29/06/04

Perche' scrivere? 1. per non perdermi

La piccola gemma splendente di Demetrio mi fa pensare che (forse) tutte le nostre risposte si assomiglino. Pure io ho iniziato per lo stesso motivo. Per non perdermi. Per non perdere la memoria degli eventi che, inanellati, fanno una vita. Eventi. Li chiamano kairoi i grandi greci. E il poeta-ape li succhia e li rida' al mondo come poesia. Kairoi, Tyumos e Logos. Il logos imbriglia il tyumos, la forza vitale dei nostri kairoi e solo la parola scritta riesce a liberarli di nuovo e lanciarli nel cielo che fu degli aquiloni.


Io ho iniziato per non perdere la bella sensazione che mi dava uscire con gli amici nei miei 14 anni- quasi 15. Con mia madre che ancora mi ricordava di "svuotare la vescica prima di uscire". Me la ricordo: sulla porta di casa, anno dopo anno, sempre meno alta della gigantessa che m'aveva fatto volare quando ero solo un pulcino. Sempre piu' stanca e con i capelli piu' bianchi. Sempre la' sulla porta. Ad accompagnarmi porgendomi un altro maglione ("di sera la temperatura si abbassa e poi ti viene la sinusite"), ad aspettarmi alle 6 del mattino (Le ultime parole famose: una birra con gli amici e alle 2 sono a casa), a farmi compagnia mentre vomito e parlare dei viaggi di suo padre mentre bolle l'acqua con l'alloro che ha fatto per aggiustarmi lo stomaco.
Prima scrivevo a macchina perche' me ne piaceva il suono. Ho riscritto l'elenco delle mie videocassette una trentina di volte per avere una buona scusa per continuare con quella mitragliata di metallo.
Poi la mano sul detonatore: la prima scampagnata fuori dal perimetro urbano. La pensavo giusto oggi.


I miei amici avevano gia' modificato gli scooter, il mio aveva ancora le strozzature. Alla seconda curva mi avevano gia' doppiato. Mi sorpassa pure il pluri-ripetente, (l'unico munito di una scassatissima peugot), gli suono e lui mi vede scomparire nel suo specchietto retrovisore. Mi ritrovano dopo tre ore. Le mie amiche (sempre poche donne...) hanno cucinato delle orribili tagliatelle e poi le hanno nascoste dentro un impasto mal lievitato. Ho pranzato con birra e marlboro che Paride ha fatto passare in cerchio, come vecchi indiani. E poi ho tentato la sorte con la piu' bella della classe.
Dopo il tentativo di approccio avevo cinque dita di violenza che mi lampeggiavano sulla faccia (ancora liscia come il culo di un bambino). Quelle cinque dita lampeggianti li portavo in trionfo e ricevevo elogi ("l'importante e provarci e non arrendersi, mai. Bravo!").
L'ultimo ricordo Paride che sfoggia la sua capacita' di parlare ruttando. Declama una vecchia perla di saggezza inneggiante al "triangolino che ci esalta". Tutti ridono e inizia la solita partita di calcetto. Rido pure io e mi piazzo tra due lattine che delimitano la porta. Mi metto la faccia da portiere e mentalmente affetto quel pomeriggio in paragrafi.

p'un curnutu, un curnutu e mienzu

"Ulisse, lumache e cioccolatini" (cfr. www.bombacarta.it/bombasicilia/ulissex/ulisse.htm) e' il titolo della storia che mi porto dentro da tre anni. Piu' o meno da quando frequento la ml di Bombacarta, questo caffe' fatto di bit e gracidare di modem. Nella versione originale la storia era di una semplicita' assoluta. Ruotava attorno al solito binomio: amore e morte. A 19 anni le barriere non esistono, sono tutte curve e in salita e l'unica cosa da fare e' accelerare. L'ho fatto per 150 pagine. E dopo 150 pagine nessuna storia puo' tornarsene nel supermercato delle idee senza lasciare traccia nell'amore e nel cranio del macchiafogli che l'ha vista crescere sillaba dopo sillaba.
Dopo tre anni il canovaccio iniziale ("cannavazzu" in siciliano, oltre alla pezza per pulire i pavimenti, pure un'offesa di un certo calibro) e' mutato, com'e' naturale nell'ordine di gesso che regola il mondo. Viviamo, leggiamo, amiamo e la nostra capacita' di macchiare i fogli cresce e cambia con noi. All'inizio c'era il protagonista, Ulisse, che si metteva in testa di trovare il Risorto per cercare una risposta ai dubbi di ogni fottuto ventenne. C'era poi il vero motore della storia: Lisa, la 17enne che oltre ad amare Ulisse giocava pure ad accarezzare lamette. Camus mi aveva suggerito che "l'unico problema davvero filosofico e' il suicidio". Quindi a 19 anni avevo deciso di affrontare ben tre temi che riempiono la testa del mondo dai tempi di Adamo e del serpente. Nel frattempo la lettura dei Fratelli Karamazov mi aveva messo una pulce neuronica: il Risorto non deve parlare. Basta un suo bacio silente per dire tutto.


Quel romanzo esiste ancora e lo sento ancora piu' mio, ci sono tutte le mie idiosincrasie che ormai conoscete meglio di me ma non so come andare avanti.
Voi avete letto almeno una dozzina di quei capitoli che ho opportunamente riciclato e riscritto come racconti autonomi (Il diario di Ulisse, Il sogno dei babbaluci, l'amore prima dell'e-mail, i guardiani del tempo, il venditore di scolapasta...).
Domenica scorsa ero a messa e ho avuto una scintilla mentre tenevo appoggiate le mani in una colonna del XV secolo in cerca di frescura. E' successo durante l'omelia, avevo la colonna tra le mani e la testa sperduta nelle solite ragnatele di pensieri che tesso per non addormentarmi in chiesa. All'improvviso il prete e' venuto avanti e commentando il Vangelo domenicale ha citato un modo di dire che mi insegue da una vita. Il prete doveva spiegare alla chiesa (noi cristiani siamo la chiesa. Il luogo nel quale ci riuniamo e' la domus ecclesiae, la casa della chiesa) perche' Gesu' entra a Gerusalemme col volto impietrito (questa la giusta traduzione). Entra cosi' perche' sa gia' che si avvicina il tempo della fine ed ecco tutta la riflessione sul discepolato. Il prete per spiegarsi meglio e' riicorso al detto "p'un curnutu, un curnutu e mienzu". Sarebbe a dire: per rispondere a un cornuto, ci vuole un cornuto e mezzo. Non c'entra nulla la fedelta' coniugale, indica semplicemente che nelle asperita' ci vuole una reazione contraria e amplificata. A un cornuto, si oppone un cornuto e mezzo.
Mio padre mi ripete sto detto da quand'ero piccolo. Sentirlo in bocca ad un prete (Professore tra l'altro alla Facolta' Teologica) e riferito a Gesu' è di un certo effetto.
Mi e' venuta voglia semplicemente di riprendere il caro e vecchio "Ulisse, lumache e cioccolatini" e riscriverlo con tutta l'esperienza dei miei 22 palindromici anni (i prossimi saranno i 33, l'eta' di Cristo: il cerchio si chiude).


Rileggendo quello che ho scritto, la qualita' dell'introduzione e' migliore di almeno un centinaio di passaggi narrativi dell'opera suddetta... Ma "Ulisse, lumache e cioccolatini" e' diventato il mio posto delle fragole da macchiafogli. E' stata la mia palestra, un'esperienza che mi ha obbligato a lavorare con una materia sfuggente come la parola. Schizzavano via le maledette sillabe. Le inseguivo tra uno spazio bianco e l'altro. Si schiantavano interi capitoli che cozzavano contro ogni logica. Per tornare a Steve King, "Ulisse, lumache etc" e' un po' la mia Torre Nera. Ha gia' fagocitato tutto quello che avevo scritto e li' cii sono gli embrioni di tutto quello che scrivero', perfino alcuni capitoli della tesi sono gia' la' che aspettano di essere sbozzati per bene.

26/06/04

appunti per spaccare i denti a Baricco

Certe notti e certi giorni devi usarli per ricaricare le pile prima di nuovi e folli voli. Le giornate dobbiamo ammazzarle in qualche modo: c'è chi lo fa cantando vecchie canzoni intorno a un fuoco sulla spiaggia, chi cerca le risposte incastrato come sardine nel traffico delle autostrade e chi decide di continuare a leggere e a scrivere.
Io scelgo la terza opzione, annacquo i giorni che cadono dal calendario sulla vecchia ondina a strisce gialle. La piazzo nell'angolo più ventilato della veranda, abbasso le tende e sto lì con l'ultimo libro da leggere e con accanto vecchie e nuove pagine da riscrivere per l'ennesima volta.
Stavo lì, con la testa e la faccia rasata di fresco e ho lasciato che i neuroni lanciassero i loro aquiloni nel cielo di fine giugno. Ne è venuta fuori una riflessione su tre diversi tipi di approcci alla scrittura. Diamo le coordinate: l'ultimo libro di Steve King, Il film di Bergman "Come in uno specchio" e un capitolo del mio "Ulisse, lumache e cioccolatini". Invertiamo l'ordine: Il mio capitolo l'ho scritto almeno un anno fa. Ero in un punto morto del racconto e ho usato il vecchio trucco dello scrittore che diventa egli stesso personaggio della sua opera. Il risultato dopo qualche limatina mi ha lasciato un buon sapore. Poi, proprio ieri, ho infilato la videocassetta di Come in uno specchio e mi ci sono ritrovato in pieno. La storia ruota attorno a 4 protagonisti: lo scrittore, il medico, il figlio e la figlia-sposa. La figlia-sposa ha una malattia incurabile che le ha appuntito l'udito e le permette di dialogare con le scintille che si sono incastrate in un'intercapedine della casa di villeggiatura. Il medico, l'attore Max Von Sidow, ama la moglie e soffre per il suo male. Lo scrittore è il padre della moglie del medico e del ragazzetto che ha problemi di latino. E' ossessionato dal suo mestiere, deve scrivere anche della malattia della figlia. Vede in essa un ottimo spunto. Ha pure tentato il suicidio ma sul più bello il carburatore si è ingolfato. E' tornato dal suo rifugio di pace e silenzio in Svizzera e si ritrova rapito dalla sua morbosa curiosità per il male della figlia, fa un pò questi ragionamento: mia figlia l'ho già perduta,  il male che le succhia via il cervello non la lascerà più vivere. Tanto vale non sciupare questi momenti e appuntarli per tirarne un romanzo dannatamente buono. Sua figlia legge il diario e lo dice al marito. Il medico, tiepido come può essere solo Max Von Sidow (lo è perfino nella scena finale della "Fontana della Vergine", quando, Rambo ante-litteram, massacra gli assassini della sua bella e vanitosa figlia), aspetta un'uscita in barca per discuterne con il suocero, lo accusa, lo mette davanti alla sua vita vuota, gli chiede: "hai mai scritto una sola pagina con sincerità?". Nel frattempo il piccolo Minus alle prese con il ripasso di latino si trova a 16 anni senza aver avuto mai un rapporto decente col padre e in più con la sorella tanto amata che parla con le anime dei morti che aspettano l'arrivo di Dio. Scrive pure lui, una dozzina di commedie e qualche operetta. Alla fine la sorella decide di lasciarsi internare  e finalmente lo scrittore parla con il figlio. Arriva la parola fine sulle pale dell'elicottero che scende come un pipistrello a prendere la figlia.


E poi c'è il terzo ingrediente: "La canzone di Susannah", l'ultima fatica letteraria dello Sfornaromanzi del Maine. Stavolta King si è superato. Il libro è il penultimo volume della serie "La Torre Nera", una saga che era partita 22 anni fa come un esercizio di stile tolkeniano e che è finita poi a fagocitare tutto l'universo di King. La torre è il centro di tutti i possibili universi. Nel nostro mondo è una rosa selvatica in un lotto abbandonato di New York. Tutti gli universi sono inanellati uno sull'altro e ci sono porte introvate che li collegano. Si flippa dai vari livelli sfruttando la "contezza", delle dissolvenze nel continuum. Il mondo della Torre è il Medio mondo dove l'ultimo pistolero, Roland di Gilead, ha una sola missione: salvare la Torre e i Vettori che la tengono in piedi. I vettori erano sei, ne sono rimasti solo 2. Gli altri li hanno rosicchiati i Frangitori che usano un componente presente nel cervello dei gemelli per fare il lavoro sporco. Il pistolero ha reclutato il suo ka-tet in vari livelli del nostro Universo. Ha preso Jake, un bambino della New York degli inizi degli anni 80, Eddie Dean un tossico della fine degli anni 80 e Odetta Holmes, una ricca e bella donna di colore degli anni 70 e un bimbolo (una specie di orsetto lavatore capace di "parlare"). E' la resa dei conti, il ka-tet di Roland deve far fuori la sua nemesi: il Re Rosso. Nel penultimo volume si crea un mega paradosso: stiamo leggendo un romanzo di King e dentro troviamo lo stesso King che accoglie i suoi personaggi. King ha una parte fondamentale in tutta la saga. Ma King muore, il minivan che nel nostro vero mondo gli ha solo sfasciato il bacino, nel mondo della Torre Nera l'ha preso in pieno.


I tre ingredienti che mi hanno acceso 'sta riflessione hanno in comune la scrittura. Sono altrettante acute riflessioni sulle potenzialità e i pericoli del destino dei macchiafogli. Il personaggio di Bergman è condannato a rinnegare la sua essenza di padre per continuare a scrivere, King giunto al suo 50° romanzo può prendersi una boccata d'aria fresca e credersi il dio assoluto del suo mondo di carta e incubi. Io, dopo aver iniziato a scrivere dopo un'estiva indigestione di King nei miei 14 anni, posso fregiarmi di aver avuto le stesse idee di King con qualche anno di precedenza.
Sul rapporto vita e scrittura resta ancora troppo da dire. Ma come concludeva  quel grande narratore che è Forrest Gump: "And that's all I have to say about that.". (Momentaneamente) non ho altro da dire su questa faccenda. Finirei per ripetere precedenti riflessioni, devo trivellare un pò più in profondità. Baricco e le sue assurde conclusioni sui lettori e sui macchiafogli sono carta straccia. Dice che i lettori sono sconfitti dalla vita che preferiscono leggere che vivere per non scottarsi. Mentre i macchiafogli che scrivono del proprio sguardo sulla vita (o vivono accelerando gli eventi per poi scriverne) sono solo patetici che rischiano di farsi male. Devo rispondere a tono. E' diventato il mio imperativo categorico. Lo affronterò incarnando l'acume della tonsura luccicante del Tommaso delle Quaestiones Disputatae. E il signor Baricco sputerà via i denti. Con o senza sangue.

25/06/04

Piacevoli Soddisfazioni

Dalla mailing list di BombaCarta, Lisa scrive:
«Si è parlato di linguaggio, di dubbi, di ricerca...
I racconti si susseguono, ognuno ha il suo modo di dire la sua storia, se ci incontrassimo immagino, come è naturale che sia, che avremmo voci, abiti, gesti, età diverse e magari solo tanti dubbi in comune. Per me però siete anche quelli che le vostre storie hanno creato nella mia mente, naturalmente parlo di quelli che seguo da un po', quindi non me ne vogliano coloro che solo da poco arricchiscono la lista con i loro testi. Le storie sono dette, hanno una voce. E' un po' la chiave che uso per entrare nei racconti, li faccio leggere da qualcun altro che non è me, che non ha corpo, ma che racchiude  dentro la sua voce l'essenza del linguaggio che lo distingue. Oddio vedo che mi sto incasinando!!!... Vado avanti, da chi comincio?... Ok... Tonino sei tu il primo che hai avuto la prima voce. Non ricordo bene quando è successo,o leggendo cosa, ma ad un tratto a raccontarmi le tue storie è stato un dj. Uno di quelli che stanno su tutta la notte. E' calda e bassa la tua voce ( ho in mente un film di cui non ricordo il titolo, e non è "Goodmorning Vietnam"). E' un d.j che entra nella notte e la fa vivere, che non da risposte, di questo gli ascoltatori gliene sono grati, e al tempo stesso li rende protagonisti. Per lui vale la pena restare svegli.»

24/06/04

intervista per gas-o-line

1 Quando sei nato e dove?


Dicono che sono spuntato l'11 febbraio di 22 anni fa a Palermo, in piena isola triangolare. Due giorni dopo ero già a casa dove scopro di avere una sorella che ha già tre anni e  tiene lei il telecomando. Prima, di sicuro, ero nascosto sotto una pietra scheggiata di un muretto immerso in nel verde, giallo e rosso dei fichi d'india. Dopo aver snobbato per anni il dialetto siciliano da qualche anno tento di portare tutta la mia sicilianità in quello che scrivo. Dicono che qualche volta ci riesco.


2 Quando è nata la passione per la lettura e per la scrittura?


Vivo praticamente isolato in una casa del centro storico di Bagheria, a 20 minuti di autostrada da Palermo. Ci vivo da sempre e qui la natalità sfiora lo zero assoluto, è un'intricata straduzza dove si intrecciano vecchie coppole e una ragnatela di mani callose e gerani che coltivano in quantità industriali per tenere lontani gli scarafaggi. Vista la penuria di coetanei è stata una scelta imposta passare molti pomeriggi stravaccato su un divano a leggere tutto quello che riuscivo a trovare nelle librerie di mia madre. Imparata la magia della lettura a 4 anni e mezzo non ho più smesso. La scrittura "creativa" è spuntata verso gli otto anni. Dovevo avere una scusa per usare la vecchia olivetti serie 82 di mio padre. Amavo la musica che producevano i suoi tasti tondi e grigi.


3 Cosa conta per te nella vita? E nella scrittura?


La coerenza e la consapevolezza fuse insieme nella consapevolezza coerente. Vale sia per la vita che per la scrittura nel gioco di continui rimandi che si costruisce tra le due.


4 Il luogo dove vivi ti ispira per scrivere? Guardi qualche volta dalla finestra e osservi?


Il mare. Le onde che schiaffeggiano la sabbia del bagnasciuga sono le mie muse. Aspetto di trovare qualche euro per comprarmi un portatile e scrivere direttamente in spiaggia, con le parole e i pensieri e i ricordi sposati insieme in una danza ondivaga. Dalla finestra vedo piccioni e rondini che si azzuffano con la mia cagnolona e un orrendo muro giallo. Meglio il mare e i suoi ricordi. Se togli il mare la mia produzione si assottiglierebbe vistosamente.


5 Quale bel momento della tua vita ha inciso particolarmente in un tuo scritto (momento bello o brutto - stessa cosa); cosa ti ispira maggiormente?


Ogni volta che sono innamorato o - di contro - disamorato. È la situazione che partorisce tutte le più belle storie. In fondo siamo solo macchiafogli mortali e innamorati. Possiamo solo amare e scrivere.


6  Incide nel tuo modo di scrivere la natura?


La risposta è implicita nel mio rapporto col mare di cui parlavo alla quarta domanda.


7 Ti piace viaggiare?


Sempre e comunque. Quello del viaggiatore è un animo plasmato con curiosità e amore d'avventura. Però tutti i viaggiatori devono assumersi la responsabilità dei propri sogni. Viaggiare per un siciliano è sempre rischioso. L'isola triangolare fomenta costantemente pensieri di fuga, tutto il mare che ci avvolge ci grida di partire per il nostro "folle volo" ma, se ci voltiamo, è raro tornare indietro. E poi ci lasciamo cullare dalla nostalgia che ha la voce di una conchiglia.


8  Pensi che per scrivere sia importante viaggiare realmente o che sia importante anche viaggiare con la fantasia?
Viaggiare con la fantasia è solo un sinonimo per indicare l'attività dello scrittore. Un foglio bianco è una terra promessa o desolata, dipende da ciò che siamo disposti a mettere in valigia.


9 Immagino tu legga molto; cosa in particolare, quale autore preferisci?


Ho subito per anni Stephen King, dai 14 anni sino a poco fa (stavo leggendo il penultimo volume della saga della Torre nera uscito proprio in questi giorni). Steve King è puro svago. Me lo concedevo dopo un pomeriggio curvo sui libri. A 15 anni ho scoperto i classici e li ho divorati. Soprattutto Dostoevskij e Kafka. Di recente ho scoperto il fascino del mondo greco e le bizzarrie del Maestro e Margherita.


10 Il tuo ultimo libro?


Sono sempre un lettore parallelo. Accanto ai saggi e ai classici di filosofia che devo masticare per l'Università, ci sono i 75 libri della bibliografia della tesi che sto scrivendo. Gli ultimissimi libri sono stati "pastorale americana" di Roth e "La canzone di Susannah" di Steve King.


11 E il cinema? L´ultimo film visto e quello che preferisci?
Deluso dall'indigestione di effetti speciali che ci propina il Cinema con le ultime costosissime produzioni (troy  e Van Helsing, per intenderci), mi sono voltato indietro e, grazie al mio relatore, sto gustandomi i capolavori di Bergman. Ho amato "il posto delle fragole" che ha scalzato il mio precedente film preferito: Forrest Gump. L'epopea di Forrest è splendida e poi Forrest è un narratore meraviglioso.


12 La musica invece? Ti aiuta nel tuo scrivere come ispirazione oppure non ha rilevanza? Il tuo autore e la tua canzone preferiti?


La musica è parte integrante del mio mondo di carta. I Beatles e Bob Dylan su tutti. Anche se Max Gazzè e Guccini restano una piacevole colonna sonora.


13 Come sei arrivato a far parte di BombaCarta?


Navigando depresso su internet dopo la fine di un amore. Avevo 19 anni e tanti dubbi. I dubbi si sono riprodotti, ma BC ormai è una certezza. Un appuntamento quotidiano. Ho conosciuto al primo Bombaday Antonio Spadaro e tutti gli altri, qualche giorno dopo aver pubblicato il sito BombaSicilia, che è ufficialmente entrato nella galassia di BC. Dimenticavo: sono pure uno dei Coordinatori di BombaCarta, i bombers mi hanno eletto per la seconda volta. Ne sono orgoglioso e cerco sempre di trovare tra i ritagli di tempo lo spazio necessario per seguire la mailing list. 
 
14. Quale il tuo scritto che ti è riuscito meglio? E quello che hanno apprezzato di più in lista?


Questa è una domanda da girare ai mie Dicotomici e Fedeli Lettori…

Gesù aiutaci tu


La "passione" non faceva per lui. Era da anni che si portava dietro quella paura e non voleva rinnovarla, se la ricordava bene la prima volta, era a casa sdraiato sul divano con un tramezzino al prosciutto in mano e sua sorella sullo sfondo a schiacciare i bottoni del telecomando, i suoi genitori dovevano essere andati a trovare qualche zia artiglia-guanciotte e i due pargoli erano rimasti in casa, coccolati dalla baby sitter catodica.
Era bastata solo una scena, un solo minuto, 18 fotogrammi al secondo moltiplicati per 60 volte a mandarlo a tappeto. Una scena sconvolgente, terrorizzante. Il prosciutto gli era rimasto in bocca e lui subito si era trincerato dietro due cuscini. La mano del gigante si muoveva verso il bimbetto spagnolo e si prendeva il suo tributo di pane e vino. Quella notte, inevitabilmente, si era dovuto sorbire  durante il trasloco verso il lettonele lamentele paterne ma le sopportava stoicamente, meglio i borbottii di suo padre che essere artigliato da quell'uomo che penzolava in ogni stanza, era dovunque, perfino sopra il suo letto.
Ogni volta che in tv davano "Marcellino pane e vino" la paura tornava.
All'oratorio il gesuita alto continuava la tortura, era ancora peggio. A casa riusciva a sfuggire, sia che quell'uomo si portasse via Marcellino, sia che si divertisse a dialogare con un parroco armato di fucile che sparava dal campanile verso i baffi del sindaco. All'oratorio no, doveva restare lì, impalato a pulirsi gli occhiali ad ogni sputazzata che partiva dalla bocca sdentata del gesuita. E doveva restare immobile a vedere tutta la scena dei soldati che inchiodavano quell'uomo alla croce.
C'erano voluti anni di omelie per raccapezzarci e ora che aveva digerito il mistero e la bontà del Nazareno la sua ragazza voleva portarlo nel buio di una sala cinematografica a vedere 20 minuti di fustigazione in latino e aramaico. [abbozzo]

«A chi racconta delle storie accadrà che queste storie diventeranno la sua vita. E se queste storie continueranno ad esistere dopo la sua morte, allora sarà diventato immortale.»


da Big Fish

21/06/04

nuova grafica

Trovate i dicotomici furori anche qui e soprattutto qui


Buon primo giorno d'estate.

13/06/04

 La consapevolezza dell'aquilone


Questi sono gli anni che nessuno sceneggiatore decente prenderebbe in considerazione. Sto pensiero mi è spuntato stamattina rileggendo un bella frase della Yourcenar: "c'è stato un periodo in cui c'è stato l'uomo. Solo. Quando gli dei non c'erano più e Dio non c'era ancora".
Ditemi se 'sta frase, tralasciando i ghirigori che si tira dietro la riflessione teo-storiografica, non s'adatta perfettamente alla nostra attuale condizione. (Crediamo in Dio? Vogliamo vivere come Gesù? Niente da fare: da 12 a 30 anni c'è solo un buco nero. Lasciamo Gesù al tempio a discettare con i Dottori e lo ritroviamo uomo fatto che inizia a reclutare i santi apostoli.) Siete più pratici? Bene lasciamoci guidare dalla Grande Madre catodica: Tivù, aiutaci tu! Vediamo il panorama di vecchi e nuovi telefilm, cartoni e Compagnia bella. La storia dei Simpson inizia in medias res, niente flashback nella prima serie per spiegare le origini dei grandi gialli. Ci sono flash back bugiardi che non possiamo seguire se ci autodefiniamo amici della verità. Orientiamoci solo con una bella puntata abbastanza coerente, troviamo Homer capellone che conosce la ribelle Marge che ancora ha i capelli che rispettano la forza di gravità. Si conoscono e si innamorano durante l'ultimo anno del liceo. Ecco lasciamo il resto e concentriamoci su questo punto: l'ultimo anno del liceo. Ce lo ricordiamo tutti... magari dilatiamo qualche dettaglio per coprire qualche vuoto e piatto giorno ma siamo abbastanza nostalgici per farlo diventare un periodo fantastico. Un eden inirragiungibile. Siamo abbastanza teste tonde da aver già idealizzato i pochi anni che ci siamo lasciati alle spalle... Abbiamo filtrato i ricordi e alla fine c'è rimasto il Liceo, lì a sfavillare come se fosse stato chissà che cosa... E se ci fermiamo un minuto a pensare siamo abbastanza onesti da dire che la preferenza è motivata.
Durante il quinquennio liceale cazzeggiavamo come abbiamo cazzeggiato e come cazzeggeremo per il resto della vita ma per la prima volta era un cazzeggio consapevole. E scusate se è poco. Gli anni della fanciullezza sono lì, intrappolati nei rettangoli lucidi della kodak ma mancava la consapevolezza. Mettetevi sta parola e schiacciate il loop. Ecco, ripetete con me: consapevolezza.


Bella parola, veramente bella. Tutti i bei ricordi son tali solo perchè eravamo già consapevoli che ci aspettavano i doveri e, consapevolmente, li lasciavamo lì. Sfilze di compiti restavano solo scarabocchi sulle righe del diario e bastava poco per fuggire via da lì. Al ragazzino in braghe corte del dopoguerra bastava carta e spago e lanciare un aquilone nel cielo... A noi era sufficiente avere il telecomando tra le mani, un pallone tra i piedi... E siamo cresciuti, tutti qui a dire che prima andava meglio. Bubbole. Bubbole. Bubbole. Continuo la cavalcata, seguitemi. E piano piano il liceo è finito. E siamo finiti all'Università. Ecco. Altro snodo fondamentale. La tv qui ci ha educati male per svariate ragioni: 1)il sistema scolastico dei vari e avariati telefilm cult era totalmente diverso dal nostro. Loro avevano i colleges e le confraternite. Noi se ci finiva bene avevamo giusto giusto le aule e un banco e uno spiazzo d'erba.
2)Nei telefilm non studiava mai nessuno. Come d'altronde nessuno espletava le sue funzioni corporali. La seconda ci veniva difficile ma la prima notazione era fin troppo facile.


Basta con l'elenco puntato, ritorniamo alla magica parola: consapevolezza. La scelta universitaria era la prima scelta consapevole. Come il cazzeggio assume un altro gusto perché sono io che, pur avendo qualcosa da fare, volontariamente non la faccio, allo stesso modo la scelta universitaria doveva essere la prima scelta degna di tale nome. è andata come è andata. Voi dite e tutta sta pippa che c'entra con la politica? C'entra,
c'entra: assumete un altro punto di vista. Tutti i programmi televisivi che ci hanno trifolato il cervello erano trasmessi da un network ben definito. Ai tempi era la Fininvest... Fate due più due e capite che Emilio Fede o no, il biscione è al potere anche per colpa nostra. E la cosa più preoccupante è che noi un giorno nascerà il figlio di una generazione tirata su con i Pokemon, senza la dirittura morale di Candy Candy e la lealtà di Holly e Benji.


Ritornando all'incipit: questi sono gli anni più difficili. Si liquidano presto con una didascalia in un fumetto, con lo stacco tra prima e seconda parte in un romanzo, nella fine del primo tempo al cinema. Noi dobbiamo viverli. 

La stanza 101


La descrizione di un attimo. La ascolto mentre scrivo. Eh, già, la descrizione di un attimo è stata la prima cosa pensata nel rivedere te e tutta l'allegra combriccola col cervello ancora più trifolato, molta più barba, meno illusioni e più disamori nelle dita.
Ma quale attimo mi hai ricordato?
Troppi e tutti assieme. L'altra notte ti pensavo, capita spesso quando l'unica voce nella notte è quella dello scaldabagno. Ci sono notti che il letto a due piazze è troppo grande, anche per i ricordi. Il presente non esisteva. C'ero io e c'eri tu, ci bastava. E pensavo che magari potevo diventare Qualcuno e avere almeno tre cani e sei gatti e vedere crescere loro e noi su una spiaggia greca, sì una casa in Grecia, a respirare la stessa aria di Platone, di Socrate, di Omero... Vivevo di immagini e di tramonti starnutiti sulla terra solo per noi.
Sì, l'altra notte era troppo vuoto il letto. Mi perdo ancora a Palermo e voglio girare il mondo con l'infinito che mi mastica il futuro. Non leggo più tanti libri, ne leggo abbastanza per riempire un'altra riga del libretto universitario, mancano una manciata di materie e poi sarò pronto per la depressione da disoccupato. Bacerò un'altra donna e cercherò ancora i tuoi occhi, avrò abbastanza da dire?
Amo le canzoni dei Beatles solo se le cantano i Beatles, amo quella sfumatura di occhi solo nei tuoi occhi. E' già notte, dalle vertebre della serranda arriva la luce gialla dei lampioni. Penso sempre a questa prospettiva: un futuro post-apocalittico. E io sono uno degli ultimi sopravissuti, non importa il perché, io sono lì, padrone di un mondo che è solo un cimitero. Sono lì, libero, con le mie ancore metafisiche che arrugginiscono in successione. Sono lì e tu sei morta. Ti vengo a trovare spesso nella nostra collina, ti ho seppellito qui, sotto il ciliegio. Guarda: ci sono ancora le nostre iniziali. Le avevo incise una domenica pomeriggio che ero scivolato qui in preda ad un attacco maxi di romanticume. Pensavo di amarti. Lo credevo possibile. Una volta ancora stavo contorcendomi in sparute riflessioni invece di lasciarmi andare. Il mio errore è sempre stato lo stesso: sono un dannato cartesiano, mi rompo la testa con sofismi ed invece di vivere penso al come e ai perché della vita.
Saltello spogliando il contorno del mondo e mi restano in mano solo le bucce, scivolano via le illusioni ed ecco che cosa ho guadagnato: un deserto. Anche l'attualità mi aiuta. Ecco l'ennesima guerra. Dio fa le pulizie di primavera. Dicono che la sovrappopolazione è un problema e tutti lì terrorizzati quando il Grande Inquisitore spegne le nostre candele. Scivolo via nelle strade deserte, ci sono lapidi dovunque ma le voci si sono zittite, non è più la danza macabra, la falce arrugginita ha smesso di scintillare. Sono nel nostro letto, solo. Non siamo a Spoon River. Mondi nuovi e vecchi muoiono di continuo.


Sono qui, ancora più solo.
Ho le tue lettere, le ho sempre tenute con molta cura. Non ti ho mai risposto perché pensavo che bastava lo sguardo per farti capire che...cosa dovevo farti capire? Già non ci capivo nulla io e addirittura volevo spiegare qualcosa a te? M'ero illuso. Stavo rileggendole. Ecco qui è quella che mi hai scritto dopo che avevi letto 1984 di Orwell. Mi chiedevi cosa c'era nella stanza 101. Nella nostra stanza 101. Tutti sanno cosa c'è nella stanza 101. Ci sono le nostre paure più nere e profonde, le paure che ci fanno tradire ogni convinzione per restare vivi e per cullare per il resto del tempo il rimorso. Nella mia 101 ci sei tu. Tu che mi chiedi di amarti, tu che mi chiedi di mettere da parte i libri e le citazioni per essere almeno una volta solo io. Con tutto quello che questo significa. Ci ho provato a spogliarmi della cappa ideologica in cui ci hanno avvolto, ho filato il mio bozzolo con ardore e alla fine era vuoto.

04/06/04

Cirano (F. Guccini)


Venite pure avanti, voi con il naso corto, signori imbellettati, io più non vi sopporto,
infilerò la penna ben dentro al vostro orgoglio perchè con questa spada vi uccido quando voglio.


Venite pure avanti poeti sgangherati, inutili cantanti di giorni sciagurati,
buffoni che campate di versi senza forza avrete soldi e gloria, ma non avete scorza;
godetevi il successo, godete finchè dura, che il pubblico è ammaestrato e non vi fa paura
e andate chissà dove per non pagar le tasse col ghigno e l' ignoranza dei primi della classe.
Io sono solo un povero cadetto di Guascogna, però non la sopporto la gente che non sogna.
Gli orpelli? L'arrivismo? All' amo non abbocco e al fin della licenza io non perdono e tocco,
io non perdono, non perdono e tocco!


Facciamola finita, venite tutti avanti nuovi protagonisti, politici rampanti,
venite portaborse, ruffiani e mezze calze, feroci conduttori di trasmissioni false
che avete spesso fatto del qualunquismo un arte, coraggio liberisti, buttate giù le carte
tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese in questo benedetto, assurdo bel paese.
Non me ne frega niente se anch' io sono sbagliato, spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato;
coi furbi e i prepotenti da sempre mi balocco e al fin della licenza io non perdono e tocco,
io non perdono, non perdono e tocco!


Ma quando sono solo con questo naso al piede
che almeno di mezz' ora da sempre mi precede
si spegne la mia rabbia e ricordo con dolore
che a me è quasi proibito il sogno di un amore;
non so quante ne ho amate, non so quante ne ho avute,
per colpa o per destino le donne le ho perdute
e quando sento il peso d' essere sempre solo
mi chiudo in casa e scrivo e scrivendo mi consolo,
ma dentro di me sento che il grande amore esiste,
amo senza peccato, amo, ma sono triste
perchè Rossana è bella, siamo così diversi,
a parlarle non riesco: le parlerò coi versi, le parlerò coi versi...


Venite gente vuota, facciamola finita, voi preti che vendete a tutti un' altra vita;
se c'è, come voi dite, un Dio nell' infinito, guardatevi nel cuore, l' avete già tradito
e voi materialisti, col vostro chiodo fisso, che Dio è morto e l' uomo è solo in questo abisso,
le verità cercate per terra, da maiali, tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali;
tornate a casa nani, levatevi davanti, per la mia rabbia enorme mi servono giganti.
Ai dogmi e ai pregiudizi da sempre non abbocco e al fin della licenza io non perdono e tocco,
io non perdono, non perdono e tocco!


Io tocco i miei nemici col naso e con la spada,
ma in questa vita oggi non trovo più la strada.
Non voglio rassegnarmi ad essere cattivo,
tu sola puoi salvarmi, tu sola e te lo scrivo:
dev' esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto
dove non soffriremo e tutto sarà giusto.
Non ridere, ti prego, di queste mie parole,
io sono solo un' ombra e tu, Rossana, il sole,
ma tu, lo so, non ridi, dolcissima signora
ed io non mi nascondo sotto la tua dimora
perchè oramai lo sento, non ho sofferto invano,
se mi ami come sono, per sempre tuo, per sempre tuo, per sempre tuo...Cirano

03/06/04

la pozzanghera

Se desidero un'acqua d'Europa, è la pozzanghera
nera e gelida, quando, nell'ora del crepuscolo,
un bimbo malinconico abbandona, in ginocchio,
un battello leggero come farfalla a maggio.


Rimbaud, Il battello ebbro



Il treno sui binari sdentati l'ha lasciato alla stazione. Scende e s'accende una sigaretta, la scaglierà sul secondo marciapiede e la calpesterà. Lo fa sempre. Si guarda la faccia nel riflesso della vetrina, la vede troppo bianca tra le cosce di due manichini nudi. Cammina e la borsa di pelle gli cigola a ogni passo. Pensa che tutto si può aggiustare, basta non risparmiare sulla colla. Lui l'ha fatto una volta e s'è ritrovato in mano un anello in più e una fidanzata in meno.
Pagò sei euro alla cassiera della lavanderia e con la busta sottobraccio s'incamminò verso casa. Arrivato, infilò la chiave nella toppa, salì le scale spogliandosi gradino dopo gradino e, arrivato in bagno, si fece una doccia con due strofinate abbondanti di felce azzurra e due shampate con l'antiforfora della fructis e tutti i suoi acidi di frutta. Quello doveva essere un giorno da ricordare.


Si spazzolò i capelli e il risultato non lo lasciò soddisfatto, chiamò la sorella e se li fece acconciare da lei che si muoveva bene con spume, phon e noci di gel. Lo specchio gli mandava la sua solita faccia da minchione, tra la barbetta che si ostinava a non rasare c'era pure quell'accenno di sorriso che conservava solo per le grandi occasioni. Si lavò la barba e ci ripensò e lesto spacchettò il mach 3 che la madre gli aveva regalato a Natale. Le tre lame gli lasciarono sulla faccia solo due basette regolamentari, appena due centimetri sotto i lobi, secondo i suggerimenti del pater familias. Completò l'operazioni tagliuzzandosi in dodici punti asimmetrici e si sciacquò con il dopobarba Axe africa, che faceva pendant con il deodorante per i cespugli ascellari. Una dopo l'altra le lentine sgocciolate e spizzicate gli s'appiccicarono sulle pupille, dopo solo dodici tentativi che comunque restavano sotto la media. Sul display della radiosveglia danzavano quattro cifre rosse, erano le 17,32: mancavano 4 ore. Aveva quattro ore, 240 minuti prima di prendere l'autostrada e ricordarsi al bar di via Oreto di prendere la prima a destra, subito la prima a sinistra e poi di nuovo a destra. Per non sudare si tolse la giacca e la rimise nella gruccia. Si accucciò sul divano bianco e allungando la mano programmò la ripetizione continua su CARA VALENTINA di Max Gazzè. Quella song l'adorava, era abbastanza piena di significato e d'ironia. Era la dodicesima volta che la risentiva e arrivò proprio sul ritornello il suono metallico del primo e unico esseemmeesse della giornata. Lei non poteva uscire e aveva usato tutt'e 160 caratteri per specificare che lui non doveva insistere. La ragazza con gli occhi color canguro non sarebbe salita sulla sua R4 quella sera. Lui non ci pensò poi tanto e si tolse le lentine, poi liberò il ciuffo dalla gabbia delle microfibre della cera ai frutti e s'impigiamò. La grande serata era sfumata, con un sorriso storto e incerto, scivolò la testa sui cuscini del divano e aspettò il sonno con Max Gazzè e tutte le sue saggezze.



L'aveva conosciuta per caso, come spesso capita. Era l'amica di un suo amico e, per quella tiritera di transitività, era anche sua amica. Non l'aveva mai capita quella cosa lì che gli amici dei suoi amici dovevano necessariamente essere pure suoi amici, c'erano questioni più importanti, o almeno ci dovevano pur essere problemi che meritavano d'essere chiamati tali. Quella serata lì era sgocciolata fiacca, a vedersi chiudere la porta dai bicipiti palestrati dei vari buttafuori tipici della fauna palermitana, quello sì che era un problema, sul serio: non puoi entrare al disco-pub se la tua comitiva non contiene una perfetta simmetria di fanciulle e boys, cioè, tu, in teoria, se sei già felicemente accoppiato, che cavolo ci vai fare al disco-pub? Tu, sempre su via teorica, vai al pub per trovare la donna della tua vita, se già te la porti da casa, che senso ha uscire il sabato per fare due ore di fila al botteghino?




La serata fiacca s'era spenta a Piazza Castelnuovo con la ragazza con gli occhi color canguro che teneva una conferenza alle luci che la giunta comunale in un impeto naif aveva fatto incastonare nel marciapiede. Stava lì, al centro della piazza, ad ululare alla luna e alle lucine che tutti, e precisava tutti, gli uomini erano privi, totalmente privi, di fantasia e della più elementare forma d'iniziativa. Lui l'ascoltava, con la sua faccia da minchione incorniciata da due basette che partivano dalle orecchie e arrivavano giù sino al sotto-mento. Le ragazze gli dicevano che era carino e nel dirlo usavano tutte le possibili sfumature che offriva il dizionario dei sinonimi, tanto, carino era e carino restava, lontano dodicimila anni luce dalla bellezza ideale di Brad Pitt e di tutte le sue fossette al posto giusto.


Il complesso d'inferiorità gliel'avevano trasmesso tutti i cartoni animati testosteronici che aveva subito nei suoi primi vent'anni: bastava alzare la T-shirt per operare un rapidissimo confronto con gli addominali di He-man, dell'uomo tigre I e II e di Superman. Lui era un caso irrimediabile, poteva passare la vita in palestra o sul letto a piegarsi come un portafoglio ma quei quadrettini sulla pancia non sarebbero mai arrivati. E lui, stoicamente, lo accettava. Ma non s'era mai sentito dire che a lui mancava fantasia e iniziativa, mai. S'accesero due sigarette con il resto della comitiva che già sonnecchiava sui sedili della seicento metallizzata e continuarono quell'inutile discussione sino alle 4, lui cozzava sempre e comunque contro i solidi argomenti che lei tirava su per supportare il nocciolo della sua teoria.



L' esseemmeesse era lapidario: lui non doveva insistere e non lo fece. Era sul divano bianco, già con la testa e giù sino al bacino infilato nel lenzuolo del sonno, ma con i piedi in bilico nella terra dei sogni si mise a ripensare a quella notte in treno... Gli altri dormivano dopo il concerto. Solo loro due erano usciti fuori dalla puzza della cuccetta, erano fuori a prendere un po' di ossigeno fresco per dimenticare l'aroma ortopedico quando il treno s'era fermato in quella stazione. Manco si leggeva il nome dello sperduto paesino in cui erano bloccati e il treno dondolava sui binari ad ogni alitata della bufera. Il vento cresceva d'intensità e tutti i lampioni si piegavano tenendosi stretta la loro lampadina da 400 watt. La bufera aveva la meglio su tutto ma non riusciva a spazzare via una piccola pozzanghera. Lei la guardava, entusiasta, e lui guardava lei.


- Guardala, è solo una piccola pozzanghera che fa sfoggio di sé sotto la luce gialla del lampione…è troppo bella, guardala: lotta contro qualcosa di più grande, vuole essere lei a decidere la sua esistenza -, poi il treno era ripartito riportandoli a Palermo con i loro rullini da sviluppare in rettangoli lucidi di ricordi.
Quella notte l'avevano vissuta assieme, con quella bella, piccola e tenace pozzanghera che presto sarebbe diventata un bellissimo ricordo. S'erano rivisti tra le sigarette e i corridoi della facoltà mentre lui aspettava le ultime gocce di caffè, imbambolato davanti al display della macchinetta. Lei era bella, lui la vedeva bellissima nella sua giacca di pelle rossa che le cigolava strusciandosi sui gomiti.


Era solo rinviata quella serata, lo sapeva. E nessuno gli avrebbe mai tolto quella notte in treno, l'aveva divisa solo con lei: la piccola pozzanghera li avrebbe uniti, per sempre.