nemmeno avere il tempo di salutarli.

Li ho rivisti alla mia laurea, alcuni, quelli più vicini, quelli che mi piace pensare non fossero solo amici dei miei quaderni ad anelli in cui riassumevo e schematizzavo le materie. Gettonati come i secchioni alla vigilia di un'interrogazione non c'è nessuno. Ora tutti ci affanniamo a realizzare i nostri piccoli sogni che spesso sono sempre ridimensionati e ridimensionabili.

Nel secondo episodio di Lost di ieri sera, nel flashback dedicato al coreano, Jin, c'era una frase segnadestino. Alla domanda del padre di Sun sui sogni del promesso sposo, lui se ne esce cambiando sogni per amore della sua bella, perché è lei il suo sogno. Ecco, questa è una buona strada. Magari un giorno parleremo compiutamente di come si vive in un Comune commissariato per infiltrazioni mafiose che da quella mafia ha ricevuto affetto (guardate il Corriere di oggi...), sino a che i commercianti di Bagheria che si trasferiscono a Palermo non pagano subito il pizzo per volere dello stesso Zu Binnu.

E pensare che una sera su Sky davano la puntata dei Simpson in cui Bart scopre una stella che poi si scopre essere un meteorite in rotta su Springfield, finisce che tutti i gialli si nascondono nel rifugio di Flanders e il povero baffuto deve uscire per dare spazio agli altri cantando "Che sarà, sarà...". Quella sera, in quella cena a base di pizza con melanzane sono cresciuto di botto. Sempre per quelle lezioni di vita che l'Isola triangolare, la vecchia terra di Demetra ci dona senza preavviso. Fu una lezione lunga e dolorosa.

Fra qualche anno, quando non ci sarà più nessuno dei protagonisti pronto a intentarmi causa magari vi racconterò che cosa successe quella lunga notte, in quel balcone in cui ho fumato l'ultima Marlboro della mia vita.

razionalità

Ho scritto racconti, ricordi e altre amenità (perfino un'antologia sulla vita precarizzata).
E' giunto il momento di dare una sistemata a questo blog con un uso razionale delle categorie. A presto nuovi sviluppi, intanto rileggetevi i racconti...

24/04/06

La mela bucata

L'estate lumacava scodinzolandoci sui banchi e la panza dello Zio Filippo emergeva viscida e lasciva, tra i pelazzi della zona ombellicale facevano mostra di sé residui antecedenti alla morte di Taninu u panellaru. Si capiva che ci sarebbe successo qualcosa in quei tre mesi di libertà che albeggiavano appena. Il professore manco ci provò a tenerci ancorati ai banchi, si stette tutta la mattina a leggersi il giornaletto porno che aveva infilato tra le pagine del Manifesto.

La campanella si era allenata sin da maggio, giorno dopo giorno suonava sempre più presto, un minuto alla volta aveva guadagnato mezz'ora nel personalissimo fuso orario dello zio Filippo. Alle 12 e 35 il trillo rimbalzò sui banchi e sulle lavagne in cui tutti avevano scritto i loro buoni propositi, in cui campeggiava l'impegno comune di infilare lo sfilatino in più fanciulle possibili, era quello uno dei pochi pregi nel frequentare l'istituto tecnico, essendo tutti maschi uno poteva tranquillamente puzzare, scoreggiare e fuggire dalla doccia quotidiana che quelli del Liceo dovevano farsi per convivere accanto ai brufoli delle verginelle. Noi potevamo saltare tutta la trafila ormonale e piazzarci subito in pole position con le donnine appena sbocciate.

Eravamo rozzi e bisognosi di cure e le donne si sa, aspirano ad avere un cucciolotto da crescere e svezzare. Se sei bello pettinato e profumato non attiri la pietà femminile, basta trascurare per qualche mese le più elementari norme igieniche per trovare un plotone di infermierine pronte a metterti in tiro.
O almeno così ci aveva detto Francesco Paolo rincoglionendoci ricreazione dopo ricreazione.

Noi ci affidavamo a lui che si vantava di aver visto più fiche di tutto l'ordine mondiale dei ginecologi. Qualcuno malignava che poteva essere pur vero se si faceva rientrare nel computo tutte le fiche slabbrate stampate su carta su cui Francesco Paolo aveva perso la vista. Lui non si curava delle malelingue, si pettinava le sopracciglia con una spazzola d'acciaio fregata all'officina dello zio e si smerigliava qualche brufolo sparandosi un segone tra le pagine del manuale di informatica.

Francesco Paolo aveva organizzato tutta la nostra estate, in cambio di venti euro a testa ci avrebbe portato lì dove le fiche abbondavano vogliose. Lui era cresciuto a colpi di cinghia e bestemmie, suo padre gli aveva raddrizzato la schiena e i sogni e ora lui spiccava nel mucchio. Si faceva strada con intrallazzi e piccole estorsioni, gli piaceva cucire ragnatele di dissapori che servivano a ristabilire il suo ruolo di capo. Noi che manco avevamo il coraggio di andare all'edicola a comprare il calendario di Max lo veneravamo.

Era lucido e pratico nelle sue decisioni: forse un pò squadrato ma con tutti quei colpi di cinghia e quei segoni non potevamo aspettarci di meglio. Noi eravamo una dozzina di sbarbatelli, così timidi da nasconderci dietro i brufolazzi che ci sfregiavano la faccia. Avevamo la voce bianchiccia, appena ingrigita da qualche incontrollabile tono basso. Per capirci, sembravamo i cugini di campagna con i pantaloni ancora più stretti.

Tutto l'anno avevamo risparmiato per riuscire a frequentare il prestigioso tour erotico che Francesco Paolo in un impeto di creatività aveva intitolato "La Mela Bucata". Ciccio Spastico gli aveva chiesto delucidazioni sul nome. Ciccio era in grado di stare attaccato alla playstation per tredici giorni di fila, rimandando l'inevitabile evacuazione sino a diventare dello stesso colore della Preside che soffriva di una stitichezza incrosta-budella da quando aveva trovato suo marito che stantuffava una bambola gonfiabile ordinata sul sito della MariuzzAngel Sucking Cock Enterprise.
Francesco Paolo gli aveva risposto: - Hai presente la favola di Adamo ed Eva, il serpente, la mela e tutto il resto? Bene, io la vedo così: quella gran troiona di Eva stufa di quel paradiso voleva impiccantire la situazione con uno spettacolino hard, aveva chiesto aiuto al biscione che le aveva consigliato di usare la mela, Eva doveva alzarsi sulla punta dei piedi per acchiappare la melaccia che penzolava tranquilla dall'albero. E, nel farlo, doveva far vedere a quel gonzo d'Adamo uno sculettamento da manuale. La mela bucata si riferisce all'inevitabile conclusione della prima pornonovella della nostra cultura. Noi faremo pure così, bucheremo più mele possibili. Parola di Francesco Paolo, il leggendario Sfardamutande. O ci riesco o vi restituisco tutti i picciuli. Lo giuro su tua madre.

A Ciccio Spastico ciondolava la testa, si figurava tutta la faccenda secondo la rigida logica dei videogiochi, uno sparatutto in 3D, lui aveva solo la sua mazza e una missione: soddisfare sino all'estasi più donne possibili. Avrebbe bucato almeno due dozzine di mele.

Francesco Paolo aveva avuto un'idea geniale: accodarsi al viaggio dell'oratorio. Con la sua parlantina spaccacoglioni era andato da Padre Barbone, un gesuita vecchio, sputacchiante e con le piattole. Al parrino s'era presentato come un peccatore bisognoso di sostegno spirituale, una pecorella sperduta che aveva taciuto per troppo tempo la sua giovane coscienza per dedicarsi con ardore a migliaia di atti impuri. Padre Barbone si grattò la minchia in segno di ammirazione, riversò un doblone di catarro nella sputacchiera e dette il suo assenso: Francesco Paolo e quelle altre dodici anime perdute potevano seguire la settimana di silenzio e preghiera.
Il vero obiettivo di noi tredici peccatori erano le tette delle quindici giovinette del dopocomunione, era una verità universalmente riconosciuta, le baciapile erano delle grandissime troione. E avevano dei capezzolini che frizzavano contro le magliettine che il sudore le appiccicava alla pelle, ne sentivamo l'odore a metri e metri di distanza.

E così siamo partiti con dieci scatole di preservativi a testa, male che vada li lanceremo pieni d'acqua su Francesco Paolo se ci tira la sola.
Perché sta cosa del viaggio della speranza incominciava a puzzare di marcio, il volpone era pimpante, con 240 euro in più in saccoccia aveva già messo gli occhi e una decina di spunti per seghe su Marcella, la stratettuta responsabile del ritiro spirituale. Era lei che doveva tenere separati noi maschi dalle sue bambine. Lei e le sue tette ce la mettevano tutta, tra noi e le fanciulle aveva messo pure due piani zeppi di gesuiti, il ritiro si svolgeva nella bella villa che un signorotto aveva lasciato in eredità ai gesuiti. 6 piani in stile liberty.

Francesco Paolo non l'avevamo mai visto così servizievole ed educato, s'era pure pettinato i peli del culo per fare colpo su Marcella che, da grande e consumata puttanona, agitava il suo potenziale erotico per far sfacchinare il poveraccio. Non sapeva più che fare per sedurla, aveva già speso più della metà del capitale nello spaccio della canonica dove il prete portinaio arrotondava le entrate vendendoci magnum e cuccioloni a prezzi astronomici. L'astinenza dai dolci era compresa nella settimana di silenzio e preghiera, quindi le trasgressioni dovevamo pagarle a caro prezzo.

Noi avevamo adocchiato le pupe giuste per noi, Ciccio Spastico aveva puntato lo sfilatino su Maria Eleonora che portava un vestitino fiorato semitrasparente che dopo una giornata di lavoro e preghiere le si attaccava addosso mettendo in risalto il suo fisico in piena fioritura, ogni volta che il vento le alzava di qualche millimetro l'orlo del vestito, Ciccio aveva un attacco, finiva a terra a incularsi i lombrichi per stemperare l'eccitazione. Il massimo della sua vita sessuale sino ad allora era stato sognarsi Lara Croft con le zizze appuntite che, a colpi di pistola, gli faceva saltare via i vestiti prima di saltargli addosso.

Luigi Sciddicato aveva scoperto che con la poesia riusciva a rincitrullire Luisetta che era piccola e pelosa, a ogni endecasillabo Luisetta si slacciava un bottoncino della maglietta, consapevole che passata una certa età i suoi peli sarebbero stati un ostacolo blocca-approcci.
E poi scoprimmo che almeno su una cosa Francesco Paolo non aveva mentito: pure le femmine hanno gli istinti sessuali. Eravamo sconvolti: anche loro erano un ammasso in ebollizione di ormoni e curiosità.
Proprio per questo Padre Barbone passava la notte a passeggiare per i corridoi, con gli occhi che ci spiavano nel buio insivato dei corridoi, pareva una civetta, passeggiava con le gambe magre magre arraspandosi la minchia e provocando un rumore che ricordava quando Vincenzo il Salumaio infilava i pezzi di cacio nella grattugia elettrica.

Passavano così le giornate, pregando, elemosinando stentate pomiciatine da consumare quando Padre Barbone andava a cagare dopo il pranzo e la notte c'era l'inevitabile segone collettivo per stemperare l'eccitazione accumulata nella giornata.
Padre Barbone già il secondo giorno aveva commesso il suo primo errore. Colpito da come Francesco Paolo lavorava senza mai lamentarsi, sottoponendosi ai lavori più schifosi, tra cui spiccavano le spugnature a Padre Cosimo che puzzava di vecchie scoregge ed era peggio dei cani, quando lo bagnavi puzzava ancora di più. Padre Barbone fu tanto sorpreso che senza pensarci si grattò per bene e nominò Francesco Paolo nostro responsabile.

Restammo tutti alluccuti: cercavamo una fessura per farci strada e Padre Barbone ci aveva aperto nientemeno che un traforo. Non potevamo fallire, per quagliare finalmente con le nostre donzellette dovevamo però far sparire il sergente di ferro, quella Marcella che s'era piazzata nei sogni erotici di Francesco Paolo.
Ci riunimmo nei cessi del terzo piano, lì Francesco Paolo faceva le spugnature a Padre Cosimo che, oltre a puzzare di piscia di tirannosauro, era pure sordo come un'intera fabbrica di campane. Tra una spugnatura e l'altra affilammo il nostro piano. Ciccio Spastico aveva saputo dal prete portinaio che Marcella aveva un piccolo vizietto, le piaceva mettersi una vecchia tonaca come camicia da notte. Il prete portinaio era un vecchio porco, secondo lui quella con le tette grosse aveva qualche fregola particolare per i parrini e la sublimava così, andando a letto con la vecchia tonaca e nient'altro.

Francesco Paolo era sbiellato, se Marcella voleva sfogarsi con un parrino, lui avrebbe preso volentieri più voti della vecchia Democrazia Cristiana. Tutto avrebbe fatto per le promesse calde e bagnate che Marcella teneva incastrate in quell'impeccabile condotta.
Mancavano poche ore e finalmente avremmo consumato quello per cui c'eravamo allenati sin dalla nostra prima erezione.
Io aveva messo gli occhi su Carmelina che era bella, con le guance rosa e gli occhialetti sciddicati sul naso, pareva quella gran gnocca di Nicole Kidman in Eyes Wide Shut, coi capelli attaccati e gli occhialetti tondi.
Avevamo pagato e pregato, ci sentivamo come dovevano sentirsi i crociati prima di maciullare i mori del feroce Saladino. Dio lo voleva. Eravamo eccitati e blasfemi, un coktail micidiale. Padre Barbone doveva aver odorato qualcosa, e non erano le puzze di Padre Cosimo.
Per calmarci ci fece vedere i Simpson che poi bilanciò con dodici puntate di "Settimo Cielo". Ci portò pure una vascazza di gelato che pareva spacchio di toro, e per giunta lo sganciava in stitiche palline sopra dei coni che sapevano di pergamena. Non contento di questo, ogni tre coni si grattava le palle beate con la paletta del gelato. Vomitammo tutti, pure Marcella che trovò nelle sue due palline al limone quattro pelazzi di minchia e due cimici.

Le orazioni sembrarono liberatorie, cantammo i salmi con cuore lieto e con i piselli drizzati verso il cielo, crogiolandoci nel verde dei nostri sogni di sesso sfrenato e senza implicazioni. Nessuno protestò quando Padre Barbone ci spedì a letto. Erano le nove di sera.

Francesco Paolo s'attardò nella pulizia della sala mensa, strisciava quel mocio vileda con sentimento, sembrava quasi ballarci: una versione brufolosa e arrapata della Cenerentola di Walt Disney. Il mocio leccava il pavimento e i minuti passavano, il grande orologio della parete con Sant'Ingnazio che cavalcava un'ostia gigante segava la nostra attesa, sentivamo ogni minuto scivolarci addosso, liscio, verso la punta dolorante delle nostre mazze.
Nessuno riusciva a concentrarsi, Ciccio aveva portato il calendario di Alessia Marcuzzi e lo sfogliava freneticamente. Sulle tette di febbraio si bloccò pure lui. Mancavano solo due ore. Due ore e avremmo perso tutti la verginità. Io m'immaginavo un urlo liberatorio collettivo, in perfetta sincronia avremmo attraversato ciascuno l'imene della propria picciridda. Teoricamente sapevamo tutto, la pratica era un'avventura che non ci spaventava. Ogni pomeriggio della nostra vita l'avevamo passato sognando quel momento sulla tavolozza chiusa del cesso, con le mani vogliose a leggere tette con le dita come se fossero state fotografate in braille.
Maceravamo nel nostro sugo ormonale. L'attesa era quasi finita, Francesco Paolo si ritrovò un mozzicone di mocio in mano, aveva continuato a stricare il pavimento sempre più veloce. Le lumache tiravano fuori le corna a quell'ora, noi facevamo lo stesso. Se c'era qualche dubbio, l'esperienza del gelato lo aveva disintegrato. Avevamo sopportato tutto. Una fighetta soffice soffice valeva tanto? Sì, ci rispondemmo mentalmente in coro.

Marcella dormiva già, nuda dentro la tonaca. Francesco Paolo lasciò cadere il mocio e andò a fare quello per cui era nato.


Ci sentivamo come i topazzi che passano le giornate a intingere le code pelose nell'acqua tirchia e fitusa del fiume Oreto. L'attesa era finalmente finita. C'erano due strade, entrambe rischiose. O giocarsi la vita sul cornicione o superare l'ostacolo addentrandoci nel dedalo di viuzze che si snodava sotto la pancia dell'edificio. Nessuno di noi si sentiva di sfidare la legge di gravità, solo Batman e l'uomo ragno si muovevano lievi lievi sui tetti delle rispettive città. Noi preferivamo strisciare. Lo facevamo da una vita.
Sotto il pavimento della cucina c'era una botola che portava dritta in cantina, decidemmo di servircene, dalla cantina poi avremmo risalito il falso pilastro in cui correvano i tubi della fognatura. Non eravamo in America, non c'erano le condutture dell'aria condizionata.

A quell'ora Francesco Paolo aveva già consumato, almeno ci speravamo. Altrimenti ci finiva come nel vecchio proverbio che le nostre madri ci avevano spillato in testa: spesso chi va per fottere ci resta fottuto.
Rivolgemmo un'ultima occhiata a Sant'Ignazio e alla sua ostia gigante e ci calammo nel budello dove si schiantavano tutte le nostre speranze.
Io guidavo il gruppo e coccolavo i miei sogni d'amore. Da sempre mi dondolavo l'idea di regalare l'ingombrante verginità a una ragazza con gli occhi turchini, stavo per farcela. Bruciavo di passione, mi spingevo in quel buio, sempre più dentro al culo del peccato. Se ci avessero scoperto ci avrebbero rinchiuso nella cripta dei cappuccini a Palermo, insieme alla bambina mummificata e alla sua bambola. Sembravamo i Beati Paoli, avvolti nei sacchi meri dell'immondizia per evitare di macchiarci ed impuzzarci i vestiti. Ciccio aveva gli occhi fosforescenti a forza di stare incollato alla playstation, lo usavo come copilota, bastava tenere le braccia alzate e carezzare il tubo della fogna all'incontrario, sino a ciascun cesso. Saremmo sbucati dritti dritti nel cesso delle ragazze. Scavalcando così le telecamere e le bobine di filo spinato strappa-coglioni che Padre Barbone aveva messo in giro per i corridoi.
Continuavamo a salire, uno sull'altro, il falso pilastro era bello largo, di sicuro i vecchi proprietari lo usavano per nasconderci periodicamente qualche parente che aveva delle grane con gli sbirri. Ero stato io a scoprire quel passaggio segreto, cercavo un posto dove ammucciare i giornaletti porno e m'ero imbattuto nella nostra salvezza.
I tubi avevano dei rampini che li tenevano attaccati al muro, li usammo come una scala a pioli e continuammo la nostra salita. Passo dopo passo s'avvicinava la nostra meta.
- Ciccio, passami il mazzuolo. Se ho fatto bene i conti siamo sotto i cessi delle picciridde. Basta sganguliare questo falso telaio e passiamo dalla merda alla fica.

Io sono stato sempre pessimista, mi immaginavo che, pure che avevo tirato le ascisse e le ordinate per calcolare al millesimo il punto preciso dove iniziare a scavare, ci saremmo ritrovati sotto il culo rachitico di Padre barbone intento a sganciare le sue caccoline secche secche dentro alla tazza, seduto lì sudato col breviario in mano.
No, i calcoli erano corretti. Finimmo tutti nel cesso delle ragazze, lo avevo riconosciuto da quei cestini speciali che servono solo per buttare gli assorbenti già zuppi di sangue mestruale.
Era uno di quei momenti in cui il tempo si ferma e tu ti trovi lì, ritagliato dal contesto, come se stessi rivedendoti in tempo reale la moviola di quello che ancora devi dire e lo vuoi gridare a tutti che stavolta non avrai paura di poter sbagliare ancora. L'adrenalina ti pulsa sincera in corpo, i fiumi di sudore ci mettono un'eternità a scivolarti via dalla fronte. Li avevo tutti dietro, li sentivo, avevano paura. Paura per quello che avevano sognato sin dalla prima erezione consapevole. Era sempre la solita faccenda, la distanza che seapra i sogni dalla realtà è un pelo di fica su un abisso. Mio padre me lo diceva a cadenza regolare, puoi schivare perfino una raffica di mitra ma mai e poi mai potrai resistere alle promesse che svolazzano tra le cosce di una fimmina, dopo quella perla concludeva il discorso con un vecchio proverbio: "tira più un pelo di fimmina che i buoi del carro della Madonna della Milicia". I buoi del carro della Madonna del Santuario di Altavilla della Milicia sono 6, muscolosissimi, capaci di spostare i diversi quintali del carro monumentale, l'iperbole era azzeccata come poche.
E ora ne capivo tutta la sua terribile verità. Nelle faccende di sesso siamo tutti indifesi, dove siamo più umani siamo ancora più scoperchiati.
Capimmo solo allora che Francesco Paolo era ancora vergine, come e più di noi. Il dubbio divenen certezza quando l'ultimo di noi, Casimiro Sconzolato, attraversò pure lui la breccia che avevamo aperto nel cesso delle fanciulle.

Quello che avvenne dopo non ve lo posso dire, meglio ancora, non ve lo voglio dire. Perché ci siamo passati tutti, quando per la prima volta ti trovi una donna tra le braccia il cuore ti sta per traboccare fuori dallo sterno, te lo senti martellare giù, giù sino allo scroto.ò Sei tutto un punto interrogativo, il tuo corpo cerca di proteggere quello stesso pisello che non facevi che vantare come capace di sfardare mutande e reticenze. Quando stai per realizzare il film che ti sei sbobinato in testa a ogni segone ti prende una strizza che sale dalla bocca dello stomaco, scoprimmo che, per fortuna, le donne non ce l'hanno l'ansia da prestazione e soprattutto ci restammo come merli svacantati quando ci si presentò davanti la Verità nel mezzo del turbine delle nostre reciproche spacconaggini.
Mentre noi cercavamo di arrivare dalle donne, loro che sono sempre più preparate e sveglie di noi, avevano già trovato il modo di calarsi nel nostro balcone.
C'era da restarci abbagliati da quella situazione, in amore vince chi fugge. Almeno così dicono, quella lunga lunga notte non ci furono vincitori. Alla fine riuscimmo a raggiungere le ragazze e bene o male arrivò pure l'alba che ci trovò con una luce tutta nuova negli occhi.

Di Francesco Paolo sappiamo solo che quella notte qualcosa cambiò pure in lui, gettò via gli scatoloni di materiale porno che aveva accumulato nella sua vecchia vita e incominciò quella nuova chiedendo la mano di Marcella a Padre Barbone, si erano zitati col buono. Padre Barbone si scoprì che organizzava quei ritiri spirituali proprio per dare una mano ai giovani a mettere giudizio in fatto di femmine. Perché era un uomo buono e dalle larghe vedute, sapeva che oramai era anacronistico impedire ai picciotti di sfidare la curiosità e i falsi e ideologici tabù, così preparava la donnine con corsi intensivi e poi le metteva una specie di cintura di castità fatta di rosari intrecciati. Le donne se la sfilavano senza guastare manco una pallina e se la rimettevano. Sono quelle cose che solo loro sanno fare, come sfilarsi e rinfilarsi un reggiseno dalla manica di una t-shirt attillata. E Noi ci avevamo messo una vita solo per capire come sganciare i reggitette...

Non lo so se le cose andarono proprio così, l'oblio mi lecca impietoso i ricordi. E troppo spesso la fantasia cicaleggia sorniona colorando i giorni troppo uguali dell'adolescenza che ora liquidiamo con un sorriso.

Aspettando il film tratto dal Codice da Vinci

Da La Civiltà Cattolica
Quaderno 3703, 2 ottobre 2004
Recensioni, pag. 87-89


DAN BROWN, Il Codice da Vinci, Milano, Mondadori, 2003, 523, € 18,60.


Il volume è un giallo dall'intreccio avvincente. Il mistero di un assassinio conduce il lettore in una lunga notte di omicidi e di inseguimenti di polizia. Partendo da Parigi, il lettore giunge a Londra, dove, nella Charter House dell' abbazia di Westminster, sarà rive­lata l'identità del cattivo «Maestro»che aveva architettato gli assassini. L'A., proponendo come principale prova indiziaria L’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, afferma che la figura alla destra del Cristo non sareb­be il discepolo amato ma Maria Maddalena, la quale aveva sposato Gesù e gli aveva generato un figlio. Proprio lei era il Sacro Graal del sangue di Cristo. Non solo: la Madda­lena, per disposizione di Gesù, doveva succedergli alla guida dei discepoli. La Chiesa ufficiale aveva soppresso la verità sulla relazione tra la Maddalena e Gesù e aveva fatto del suo meglio per ridurla al rango di prostituta. Erano insopportabili, per discepoli maschi, i titoli tributatile dai Padri - Ippolito, Gregorio Magno e Leone Magno ­che chiamavano una donna «apostolo degli apostoli», «la rappresentante della Chiesa» e «la nuova Eva che non annuncia la morte ma la vita»!

Fin dal XII secolo una società segreta - il Priorato di Sion -, che pratica orge sessuali rituali, ha salva­guardato il «vero» ed esplosivo segreto del Sacro Graal, cioè che Gesù si sarebbe sposato con la Maddalena e che la loro linea di sangue continuerebbe fino ai giorni nostri. In seguito alla minaccia della perdita della prelatura personale, dopo l'elezione di un nuovo Papa di tendenze progressiste, il vescovo che guida l'Opus Dei promette aiuto al Segretario di Stato. Così un membro numerario dell’Opus Dei, un ex killer convertito, è lasciato libero di recu­perare dai capi del Priorato di Sion il cryptex (un piccolo cilindro di pietra), che contiene il sensazionale segreto riguardo a Gesù e a Maria Maddalena. Non dovrebbero esserci omicidi, ma il piano si ingarbuglia. Il misterioso Maestro fornisce al nume­rario un'arma da fuoco e lo sollecita a uccidere i quattro massimi esponenti del Priorato e una suora che tenta di difendere un luogo segreto nella chiesa di Saint-Sulpice.

Il romanzo si concentra sulle vicende di sei personaggi: il fanatico ma ingegnoso vescovo dell'Opus Dei; Robert Langton, un professore di Harvard; Sophie Neveu, un'attraente criptologa francese, che scopre di esse­re una discendente di Gesù e di Maria Maddalena; Silas, un enorme killer albino; sir Leigh Teabing, un ricchissi­mo ricercatore del Sacro Graal; e un brillante detective francese, la cui rudezza nasconde un cuore d'oro. Una storia sentimentale prende l'avvio tra Robert e Sophie. Ma prima di potersi godere un weekend insieme, a Firenze, Robert torna a Parigi per localizzare il sepolcro di Maria Maddalena, nasco­sto sotto la piramide del Louvre.

Sul New York Times del 3 agosto 2003, Bruce Boucher ha richiamato gli eccentrici nonsense su Leonardo, che vengono spacciati come nuove scoperte scientifiche fisicamente fondate. Tuttavia altro c'è ancora da dire sul tentativo dell' A. di screditare il cristianesimo e di esaltare il femmi­nismo sacro, e persino il culto alla deità femminile, che si suppone sia stato tenuto «sotterrato» dai capi della Chiesa. Non pochi scrittori contemporanei hanno tentato di «provare» un legame tra Gesù e Maria Maddalena: Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln in Holy Blood, Holy Grail (1982). Essi affermano che numerose famiglie reali europee (ma non i Windsor) sono discendenti di Gesù e Maria. Brown è più cauto e nomina solamente gli antichi Mero­vingi come appartenenti alla linea di sangue di Gesù. La sua posizione si basa sulla decifrazione del codice della pittura di Leonardo. Ma la sua interpretazione è troppo eccentrica e, francamente, disinformata.

Il Codice da Vinci è un insieme di errori storici, anche se forse inseriti per dare sensazionalità al thrilling, con la mobilitazione di tanti perso­naggi per impedire una «rivelazione»così sconvolgente. La tesi che l'impe­ratore Costantino abbia spostato il giorno del culto cristiano alla dome­nica (p. 232) è semplicemente falsa. La prova è in San Paolo e negli Atti degli Apostoli, che narrano come, già agli albori del movimento cristiano, i credenti avessero spostato il giorno del culto dal sabato alla domenica. Questo era il giorno in cui Gesù era risorto dalla morte. Ciò che Costanti­no fece il 3 marzo del 321 fu di stabi­lire che la domenica fosse il giorno di riposo dal lavoro. Non decretò che la domenica fosse il giorno di culto per i cristiani; era già stato fatto nel sec.I.

Brown racconta che nel 325, sotto la pressione di Costantino, fu procla­mata la divinità di Cristo da parte del Concilio di Nicea. «Fino a quel punto della sua storia Gesù era stato consi­derato un profeta mortale da parte dei suoi discepoli [...J, un uomo gran­de e potente, ma niente di più che un uomo». Brown dovrebbe leggere il Vangelo secondo Giovanni, che include le parole con cui san Tomma­so chiama Gesù «Mio Signore e mio Dio», e che esprime in molti altri passaggi la divinità di Cristo. Alcuni decenni prima che fosse completato il Vangelo di Giovanni, le lettere di san Paolo affermano ripetutamente la fede in Cristo in quanto Dio. Il Concilio di Nicea non inventò la fede nella divinità di Cristo, ma aggiunse un'altra modalità di confessarla, dichiarando il suo «essere di una sola sostanza con il Padre».

Nel perorare il culto per la divi­nità femminile, Brown ignora gli studi recenti e svilisce le radici giudaiche del cristianesimo. Egli tiene a precisare che «praticamente tutti gli elementi del rituale cattolico -la mitra, l'altare, la dossologia e la comunione, l'atto di nutrirsi di Dio - furono presi direttamente dalle precedenti religioni misteri che paga­ne». Come è possibile che Brown ignori l'uso degli altari nel culto giudaico, nel quale gran parte della ritualità cristiana ha le sue radici? L'impiego della mitra da parte dei patriarchi e poi degli altri vescovi nel cristianesimo orientale ebbe origine dalla corona dell'imperatore. In Occidente l'uso della mitra può esse­re fatto risalire all'XI secolo, quando le religioni misteriche pagane erano già da tempo scomparse. La dossolo­gia cristiana («Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo») si fonda su alcuni Salmi giudaici (ad esempio, i Salmi 8, 66, 150). L'Eucaristia ha le sue origini nella Pasqua ebraica, cele­brata da Gesù e dai suoi discepoli nella notte prima che morisse.

Un'assurdità da togliere il respiro è l'asserzione, come «dato di fatto», che il tetragramma del nome di Dio, YHWH, «derivi da Jehovah, un'unione fisica androgina tra il maschile Jah e il pre-ebraico nome di Eva, Havah». YHWH è scritto in ebraico senza alcu­na vocale. I giudei non pronunciano il nome divino, ma «Yahweh» era, così pare, la vocalizzazione corretta delle quattro consonanti. Nel XVI secolo alcuni autori cristiani introdussero il termine Jehovah, ritenendo erronea­mente che le vocali che impiegavano fossero quelle corrette. J ehovah è un nome artificiale creato meno di 500 anni fa, e certamente non si tratta di un antico nome androgino dal quale sia derivato YHWH.
Si potrebbe continuare a lungo nell'elenco degli errori storici presen­ti ne Il Codice da Vinci. In breve, non si deve dare credito ai suoi contenuti storici, al di là dell'interesse suscitato dall'intreccio.


G. Q'Collins

22/04/06

Stefano D'Arrigo e l'unico ponte possibile

Il preannunciato traghettamento in Word Press non decolla, pensavo che fosse impossibile ma WP è più instabile di Splinder.
E poi a questo non luogo oramai mi ci sono affezionato.

Fuori la gente si prepara per il grande esodo, il ponte del 25 aprile è l'unico ponte che la gente vuole davvero. A Messina e Reggio Calabria stanno bene così, con i traghetti che inghiottono treni, pullman e auto e li sputano da una costa all'altra, immemori di Scilla e Cariddi a cui Stefano D'Arrigo, autore che dedicò la vita ad Horcynus Orca con cui hanno lottato in questi 29 anni orde di critici, detrattori o entusiasti.

Ho ricevuto il libro-vita di D'Arrigo l'anno scorso per il mio 23simo compleanno (me lo poteva regalare solo chi mi conosce DAVVERO bene). L'ho affrontato più e più volte, invano. Ora voglio completare la triade con la prima edizione del manoscritto (I fatti della fera) e Cima delle nobildonne.



«Ho costantemente cercato di fare coincidere i fatti narrati con l'espressione, la scrittura con l'occhio e con l'orecchio, rifiutando qualunque modulo che mi apparisse parziale, astratto o intuitivo, cioè non completo e assoluto. Non ho rinunciato a nessun materiale linguistico disponibile perché sono partito dall'obiettiva sicurezza che i luoghi della mia narrazione – luoghi topografici ma soprattutto luoghi del testo – restino un fondamentale punto d'incontro e filtraggio delle lingue del mondo. Naturalmente, ogni volta che ho adoperato neologismi o semantiche inedite mi sono preoccupato di fornire immediatamente il corrispettivo metaforico, di scrivere, riscrivere, rifondare il periodo e 'mirare' il vocabolo finché non giudicavo d'avere raggiunto l'espressione completa: fino al momento in cui guadagnavo la certezza che il risultato ottenuto fosse quello giusto e definitivo, che la totalità lessicale, sintattica e semantica fosse realizzata, che, sulla pagina finita, la scrittura 'parlasse'»


Stefano D'Arrigo; Scill'e cariddi. Luoghi di "Horcynus Orca", in "Lunarionuovo", Acireale 1985.


Approfondimenti in rete li trovate qui:
uno degli speciali di Genna sui Miserabili ,
un dossier sull'orca e uno speciale su D'Arrigo su Italia Libri (bella miniera di cultura, aggiungetela tra i vostri preferiti)

21/04/06

l'unica verità sulla letteratura

"Solo quando, molti anni dopo, toccai per la prima volta il corpo della mia innamorata, capii che la letteratura può essere inferiore alla realtà".

Alberto Manguel, Una storia della lettura

addio rinviato. una storia della lettura e le derattizzazioni.

Che è un complotto splinderiano? WP per ora è irraggiungibile, e allora ve lo dico qui che il venerdì il lavoro è in uno stato strano, sospeso, come l'incredulità che anelava Wordsworth, leggevo oggi Una storia della lettura di Alberto Manguel (Oscar Mondadori, Saggi, 10,40 €), un testo che consiglio a tutti. Soprattutto  a quelli che pensano che leggere è come respirare. Qui un'intervista, Manguel per quattro anni è stato gli occhi di Borges, il libro inizia con una storia di Manguel lettore e prosegue, spaziando per i secoli, dal tentativo goffo di spiegare la fisiologia sottesa alla lettura ad alcune notizie documentate e sorprendenti, come il lettore ad alta voce dei sigarai cubani o il ritorno all'antico che rappresenta la lettura su monitor.

Lunedì i grandi capi hanno piazzato una provvidenziale derattizzazione, che come sempre cade il giorno prima di una festività per prolungare lo splendido ponte del 25 aprile...

20/04/06

Addio e grazie

Da oggi mi trovate qui

scivola via

La vita scivola via, perduta a cercare scuse per evitare di finire il programma di una materia che tanto l'appello scivola facilmente in avanti. Perduta davanti alla macchinetta del caffé col lavoratore socialmente utile che viene a schiodare dalla catacomba il collega che ha l'ufficio con l'apriporta che segnala sempre l'occupato come se fosse un cesso. Vivacchiamo semiaddormentati sino a quando rincontriamo brandelli di noi e dei nostri ricordi che inseguono il vento della sera per affermare il proprio diritto a stare in questo mondo, che come dicevano i filosofi di quella bella epoca resta ottimisticamente il migliore dei mondi possibili.

Smettendo di fumare ho ripreso a gustare cibi e sapori che non sanno più di fuligine e nicotina, splendida compagna di questa prima parte di trascorsa adolescenza  a cercare di rattoppare la vita degli altri per non vedere le falle che rischiava la mia. Da quando, udite udite, lavoro, questa parola altisonante che ormai è un sogno proibito come l'orgasmo multiplo per un'infibulata, realizzo secondo il buon vecchio Zio Marx la mia essenza sociale. In che cosa essa consista, lavorando attaccato al sito dell'INPS non so, ma è già un buon punto di partenza. Meglio di chi si illude di rinviare l'inevitabile continuando ad alzarsi alle 10.

19/04/06

una giovanissima sposa trullò sul powerpoint del Barone

Ogni tanto faccio una specie di Blob, pizzicando e spizzicando i siti che rubrico tra i preferiti...



Nella notte di nozze, al culmine del suo primo orgasmo, la moglie si lascia scappare una scoreggia. Tommaso Landolfi lo dice così: "Sul più bello della sua prima estasi d'amore, una giovanissima sposa trullò". Il racconto si intitola "Sub specie flatus", fa parte della raccolta In società. È il 1962. "So bene che ormai non potrai più amarmi", dice, mortificata, la sposina al marito. Ha visto giusto: il matrimonio va a monte in meno di un anno. All'inizio degli anni Sessanta, una scoreggia matrimoniale poteva innescare nella coppia una lunga catena di umiliazioni e ripicche tali da provocare il divorzio.

Oggi la sposina direbbe: "So bene che solo così potrai amarmi". L'esibizione del negativo è l'attuale strategia di successo. Mostrare difetti, cadute di tono, debolezze caratteriali, oggi ripaga. [continua a leggere il pezzo di Tiziano Scarpa, Gli alchimisti del brutto]



.::.



Powerpoint ha nelle università la stessa funzione e diffusione della pubblicità in televisione: un rassicurante continuum brevemente interrotto da rare, inutili trasmissioni. Disegni animati e squilli di trombe: “Signori e Signore ecco a voi…”; ci siamo trasformati in prestigiatori della domenica del sapere.
Se ingenuamente si pensa che si possano tenere lezioni agli studenti senza utilizzare questo prezioso strumento tecnologico, si sappia che ci si troverà esposti al pubblico ludibrio; peggio ancora se si crede di ingannare qualcuno usandolo solo per proiettare segmenti di testo: così facendo ci si consacra ad incarnare il prototipo del dinosauro accademico. [continua a leggere Bestie d'Accademia di Elisabetta Convento]

dal sito della minimum fax

20 APRILE: LA NOSTRA GIORNATA MONDIALE DEL LIBRO!

per tutti quelli che hanno segnato sul calendario questa data, per tutti quelli che per un anno intero hanno riempito il loro salvadanaio e ora lo stanno fissando con sguardo assassino e un martello in mano, per tutti quelli che dall'anno scorso non fanno che compilare liste su liste di libri minimum fax in attesa di togliersi "lo sfizio" tutto insieme in una grande abbuffata letteraria che ricorderanno fino all'anno prossimo e per tutti quelli che fino ad ora hanno tenuto interi scaffali della loro libreria misteriosamente vuoti aspettando questo giorno per riempirli... L'ATTESA E' FINITA: giovedì 20 aprile festeggeremo (con qualche giorno di anticipo) la giornata mondiale del libro!!
Dalla mezzanotte del 20 e per tutto il giorno il nostro catalogo (a parte i gadgets, il cofanetto delle poesie di Charles Bukowski Le poesie dell'ultima notte sulla Terra e il CD As smart as we are) sarà scontato del 50%!!

ecco qualche informazione tecnica:

- le spedizioni avverranno esclusivamente tramite corriere espresso (quindi niente posta);
- i costi di spedizione saranno di 5 euro per pagamento con carta di credito, 8 euro per pagamento con contrassegno;
- se comprerete i nostri libri sicuramente non ve ne pentirete, anche perché non potrete! infatti, esclusivamente per questo giorno speciale, non ci sarà la possibilità di modificare o annullare l'ordine entro le 24 ore. il motivo è molto semplice: cercheremo di "impacchettare" i vostri ordini in tempo reale per farveli arrivare il prima possibile. come faremo? segreto professionale!


15/04/06

il petardo di Spadaro


Rilanciamo il bel pezzo di Vittorio Zambardino sull'ultimo libro di Antonio Spadaro






Quest'Italia divisa anche sul web

Ma ispirandosi a Ignazio di Loyola...


E SE con la rissa perpetua dell'"Italia Paese spaccato" c'entrasse Ignazio di Loyola, magari come rimedio?

Dopo la notte dei risultati elettorali, un giornalista che aveva passato tutta quella vigilia a "moderare" gli interventi nella chat di Kataweb che accompagnava la diretta di Repubblica Radio-Tv diceva: "Sto pensando di scriverne qualcosa perché sono traumatizzato. Più di 20 mila messaggi in una notte e ci sono due Italie che si odiano, si insultano, si scrivono addosso l'una all'altra solo disprezzo e incomprensione. Si scrivono ma non si leggono".

Scriversi ma non leggersi, parlarsi ma non ascoltare (si), facile paragone con quello che accade ogni giorno nei media italiani, nella conversazione dei media mainstream. E del resto, visto che avviene in tv, perché non dovrebbe funzionare allo stesso modo anche in internet? E infatti così va. Ci si scrive l'un l'altro odiandosi. O peggio, adulandosi.

Ora esce una raccolta di saggi di Antonio Spadaro, che nell'ambiente internet tutti conoscono. Gesuita, filosofo, editorialista di La Cività Cattolica, diventò più famoso di quanto già non sia qualche mese fa, quando ha dedicato un suo articolo a Wikipedia. Difficile trovare in giro una definizione più serena e precisa dell'"enciclopedia distribuita" quanto quella fatta da Spadaro, che però, proprio nel finale scivolò (per noi maligni, lui è solo coerente) in un'accusa di relativismo culturale rivolta a Wikipedia.

Fu discussa, la sua posizione, nei termini di una "condanna" - ciò che non era - sia sulla rete che sui giornali, in radio e dovunque ci fosse dibattito. Anche in quel caso, la lettura attenta di quanto scrisse Spadaro rivela solo l'approccio di un filosofo che si fa divulgatore, non tanto di una tecnologia, quanto dei processi culturali coinvolti in questo forma nuova di comunicazione umana.

Una definizione e divulgazione precisa e attenta è quanto Spadaro fa per tutte le articolazioni di internet, in "Connessioni", una raccolta di saggi edita da Paredes. Interessante soprattutto perché si tratta di divulgazione alta: Spadaro spiega al filosofo e al teologo, nonché al sacerdote, come quello strumento potrà aiutarlo per valorizzare la sua opera. In lui internet è (come in effetti è) un capitolo di cultura, non di una "tecnica" da demonizzare, che è ancora la buccia di banana sulla quale scivolano molti intellettuali laici.

Ma il vero e proprio petardo intellettuale sta nelle ultime pagine.

Il filosofo gesuita lo lancia tra i piedi di tutti coloro che vedono in internet una centralità della tecnologia e non dell'esperienza. In un articolo intitolato: La lettura come immersione interattiva. Tra esercizi spirituali e realtà spirituali.

Non vi siete sbagliati, è proprio da Sant'Ignazio di Loyola che parte (o forse arriva, Spadaro), dalla lettura non lineare, quindi ipertestuale, dei suoi "esercizi spirituali". Si parte dalla definzione di lettura - con un excursus molto "pluralista" , dove entrano anche Gadamer e Sartre - come esperienza immersiva, totale, nella quale il lettore entra con i suoi sensi, cioè con il suo corpo. Inserto laicista: chi non ha mai pensato di girare per il Castello di Hogwarts insieme ad Harry Potter o non ha sentito "fisicamente" la ferita del principe Andrei in Guerra e Pace? E Ettore e Achille, dove li mettiamo?

E' qui che Spadaro porta il suo lettore in luoghi dove mai quello, laico, si sarebbe aspettato di essere portato da un gesuita: il videogioco, i giochi di ruolo, la realtà virtuale. Per lui "l'operazione dello scrivere implica quella di leggere come proprio correlativo dialettico (...): è lo sforzo congiunto dell'autore e del lettore che farà nascere quell'oggetto concreto e immaginario che è l'opera dello spirito". Meglio di così non si poteva dire, che occorre leggersi, per non odiarsi, comprendersi anche senza essere d'accordo. (Sì. È una violenza a Spadaro, lui non lo dice, ma le recensioni servono anche per dire altro, no?


(14 aprile 2006)

il mistero dell'origine delle barzellette


Richard Matheson, LA SPLENDIDA FONTE

 

...Risparmiatemi dunque le vostre ca­lunnie, e leggete quanto segue di notte meglio che di giorno, badando che non cada nelle mani di innocenti signorine, se ve ne sono... Ma non temo per la sorte del libro, poiché è tratto da una così alta e splendida fonte che tutto ciò che n'è uscito ha sempre avuto gran successo...


BALZAC,

prologo ai Contes drôlatiques


 

Fu quella che zio Lyman raccontò nel patio, a deciderlo. Talbert stava risalendo il sentiero quando udì l'ultima bat­tuta: — "Mio Dio!" gridò l'attrice "credevo che aveste detto preservativi".


Nel patio risuonarono le risatine degli ospiti. Talbert s'immobilizzò dietro il graticcio di rose e li osservò uno a uno. Nei sandali, le dita dei piedi si flettevano cogitabonde. Talbert rifletteva.


Più tardi fece una passeggiatina intorno al Lago Bean e contemplò la lieve increspatura delle onde, i cigni eleganti e i pesci dorati. Continuò a riflettere.


— Ho riflettuto — disse quella sera.


— No! — disse zio Lyman con aria rassegnata. Non si sbilanciò oltre, ma aspettò l'inevitabile stangata.


Che venne puntualmente.

— Le barzellette sporche — disse Talbert Bean III.


— Prego? — fece zio Lyman.


— Una marea senza fine che copre la nazione.


— Non riesco — disse zio Lyman — a vedere il punto. — La voce tradiva una nota d'apprensione.


— Credo che ci sia di mezzo la stregoneria — disse Talbert.


— Streg...?

— Pensaci — disse Talbert. — Ogni giorno, in tutto il paese, gli uomini si raccontano storielle spinte: al bar e al­la partita, nei ridotti dei teatri e in ufficio, agli angoli di strada e nei magazzini. A casa o fuori, è sempre lo stesso diluvio di barzellette.


Talbert fece una pausa piena di significato. Poi: — Ma chi le inventa?


Zio Lyman guardò suo nipote con la faccia di un pesca­tore che ha appena pescato un serpente di mare: metà ri­spetto, metà schifo.


— Temo... — cominciò.

— Intendo scoprire la fonte delle barzellette sporche — disse Talbert. — La loro genesi, la loro polla sorgiva.


— Ma perché? — chiese zio Lyman, debolmente.


— Perché è importante — rispose Talbert. — Perché tali lazzi sono parte di una cultura fin qui insondata. Perché sono un'anomalia, un fenomeno diffusissimo eppure sco­nosciuto.


Zio Lyman non parlava. Le mani pallide si afflosciarono sul "Wall Street Journal" letto solo a metà; dietro le lenti ottagonali i suoi occhi sembravano due chicchi appesi al vuoto.


Alla fine sospirò.

— E quale parte — chiese tristemente — devo avere io in tutto questo?


— Cominceremo con la barzelletta che hai raccontato oggi nel patio — disse Talbert. — Chi te l'aveva detta?


— Kulpritt — fece zio Lyman. Andrew Kulpritt era uno dei tanti avvocati alle dipendenze della Bean Enterprises.


— Eccezionale — disse Talbert. — Telefonagli e chiedigli da chi l'ha sentita lui.


Lo zio estrasse di tasca l'orologio d'argento.


— Ma è quasi mezzanotte, Talbert.


Talbert Fece un gesto con la mano che indicava il di­sprezzo del tempo.


— Adesso — ripeté. — È importante.


Zio Lyman esaminò il nipote per un altro momento, poi, con un sospiro di rassegnazione, allungò la mano verso uno dei trentacinque telefoni di Casa Bean.


Per tutto il tempo che lo zio fece il numero, attese e parlò, Talbert continuò a flettere le dita dei piedi sulla pel­le d'orso che fungeva da tappeto.


— Kulpritt? — cominciò lo zio. — Sono Lyman Bean. Mi dispiace svegliarla, ma Talbert vuole sapere chi le ha raccontato la barzelletta dell'attrice che pensava che il regista avesse detto "preservativi".


Zio Lyman ascoltò per qualche secondo, poi cominciò di nuovo: — Ho detto...


Un minuto più tardi sbatté pesantemente il ricevitore.


— Gliel'ha raccontata Prentiss.


— In tal caso, chiamalo.

Talbert — protestò lo zio Lyman.


— Adesso — insisté Talbert III.


Lo zio si lasciò sfuggire un lungo sospiro. Ripiegò co­scienziosamente il "Wall Street Journal", si allungò sul ta­volo di mogano e schiacciò nel posacenere il sigaro da ven­ti centimetri. Infilata una mano stanca nel taschino della giacca da casa, estrasse l'agendina rilegata in cuoio.


Prentiss l'aveva sentita da George Sharper del consiglio d'amministrazione, Sharper dal dottor Abner Ackerman, Ackerman da William Cozener della Prune Products, Cozener da Rod Tassell, magistrato, al Cyprian Club. Tassell l'aveva sentita da O. Winterbottom, Winterbottom da H. Alberts, Alberts da D. Silver, Silver da B. Phryne, Phryne da E. Kennelly.


Per una strana circostanza Kennelly disse che l'aveva sentita da zio Lyman.


— Qualcuno di voi mente — disse Talbert. — Le barzel­lette non si generano da sé.


Erano le quattro del mattino quando zio Lyman, inerte e con l'occhio spento, si afflosciò sulla sedia.


— Dev'esserci una fonte — insisté Talbert.


Lo zio rimase immobile.

Ma a te non interessa! — osservò incredulo, Talbert III.


L'altro emise un gemito.

— Non capisco — attaccò il nipote. — Siamo di fronte a un problema affascinante. C'è un uomo o una donna che non abbia mai sentito una barzelletta sporca? Io dico di no. E tuttavia, c'è un uomo o una donna che sa da dove ab­biano origine? Di nuovo dico no.


Talbert si diresse a grandi passi verso il luogo prediletto del suo meditare, il camino da quattro metri. Ne fissò affa­scinato l'interno.


— Sarò un milionario — disse — ma rimango un uomo sensibile. E questo fenomeno mi elettrizza.


Diede un'occhiata allo zio che tentava di addormentarsi fingendo un'espressione interessata.


— Ho sempre avuto più denaro di quanto fosse necessa­rio — continuò Talbert. — Tanto denaro che non dovevo nemmeno prendermi il disturbo di investirlo. Così ho deciso di investire l'altro capitale che mio padre mi ha lasciato: il cervello!


Zio Lyman si scosse, e un pensiero prese la via delle sue labbra.


— Che ne è stato — chiese — di quella tua società, la SPC poi SPCA?


— Cosa? Ah, la Società per la Prevenzione della Cru­deltà poi diventata Società per la Prevenzione della Cru­deltà sugli Animali... Bah, roba del passato.


— E il tuo interesse per i problemi mondiali. Che ne è del trattato sociologico che stavi scrivendo...?


— Vuoi dire Ghetti: un punto di vista positivo? — Talbert fece un gesto di noncuranza. — Acqua passata.


— E dimmi, che ne è del tuo partito politico, i pro-antidisestablishmentarianisti?


— Ridotto a brandelli dalle forze reazionarie che cova­vano all'interno.


— E il Bimetallismo? Parlami del Bimetallismo.


— Oh, quello! — Talbert fece una risatina furfantesca. — Passé, caro zio. Avevo letto troppi romanzi vittoriani.


— Parlando di romanzi, che ne è del tuo lavoro di criti­co letterario? Come procedono L'uso del punto e virgola in Jane Austen e Horatio Alger, l'umorista incompreso? Per ta­cere di La Regina Elisabelta fu Shakespeare?


Shakespeare fu la Regina Elisabetta — corresse Tal­bert. — No, zio, non ne ho fatto più niente. Erano interessi passeggeri, nulla di più...


— E suppongo che lo stesso valga per Il corno da scarpa: pro e contro,eh? O magari per gli articoli scientifici: La re­latività riesaminata e L'evoluzione è sufficiente?


— Roba morta e sepolta — disse Talbert, paziente. — Mor­ta e sepolta. Quei progetti mi attiravano una volta, ma oggi miro a cose più importanti.


— Come la questione delle barzellette sporche.


Talbert annuì.

— Proprio così.

Quando il maggiordomo appoggiò il vassoio della cola­zione sul letto, Talbert chiese: — Redfield, lei conosce qualche barzelletta?


Redfield lo guardò impassibile da una faccia che la na­tura si rifiutava di animare.


— Barzellette, signore?

— Ma sì — fece Talbert. — Lazzi, battute, quella roba lì.


Redfield stava accanto al letto come un cadavere appena estratto dalla bara e messo in posizione verticale.


Dopo circa trenta secondi cominciò: — Be', signore, una volta ne ho sentita una, ero solo un ragazzo...


— Ebbene? — incalzò Talbert impaziente.


— Credo che fosse più o meno così. Quand'è che... uh... quand'è che un portmantean non è...


— No, no — interruppe Talbert scuotendo la testa. — In­tendevo barzellette sporche.


Le sopracciglia di Redfield si alzarono all'improvviso. Quell'espressione volgare era stata per lui come un pesce in faccia.


— Non ne conosce nessuna? — insisté Talbert, deluso.


— Le chiedo scusa, signore — disse Redfield. — Ma, se posso dare un suggerimento, è più verosimile che ne sap­pia lo chaffeur.


— Sa qualche barzelletta sporca, Harrison? — chiese Talbert via interfono mentre la Rolls Royce imboccava la Bean Road e filava verso la statale 27.


Hanison sembrò preso di contropiede, ma poi si girò e un sorriso complice gli raggrinzì la voluttuosa pappagorgia.


— Senta questa, signore. Dunque, c'è uno stalliere che se ne sta seduto e mangia una cipolla, mi segue?


Talbert tolse il cappuccio alla penna a quattro colori.


 

Ora si trovava in un ascensore, e l'ascensore lo portava al decimo piano del Gault Building.


La corsa di un'ora verso New York era stata quanto mai fruttuosa: non solo aveva trascritto sette delle più volgari barzellette che avesse mai sentito, ma aveva estorto ad Harrison la promessa di visitare i posti in cui le aveva ap­prese.


La caccia era cominciata.

Sulla porta di vetro smerigliato si leggeva la scritta: MAX AXE - AGENZIA INVESTIGATIVA. Talbert girò la maniglia ed entrò.


La bella segretaria lo introdusse in un ufficio sobria­mente arredato dalle cui pareti pendevano una licenza di caccia, un mitra, alcune fotografie incorniciate della fab­brica Seagram, del Massacro del Giorno di San Valentino (a colori) e di Herbert J. Philbrick, l'uomo che aveva con­dotto tre vite.


Il signor Axe strinse la mano di Talbert.


— Che posso fare per lei?


— Innanzi tutto — rispose Talbert — lei conosce barzel­lette sporche?


Axe corse ai ripari e gli raccontò quella della scimmia e dell'elefante.


Talbert l'annotò e quindi incaricò l'agenzia di svolgere indagini sul conto degli uomini ai quali zio Lyman aveva telefonato. Il compito era scoprire tutto ciò che sembrava degno di nota.


Lasciato l'investigatore, Talbert seguì Harrison in una serie di "posti sospetti". Già nel primo sentì una barzel­letta.


Cominciava così: — C'è un nanerottolo travestito da sal­sicciotto...


Fu una giornata campale. Talbert apprese quella dell'i­draulico strabico nell'harem, del predicatore che vinse un'anguilla alla lotteria, del pilota da guerra che "venne giù" in fiamme, delle due Girl Scout che persero il pasticci­no nella lavanderia automatica,


E tante altre.

 

— Vorrei — disse Talbert — un biglietto aereo di andata e ritorno per San Francisco e una prenotazione all'Hotel Millard Filmore.


— Posso chiedere perché? — disse zio Lyman.


— Oggi, mentre andavo in giro con Harrison, un venditore di biancheria intima femminile mi ha detto che un inserviente del Filmore è un vero pozzo di scienza in fatto di barzellette spinte. Si chiama Harry Shuler. Il ven­ditore ha aggiunto che, nei tre giorni di un convegno di ca­tegoria tenutosi in quell'albergo, ha sentito più barzellette da Shuler di quante ne avesse sentite nei primi trentanove anni di vita.


— E tu vorresti...? — cominciò zio Lyman.


— Esatto — fece Talbert. — Dobbiamo seguire la traccia là dov'è più forte.


— Senti — ricominciò Io zio. — Perché ti dai tanto da fare su un argomento come questo?


— Perché sono un ricercatore.


— E che cosa cerchi, dannazione?


— Il significato — fu la risposta di Talbert.


Zio Lyman si coprì gli occhi. — Sei l'immagine di tua madre.


— Non dire una parola su di lei — intimò Talbert. — È stata la donna migliore che abbia camminato sulla terra.


— Allora com'è che si fece schiacciare a morte dalla fol­la durante il funerale di Rodolfo Valentino?


— Sai benissimo che è una volgare calunnia — replicò Talbert.


— Mamma passava davanti alla chiesa per portare da mangiare agli Orfani dei Marinai Dissoluti, uno dei suoi molti uffici di carità. Una folla di donne isteriche la tra­volse per accidente e la condusse alla sua fine spaventosa...


Sull'ampia stanza cadde un pesante silenzio. Talbert, immobile davanti a una finestra, contemplava le acque del lago Bean, creato da suo padre nel 1923.


— Riflettici — disse finalmente. — La nazione pullula di storielle spinte, il mondo ne pullula! E sono le stesse, zio, le stesse! Com'è possibile? Come? Per quale arcano motivo le barzellette varcano gli oceani, si diffondono sui conti­nenti? Quale meccanismo a noi ignoto le sospinge per monti e per valli?


Si girò e affrontò lo sguardo mesmerico di zio Lyman.


 

— Io devo sapere.

Dieci minuti prima di mezzanotte Talbert salì sull'aereo per San Francisco e occupò un posto vicino al finestrino. Un quarto d'ora più tardi l'apparecchio ruggì sulla pista e decollò nel cielo nero.


Talbert si rivolse al vicino — Scusi sa una barzelletta sporca? — Aveva già preparato la penna.


L'altro lo guardò sbigottito. Talbert deglutì.


— Oh, mi dispiace, reverendo.

 

Quando furono arrivati alla sua stanza Talbert allungò cinque dollari all'inserviente e gli chiese di raccontargli una barzelletta.


Shuler gli raccontò quella dello stalliere che mangia la cipolla, ci siete? Quand'ebbe finito Talbert gli chiese dove si potessero sentire altre storielle del genere, e intanto le dita dei piedi gli si torcevano nelle scarpe. Shuler disse che doveva andare al porto e cercare una taverna che si chia­mava Davy Jones.


Quella sera stessa, dopo aver bevuto qualcosa con un di­rigente locale della Bean Enterprises, Talbert prese un taxi e si recò alla taverna di Daw Jones. L'interno era fumoso e male illuminato, ma lui prese posto al banco ordinò un cicchetto e cominciò ad ascoltare.


Dopo un'ora aveva trascritto quella dell'anziana zitella che ficca il naso nel rubinetto della vasca, quella dei tre commessi viaggiatori e la figlia ambidestra del fattore, quella della balia che credeva fossero olive di Spagna e quella del nano travestito da salsicciotto. Talbert annotò quest'ultima sotto la precedente versione, sottolineando le differenze contestuali attribuibili all'influenza regionale.


Alle 10,16 l'uomo che gli aveva appena raccontato quella dei fratelli siamesi e della sorella a due teste rivelò a Tal­bert che Tony, il barista, era un'autentica fonte di bar­zellette sporche, aneddoti, versacci ed epigrammi.


Talbert si piegò sul banco e chiese a Tony chi fosse l'ispi­ratore delle sue lepidezze. Dopo aver recitato una poesiola sul sesso del mostro spaziale, il barista riferì che il suo ser­batoio vivente era un certo Frank Bruin, venditore di Oakland, che però quella sera non era in giro.


Talbert ripiegò immediatamente sull'elenco del telefono, dove scoprì che a Oakland esistevano cinque Frank Bruin.


Entrò in cabina col borsellino pieno di spiccioli e li chiamò uno a uno.


Due dei cinque Bruin erano venditori. Uno di essi, tut­tavia, in quel momento si trovava ad Alcatraz. Talbert chiamò l'altro e la moglie disse che, come tutti i giovedì se­ra, suo marito era andato a giocare a bowling con gli ami­ci: gli All-Stars della Materassi Moonlight Co. Il posto si chiamava Hogan's Alleys.


Talbert uscì dalla taverna, fermò un taxi e si diresse a Oakland, le dita dei piedi sempre più nervose.


Veni, vidi, vici...

 

Bruin non era un ago in un pagliaio.


Appena entrato nell'Hogan's Alleys Talbert vide un muc­chio di uomini addossati l'uno all'altro come nelle partite di rugby. Era per sentire meglio il narratore, un tipo mae­stoso, calvo e dalla pelle rosea. Talbert arrivò appena in tempo per sentire la battuta finale della barzelletta, alla quale seguì una discreta esplosione di risate. Non era una battuta facile: — "Mio Dio!" gridò l'attrice. "Credevo che aveste detto banana-split!"


La variante eccitò Talbert, che poteva assimilare un nuovo elemento: barzelletta con struttura identica ma fi­nale intercambiabile.


Quando il gruppo si fu disperso, Talbert avvicinò il si­gnor Bruin e, dopo essersi presentato, gli chiese dove aves­se sentito la storiella.


— E perché me lo domandi, ragazzo? — fece il signor Bruin.


— Per nessuna ragione — rispose Talbert tattico.


— Non ricordo dove l'ho sentita, ragazzo — disse infine il signor Bruin. — E ora scusami, va bene?


Talbert gli stette alle costole ma non ricevette alcuna soddisfazione, tranne per la certezza che nascondesse qualcosa.


Più tardi, mentre tornava al Millard Filmore, Talbert de­cise di assumere un detective di Oakland e di metterlo alle costole di Bruin. Doveva saltar fuori qualcosa.


In albergo gli consegnarono un telegramma: MR RODNEY TASSEL RICEVUTA INTERURBANA DA MR GEORGE BULLOCK, CARTHAGE HOTEL, CHICAGO. BULLOCK GLI HA RACCONTATO QUEL­LA DEL NANO TRAVESTITO DA SALAME. SIGNIFICA QUALCOSA? AXE.


Gli occhi di Talbert si accesero.


— Cominciamo a spuntarla — borbottò. — Oh diavolo!


Un'ora dopo aveva saldato il conto del Filmore, preso un taxi per l'aeroporto ed era salito sul primo volo per Chicago. Venti minuti dopo che aveva lasciato l'hotel, un uomo con un abito scuro a righine si avvicinò al banco e chiese al portiere che numero di stanza avesse Talbert Bean III. Quando fu informato della partenza di Talbert l'uomo si guardò intorno con occhi d'acciaio e s'infilò in una cabina telefonica. Ne emerse terreo.


 

— Mi spiace — rispose l'impiegato dell'albergo. — Il si­gnor Bullock ha saldato il conto stamattina.


— Oh. — Talbert alzò le spalle. Tutta la notte, sull'aereo, aveva studiato i suoi appunti per individuare le categorie alle quali si potevano condurre le barzellette. Voleva clas­sificarle per tipo, area di provenienza e periodicità. Era stanco per la vana concentrazione, e adesso gli toccava questa sorpresa.


— Non ha lasciato indirizzo? — chiese all'impiegato.


— Il signore è di Chicago.


— Capisco.

Dopo un buon bagno e la colazione in camera, Talbert, alquanto rinfrescato, sì mise al lavoro col telefono e la gui­da. A Chicago esistevano 47 George Bullock. Li controllò tutti, ma alle tre, quando crollò per un momentaneo pisoli­no, gli restavano da fare undici chiamate.


Alle 4,21, ripresa coscienza, terminò il suo compito. Il signor Bullock in questione non era in casa, disse la gover­nante, ma era atteso per la sera.


— La ringrazio molto — disse Talbert con gli occhi rossi per lo sforzo. Crollò sul letto e si svegliò pochi minuti dopo le sette, giusto in tempo per vestirsi in fretta. Scendendo ingoiò un sandwich e un bicchiere di latte, poi chiamò un taxi e si diresse a casa di George Bullock. Impiegarono un'ora.


Alla porta venne Bullock in persona.


— Sì?

Talbert si presentò e disse di essersi recato all'Hotel Carthage nel primo pomeriggio, per incontrarlo.


— Perché? — chiese il signor Bullock.


— Perché lei mi dica dove ha sentito la barzelletta del nano travestito da salsiccia.


Prego?

— Ho detto...

— Ho sentito quello che ha detto — l'interruppe il signor Bullock — ma non vedo alcun senso nella sua richiesta.


— Credo, signore, che lei si nasconda dietro un ben misero paravento — tuonò Talbert.


— Paravento? — scattò Bullock. — Signore, temo...


— Il gioco è finito! Perché non lo ammette e non mi dice dove ha sentito quella barzelletta? — Il tono di Talbert era trionfante.


— Non ho la più pallida idea di cosa sta parlando!


Ma il pallore del volto lo tradiva.


Talbert sfoderò un sorriso alla Monna Lisa.


— Davvero? — E girato sui tacchi tornò al taxi, mentre Bullock, sulla porta, lo fissava impietrito. Finalmente an­che Bullock girò la schiena e sparì.


— Hotel Carthage — disse Talbert, soddisfatto del suo bluff.


Mentre tornavano pensò all'agitazione di Bullock e un lieve sorriso gli piegò gli angoli della bocca. La preda era quasi acciuffata. Ora, se la sua ipotesi era giusta, con tutta probabilità avrebbe trovato...


Un uomo in impermeabile e cappello. Lo aspettava in camera, seduto sul letto. I baffi dell'uomo, che ricordavano uno spazzolino coperto di fango, tremarono.


— Talbert Bean? — chiese il visitatore.


Talbert s'inchinò.

— L'ha detto.

L'uomo, un certo colonnello Bishop, arretrò di qualche passo e osservò Talbert con freddi occhi azzurri.


— Qual è il suo gioco, signore? — chiese in un tono che non ammetteva repliche.


— Non capisco — scherzò Talbert.


— Io credo di sì — disse il colonnello. — Ed è per questo che verrà con me.


— Come? — fece Talbert.

Ma si trovò davanti la canna spianata di una Webley-Fosbery calibro 45.


— Allora andiamo? — disse il colonnello.


— Certamente — replicò Talbert con più freddezza. — Non ho fatto tanta strada per rifiutarmi proprio adesso.


 

Il volo nell'aereo privato fu piuttosto lungo. I finestrini erano coperti e Talbert non aveva la più pallida idea della direzione in cui stavano muovendo. Il pilota e il colonnello non parlavano, e i suoi tentativi di conversazione vennero frustrati da un gelido silenzio. La pistola del colonnello era sempre puntata al suo petto e non tremava, ma lui non era preoccupato. Era esultante. Tutto lasciava credere che la sua ricerca fosse prossima alla fine. Si avvicinava, final­mente, alla fonte delle barzellette sporche. Dopo un po' la testa gli ricadde sul petto e cominciò a sognare: nani in co­stume da salsiccia e attrici ossessionate dai preservativi e dalle banane, o magari da tutt'e due... Quanto tempo dor­misse, quanti confini si lasciasse alle spalle, non avrebbe saputo dire. Fu svegliato dalla veloce perdita di quota e dalla voce d'acciaio del colonnello Bishop: — Stiamo atter­rando, signor Bean. — Naturalmente, il colonnello impu­gnava la pistola.


Quando lo bendarono Talbert non fece nessuna resi­stenza. Con la Webley-Fosbery piantata nella schiena uscì a tentoni dall'aereo e posò i piedi su una pista molto ben tenuta. L'aria era sottile e la testa gli pareva leggera: Tal­bert sospettò che fossero atterrati in una zona montagno­sa. Ma di quali montagne si trattasse, e in quale continente, non riusciva a immaginare. Le orecchie e il naso non gli fornivano dati utili, e la mente era un turbine di emozióni.


Lo spinsero - senza sprecarsi in gentilezza - all'interno di un'automobile che guidarono ad alta velocità lungo quella che sembrava una strada di campagna. I pneumatici saltavano su sassi e rametti.


Di colpo gli tolsero la benda. Talbert sbatté le palpebre e guardò dai finestrini: era una notte scura e nuvolosa, e a parte il tratto di strada illuminato dai fari non si vedeva nulla.


— Posticino isolato, eh? — commentò Talbert in tono lusinghiero. Il colonnello rimase zitto e vigile.


Dopo quindici minuti di guida per la strada buia, la macchina si fermò davanti a una casa alta e senza luci. Quando spensero il motore si sentì, tutt'intorno, il frinire ritmico dei grilli.


— Bene — disse Talbert.

— Venga fuori — suggerì il colonnello Bishop.


— Ma certo. — Talbert uscì dalla macchina e il colonnel­lo lo scortò su per i gradini del portico. Dietro di loro, l'au­to si rimise in moto e sparì nella notte.


Quando il colonnello schiacciò un bottone, all'interno della casa ci fu un cupo scampanio. Aspettarono nelle te­nebre, poi dei passi si avvicinarono alla porta.


Qualcuno aprì una finestrella e un occhio protetto da una lente li fissò. L'occhio si aprì e si chiuse; poi, con un debole accento che Talbert non seppe riconoscere, una vo­ce sussurrò furtiva: — Perché le vedove portano giarrettie­re nere?


— In omaggio — rispose il colonnello Bishop con estre­ma gravità — a coloro che le hanno trapassate.


La porta si aprì.

Il proprietario dell'occhio era un tipo alto, magro, di età e nazionalità indefinibili, e i capelli formavano una massa scura striata di grigio.


La faccia era tutta angoli e spigoli, gli occhi penetranti guardavano da dietro un paio d'occhiali cerchiati d'osso. Indossava pantaloni di flanella e una camicia a scacchi.


— Questo è il Direttore — disse il colonnello Bishop.


— Come va? — fece Talbert.


— Entri, entri — lo invitò il Direttore tendendo a Talbert la grande mano. — Benvenuto, signor Bean. — Scoccò un'occhiataccia alla pistola di Bishop. — Lei, caro colonnello, ama i particolari melodrammatici, vero? Metta via quell'affare, per cortesia.


— Dobbiamo stare attenti — grugnì il colonnello.


Talbert, immobile nell'ingresso spazioso, si guardava in­torno compiaciuto. Alla fine il suo sguardo si posò sul viso del Direttore, che sorrideva in maniera enigmatica, e co­stui disse: — Così lei ci ha scoperti, signore.


Le dita dei piedi di Talbert si agitavano come pennoni in una burrasca.


Per mascherare la propria eccitazione replicò: — Dav­vero?


— Sì — disse il Direttore. — Davvero. Ed è stato un capolavoro d'intuizione investigativa.


Talbert continuò a guardarsi intorno.


— Così — cominciò abbassando la voce — il posto è questo.


— Già. Vuole visitarlo?

— Più di ogni altra cosa al mondo — rispose Talbert con fervore.


— Allora venga.

— Ma è prudente? — intervenne il colonnello.


— Venga — ripeté il Direttore.


Attraversarono l'ampio ingresso. Per un attimo la mente di Talbert fu oscurata da un sospetto: era tutto troppo faci­le. E se fosse stata una trappola? Ma in un attimo quel pen­siero lo abbandonò, sopraffatto dalla curiosità e dall'ecci­tazione.


Salirono una scala a chiocciola in marmo.


— Che cosa ha acceso i suoi sospetti? — chiese il Diret­tore. — Voglio dire, come le è venuto in mente di indagare su un argomento simile?


— Mi sono messo a pensare — disse Talbert con impor­tanza. — E mi sono detto: ci sono tante barzellette e nessu­no sa da dove vengano. Né se ne preoccupa.


— Infatti — ammise il Direttore — è proprio sul disinte­resse che facciamo conto. Nemmeno un uomo su dieci mi­lioni si pone la domanda; preoccupato di imparare la barzelletta per servirsene in futuro, non pensa alla sua fon­te. E questo, naturalmente, ci difende.


Il Direttore fece un sorriso a Talbert. — Ma con uomini come lei, tutto è inutile.


Talbert arrossì, anche se gli altri non lo notarono. Giunti sul pianerottolo imboccarono un ampio corridoio illuminato da candelabri. Non parlavano più. Alla fine del corridoio si fermarono davanti a due porte massicce, dai cardini di ferro.


— È prudente? — chiese di nuovo il colonnello.


— È troppo tardi per fare marcia indietro — rispose il Direttore. Talbert si sentì rabbrividire. E se era una trappo­la? Deglutì, ma alla fine raddrizzò le spalle. Il Direttore aveva detto giusto: troppo tardi per fare marcia indietro.


Le grandi porte si aprirono con un cigolio.


Et voilà — disse il Direttore.


 

Il salone era immenso. Come un boulevard. Da una pa­rete all'altra correva un folto tappeto, e dagli altoparlanti situati sul soffitto si diffondeva la musica. Talbert, che pro­cedeva fra il Direttore e il colonnello, riconobbe il motivo della Gaieté Parisienne. Il suo sguardo si spostò a un araz­zo su cui erano intessute scene faunesche e sotto il quale campeggiava il motto: FELICE È L'UOMO CHE FA QUALCOSA.


— Incredibile — mormorò. — Qui, in questa casa.


— Infatti — disse il Direttore.


Talbert scosse la testa, meravigliato.


— Pensa un po'...

Il Direttore si fermò davanti a una parete di vetro e Tal­bert, sporgendosi, si trovò a guardare in un ufficio son­tuosamente arredato. C'era un uomo in vestaglia a strisce con bottoni dorati che gesticolava agitando un grosso siga­ro. L'oggetto delle sue attenzioni era una bionda di fattezze opulente, con un maglione piacevolmente attillato, che sta­va a gambe incrociate su un divano di cuoio.


L'uomo si interruppe un attimo, agitò una mano verso il Direttore e tornò alla sua furiosa dettatura.


— È uno dei migliori — disse il Direttore.


— Ma — fece Talbert, incerto — io pensavo che quell'uo­mo appartenesse alla redazione di...


— Infatti — ammise il Direttore. — Nel tempo libero la­vora per noi.


Le gambe di Talbert erano intorpidite dall'eccitazione.


— Non l'avrei mai pensato. Io credevo che i vostri uomi­ni fossero tipi come Bruin, come Bullock...


— Quelli sono soltanto gli strumenti di diffusione — spiegò il Direttore. — I nostri portavoce, si potrebbe dire. I veri creatori vengono da file più selezionate: dirigenti, uomini di stato, i migliori comici, gente del mondo dell'edito­ria, romanzieri...


La porta di uno degli uffici si aprì e il Direttore s'inter­ruppe. Si vide uscire un uomo imponente, barbuto, vesti­to da cacciatore. Li sorpassò borbottando qualcosa fra i denti.


— A caccia di nuovo? — chiese il Direttore con genti­lezza.


L'omone grugnì. Sì, fu un vero grugnito, e quando si eclis­sò parve che dovesse inseguire una belva nella giungla.


Incredibile — disse Talbert. — Gente come quella la­vora per voi?


— Proprio così.

Superarono file e file di uffici, e in tutti ferveva l'attività. Talbert lanciava avide occhiate da turista, il Direttore sor­rideva come un mandarino e il colonnello si leccava le lab­bra come aspettandosi il bacio di un rospo.


— Ma quando ha avuto inizio tutto questo? — chiese Talbert sempre più stupito.


— È un gran mistero della storia — si difese il Direttore. — E si perde nelle nebbie del tempo. Comunque, la nostra impresa vanta i suoi quarti di nobiltà. Grandi uomini han­no collaborato alla sua causa: Ben Franklin, Mark Twain, Dickens, Swinburne, Rabelais, Balzac... Oh, l'albo d'onore è lungo davvero. Shakespeare, ovviamente, e il suo amico Ben Johnson; più indietro nel tempo Chaucer e Boccaccio, e prima ancora Orazio e Seneca, Demostene e Plauto, Aristofane e Apuleio. E c'era gente che lavorava ai nostri fini nei palazzi di Tutankhamon, nei neri templi di Ariman e nella casa di piacere di Kublai Kahn. Dov'è cominciato, mi chiede? E chi lo sa? In molte caverne ci sono strani graffiti, e non manca fra noi chi ritiene che siano stati lasciati dai primi membri della Fratellanza. Questa, però, è solo una leggenda...


Erano giunti alla fine del corridoio e avevano imboccato una rampa discendente, coperta di soffice tappeto.


— La cosa costerà parecchio — disse Talbert.


Che Dio ci scampi! — esclamò il Direttore. — Non confonda il nostro lavoro con la vendita porta a porta. I nostri collaboratori ci dispensano gratis tempo ed energie, e nulla li preoccupa se non la Causa.


— Mi perdoni — disse Talbert, che non trovava il corag­gio. Alla fine, raccolte le forze, riuscì a dire: — Quale Causa?


Lo sguardo del Direttore parve seguire intimi pensieri. Rispose lentamente, le mani intrecciate dietro la schiena.


— La Causa dell'Amore opposta a quella dell'Odio. La Causa della Natura opposta a quella dell'Innaturale, dell'U­manità opposta all'Inumanità, della Libertà opposta alla Coercizione, del Benessere opposto alla Malattia. Sì, si­gnor Bean, malattia. La malattia che chiamiamo bigotti­smo, lo spaventoso, terrificante morbo che infetta tutto ciò che tocca, che trasforma il calore in gelo, la gioia in senso di colpa e il bene in male. Quale Causa? — Fece una pausa drammatica. — La Causa della Vita opposta alla Morte, si­gnor Bean!


Il Direttore alzò un dito minaccioso. — Ci riteniamo un esercito di uomini d'ingegno che marcia sui fortilizi della pruderie,una sorta di Cavalieri Templari con una missione di gioia.


— Amen — concluse Talbert, convertito.


Entrarono in una vasta stanza contornata di cubicoli. Talbert vide molti uomini al lavoro: alcuni battevano a macchina, altri scrivevano, altri osservavano o parlavano al telefono in una moltitudine di lingue. L'espressione di tutti era concentrazione, profondità. A un'estremità della sala, il volto invisibile, un uomo infilava spinotti in un pan­nello telefonico.


— La Sala degli Apprendisti — disse il Direttore: — Qui coltiviamo il futuro...


Un giovanotto uscì da uno dei cubicoli ed egli s'inter­ruppe. L'altro sventolava un foglio di carta e un tremulo sorriso gli aleggiava sulle labbra.


— Oliver — disse il Direttore annuendo.


— Ho inventato una barzelletta, signore — disse Oliver. — Posso...?


— Ma certo — fece il Direttore.


Oliver si schiarì la voce cercando di controllare l'ansia e raccontò la storiella di un bambino e una bambina che guardavano un doppio di tennis in un campo nudista. Il Direttore sorrise e annuì di nuovo. Oliver sembrò rattri­stato.


— Non va bene? — disse.

— Non è priva di meriti — lo incoraggiò il Direttore — ma nella versione attuale ricorda un po' troppo l'effetto du­chessa-maggiordomo, per non parlare del popolarissimo capovolgimento di questo tema, che va sotto il nome del "ve­scovo e la barista".


— Oh, signore — si lamentò Oliver. — Non ce la farò mai.


— Sciocchezze — disse il Direttore, e aggiunse gentil­mente: — Figlio mio. Le storielle brevi sono le più difficili: devono essere precise, anzi geometriche, e più che arguta, la battuta dev'essere fulminante.


— Sissignore — mormorò Oliver.


— Chiedi una mano a Wojciechowski e Sforzini — disse il Direttore. — Oppure a Ahmed El-Hakim. Ti istruiranno sul Breviario dei Maestri. — Accompagnò queste parole con un colpetto sulla schiena del ragazzo.


— Sissignore. — Oliver riuscì a fare un sorriso e tornò al suo cubicolo. Il Direttore sospirò.


— Brutto affare. Non arriverà mai alla Classe A, e a dire il vero non avremmo dovuto ammetterlo fra i creatori, ma... — Fece un gesto eloquente. — ...Ci sono ragioni senti­mentali.


— Davvero? — disse Talbert.

— Sì. Fu il suo bisnonno che, il 23 giugno 1848, scrisse la prima barzelletta sui viaggiatori di commercio, ramo americano.


Direttore e colonnello abbassarono la testa in segno di reverente commemorazione. Talbert fece lo stesso.


— Per questo l'abbiamo preso — disse il Direttore. Si trovavano di nuovo al pianterreno e sedevano in un grande salone, dove era stato servito lo sherry.


— Forse vorrà sapere altri particolari.


— Solo una cosa.

— E quale, signore?

— Perché mi ha mostrato tutto questo?


— Già — incalzò il colonnello portandosi la mano alla fondina sotto l'ascella. — Perché gliel'abbiamo mostrato?


Il Direttore guardò Talbert con attenzione, come se vo­lesse soppesare la risposta.


— Non l'ha indovinato? — chiese alla fine. — No, vedo di no. Signor Bean, lei non ci è sconosciuto. Chi non ha sentito parlare dei suoi lavori, della sua indefessa dedizio­ne alle cause più oscure, e tuttavia meritevoli? Chi può trattenersi dall'ammirare il suo altruismo, la sua devozio­ne, il suo orgoglioso disprezzo della convenzione e del pregiudizio? — Il Direttore fece una pausa e si piegò in avanti.


— Signor Bean — disse piano. — Talbert... se posso permettermi. La vogliamo nella nostra organizzazione.


Talbert aprì la bocca. Le mani cominciarono a tremar­gli. Il colonnello, sollevato, borbottò qualcosa e si abban­donò nella poltrona.


Poiché il confuso Talbert non rispondeva, il Direttore continuò: — Ci pensi. Consideri l'importanza del lavoro che facciamo. Con la dovuta modestia, posso dire che lei ha l'opportunità di unirsi a una grande Causa.


— Sono senza parole — ammise Talbert. — Io non... stento a... cioè...


Ma già brillava nei suoi occhi la luce della consacra­zione.


 

Titolo originale: The Splendid Source. (1956)


 

Tratto da Shock (I volume), introvabile Oscar Mondadori. L'editore Fanucci sta  ristampando tutta l'opera di Richard Matheson sulla scia del successo di Io sono leggenda, il capolavoro di Matheson.