30/05/09

La città ti verrà dietro



Ho ripreso a scrivere quotidianamente, sull'amato 90011.it, il quotidiano on line di Bagheria. Una mano agli amici non si nega mai, soprattutto quando appena spunta il sole le lenzuola bruciano nell'istante in cui si concretizza la certezza che è vero: mio padre non è più con noi.

La notte scaccio i miei demoni con un'indigestione di divX (e senza temer smentite, posso affermare che Franklin è una minchiata inguardabile che ho mollato dopo 27 minuti, Transformers è un piccolo capolavoro e Wolverine Le origini è un buon film, fedele allo spirito dell'eroe unghiato anche se non troppo aderente alla continuity Marvel), non vedevo tanti film dai tempi in cui preparavo "storia del cinema". Ma è sulla carta che ho lasciato il cuore e, non preoccupatevi, qualcuna delle mie interviste spunta sempre fuori, sulle pagine del curatissimo 90011.magazine che malgrado la bella e curatissima veste grafica, gli articoli scritti benissimo e un attenzione unica per i lettori è ancora in fase di rodaggio.

Però voglio parlare del nuovo numero de L'Approfondimento, che continua a pubblicare i miei racconti che riscuotono un insperato successo anche nella mia città. Che Kavafis lo sapeva bene:
Hai detto: "Per altre terre andrò, per altro mare.
Altra città, più amabile di questa, dove
ogni mio sforzo è votato al fallimento,
dove il mio cuore come un morto sta sepolto,
ci sarà pure. Fino a quando patirò questa mia inerzia?
Dei lunghi anni, se mi guardo attorno,
della mia vita consumata qui, non vedo
che nere macerie e solitudine e rovina".

17/05/09

Mettendo assieme parole



Leggevo l'introduzione all'ultima raccolta di racconti di Stephen King, unico sfizio che mi concedo tra quei libri d'alto rango, schierati, impegnati che troppo spesso sono semplici e sterili introduzioni. Dalla prima all'ultima pagina non si trovano altro che premesse che a nulla conducono, dopo aver sciorinato azzardi sintattici e sfilze di coordinate.

King, almeno quello dei tempi d'oro, ha il pregio di narrare schiettamente storie, senza fronzoli e senza orpelli. E ha sulla coscienza più d'un macchiafogli che ha iniziato a scribacchiare per emularlo, coscientemente o del tutto ignaro.

La storia del professore precario di letteratura inglese che sfama i suoi marmocchi coi turni di notte alla lavanderia d'un motel e piazza fortunosamente racconti per riviste che si leggono con una mano sola... Tutto così dannatamente self-made man da risultare talmente costruito ad hoc che potrebbe pure essere vero. Come la scena con cui apre il nuovo libro: sua moglie Tabitha che gli sforbicia via la carta di credito, gesto che molti di noi dovrebbe trovare il coraggio di fare per non vedere al prossimo calendario spuntar toppe variopinte sulle proprie chiappe.

La chiusa è da manuale:
E ora lasciate che mi tolga di mezzo. Ma prima di lasciarci, voglio ringraziarvi per esserci. Scriverei ancora se mi abbandonaste? La risposta è sì. Perché mi sento felice quando le parole si assommano e l'immagine si forma e le persone inventate fanno cose che mi deliziano. Però con te è meglio, Fedele Lettore.
Sempre meglio con te.

Pure a me piace mettere assieme parole.

08/05/09

Il figlio del Maresciallo

Uno dei libri più belli che abbia mai letto sono "Le Correzioni" di Jonathan Franzen: l'ho ripreso in mano in questi giorni tristi e senza fine e ho riletto di Alfred, sceso nello scantinato con un fucile, un biscotto e l'immancabile poltrona blu. Davanti alla spirale di vecchie lampadine di natale, Alfred pensa al tempo che impietoso passa. Da una vita accumula oggetti fuori uso per ridargli vita, e con essa illudersi di poter sconfiggere il tempo:



Oh, il mito, l'infantile ottimismo delle riparazioni! La speranza che gli oggetti non si logorassero mai! La sciocca fiducia nel fatto che ci fosse sempre un futuro in cui lui, Alfred, non solo sarebbe stato vivo ma avrebbe avuto sufficiente energia per aggiustare le cose. La tacita convinzione che alla fine tutta la sua frugalità e la sua passione di conservatore avessero uno scopo, e che un giorno, svegliandosi, si sarebbe trasformato in una persona completamente diversa, con tempo e energia infiniti per occuparsi di tutti gli oggetti che aveva conservato, per mantenere tutto funzionante, tutto a posto.

Mi sono commosso. Perché mio padre faceva la stessa identica cosa. Sin dove arrivano i miei ricordi, c'è sempre lui che fruga nella nostra immondizia per salvare dal limbo della nettezza urbana oggetti che possono andare bene per altri cent'anni. Questo secondo la sua rosea prospettiva.

Io e la manualità ci siamo frequentati parecchio solo nei miei verdi anni. Dopo la corroborante crisi adolescenziale ho preferito occuparmi di parole e di altre laborosie inezie. Già, io e mio padre siamo complementari. Come il pane e il burro. La complementarietà è perfetta: a me le parole stampate, digitate, lette e amate, a lui i fatti, i chiodi, le viti e il cacciavite americano. Il mio omonimo nonno era falegname e mio padre era il suo assistente, il suo picciotto di bottega. Gli altri quattro fratelli hanno preso altre strade. Poi mio padre è partito a fare il finanziere nel nucleo alpino. Lì con la penna sul cappello, a cantare canzoni sconce che condivise con me solo dopo i miei 18 anni.

Tornato dalla Finanza si sposò con mia madre, la più bella figlia del meccanico della Marina Regia che quando sbarcò s'aprì un'officina. Capite bene, con questi presupposti mi verrà per figlio come minimo la reincarnazione di Archimede Pitagorico.

Mio padre era del '42, io dell'ottantadue, ci separavano quarant'anni. Quarant'anni in cui mio padre aveva messo da parte cose che ad aggiustarle tutte ci sarebbero volute sei vite. Ripenso a lui, ai suoi sorrisi, alle sue battute, al suo senso del dovere. Gli somiglio più di quanto creda: lui metteva da parte oggetti fuori uso, io libri da leggere appena ho un po' di tempo libero. Entrambi ci ritagliavamo il nostro spazio di salubre ozio accumulando qualcosa da fare per non trovarci sprovvisti di fronte all'eterno crepuscolo.

Me lo voglio ricordare con la sua divisa da vigile. La stessa con cui mi portò al primo giorno di scuola. Per non attirare critiche e note di demerito nel suo stato di servizio si fece mettere di turno alla mia scuola, per cinque anni di fila arrivavo a scuola nella Uno dei vigili. Me lo ricordo, non volevo lasciargli né la mano né il suo cappello bianco, pure che mia madre mi aveva rimpinzato lo zainetto di Masters perché aveva letto che per mitigare il senso d’abbandono basta anche un solo giocattolo amato. E siccome è sempre meglio abbondare che mancare, ci mise tutta la mia collezione.

Io ero riluttante, giorno dopo giorno, all’asilo, la maestra arpia mi toglieva He Man e Skeletor e li buttava sopra il suo armadietto. Lo faceva perché lei aveva altri libri a guidare le sue azioni. Forse i suoi sacri testi le dicevano che i bambini devono subito abituarsi alla cattiveria del mondo. So solo che non ci volevo andare manco ammazzato all’asilo. Meno che mai volevo passare in prima. E pure avevo studiato tanto per l’esame di primina, avevo superato un dettato su una barchetta di carta che sfuggiva a un vento maligno. Un dettato pieno di parole come becchettio, rollio, sciabordio… Però il primo giorno andò bene, giocai con Nicola e Antonio coi puzzle per cerebrolesi, quelli a dieci pezzoni macroscopici.

E mio padre, che m’aveva promesso sul suo distintivo che sarebbe tornato, mantenne la promessa. Come sempre ha fatto.

05/05/09

Arrivederci, papà!



Giovanni Pintacuda
(Bagheria, 6 novembre 1942 - Palermo, 3 maggio 2009)