29/09/06

E va bene, va bene così...

Ho superato Storia Contemporanea, col mio primo ventotto, dopo una ineccepibile sfilza di trenta e trenta con tanto di lode. E vabbé, se non mi ricordavo le sigle sindacali degli emigranti italiani di prima generazione mica che potevo uscirmeli dal cappello.



Sulla Seconda Guerra Mondiale però sapevo tutto e l'ho vomitato in faccia all'assistente che mi ha dovuto interrompere per porre fine al mio delirio mistico.



Ieri notte ho pubblicato l'intervista a Gianfranco Franchi sul suo ultimissimo libro: Disorder.



Qualche giorno fa ho avuto l'onore di una pagina intera su Gente d'Italia. Un paginone su Nuovomondo di Emanuele Crialese. il pdf è qui, qui la versione commentabile su Vibrisse.

22/09/06

Introduzione all'esperienza della lettura



PONTIFICIA UNIVERSITA' GREGORIANA

Centro Interdisciplinare di Comunicazione Sociale




Introduzione all'esperienza della letteratura

(CS2092)



II semestre (dal 21 febbraio al 30 maggio)

mercoledì ore 18.00-19.45



Prof. Antonio Spadaro




A che cosa serve leggere un romanzo o una raccolta poetica? Che rapporto sussiste tra la letteratura e la vita? Il corso, che valorizzerà la dimensione interculturale, intende dare una risposta a questi interrogativi con l'obiettivo di aiutare i futuri operatori dei media a occuparsi di cultura letteraria. Gli studenti, mediante ampie esperienze di lettura di poesia e narrativa, saranno introdotti ai livelli di fruizione di un testo letterario, al senso della conoscenza poetica e al valore del giudizio e della critica letteraria.



Bibliografia consigliata


BARTHES, R. (1977) Sade, Fourier, Loyola. La scrittura come eccesso;

BO, C. (1994) Letteratura come vita. Antologia critica ;

CARVER, R. (1997) Il mestiere di scrivere;

DEBENEDETTI, G. (1988) Il personaggio-uomo. Saggi critici. Serie postuma ;

ISER, W. (1987) L'atto della lettura. Una teoria della risposta estetica;

O'CONNOR, F. (2003) Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere;

POULET G. (1991) La coscienza critica;

RYAN, M.L. (2003) Narrative as Virtual Reality. Immersion and Interactivity in Literature and Electronic Media;

SPADARO, A. (2002) A che cosa «serve» la letteratura?;

SPADARO, A. (2006) Connessioni. Nuove forme della cultura al tempo di internet;

SPADARO, A., (2006) La grazia della parola. Karl Rahner e la poesia.

20/09/06

Piccoli aggiustamenti grafici

Ecco, un piccolo restyling ispirato all'arte di Pannasmontata e al suo stile minimale.

Vediamo se poi g1ga mi regala una testata nuova di zecca.



Che ve ne pare?

19/09/06

Odio i post compilativi come questo qui

Ma talvolta sono necessari.



Allora, vediamo un po':



Cristiano Gaston ha il piacere di presentarvi la nuova versione di Asterione.org, quello che Asterione vuole significare l'ha spiegato magistralmente qui.



Giorgio Tesen s'è trasferito: da qui a qui. Rimpiangiamo le tettute sullo sfondo. A lui e a tutti quelli che passano da splinder a wordpress consigliamo Spleender, un programmino ad hoc per effettuare il trasloco dei post.



g1ga sta lavorando al rinnovamento grafico di BS, ora c'è perfino il brand BS...



E finalmente in edicola è pure arrivato Superman a prezzi popolari grazie a Planeta De Agostini, qui maggiori ragguagli.

16/09/06

Il romanzo di tutta una vita

Un piccolo scoop sull'Orca lo trovate qui. Grazie a Marco Viviani per il graditissimo dono.



E sempre su Vibrisse la prima puntata del mio diario di un'aspirante giornalista.



L'articolo "oltreoceano" è stato segnalato pure dalla Guida alla Scrittura Creativa.

15/09/06

Gente d'Italia libri







Gente d'Italia Libri è la nuova rubrica settimanale di un quotidiano in lingua italiana che esce negli Stati Uniti



La curatrice, Stefania Nardini, la presenta così:



"Due pagine per raccontare l'Italia da una prospettiva che é il cuore pulsante del nostro modo di essere: la scrittura. I libri che raccontano le nostre storie, i luoghi, le passioni.

Che rappresentano la qualità di una letteratura al di là delle logiche commerciali.

Vogliamo proporvi autori capaci di trasmettere emozioni, contenuti. Con alcuni di loro parleremo, di altri vi racconteremo.

Puntiamo a proposte di qualità. A un modo di fare recensioni capace di trascinare chi legge in "quel" mondo. Un modo per dire ai nostri lettori d'oltreoceano che hanno il diritto di pretendere. Pretendere di trovare nelle nostre librerie italiane qualcosa di nuovo, che vada al di là delle leggi di mercato. E' un tentativo di "esportazione" al quale ci prestiamo volentieri. Perché il linguaggio della letteratura é universale e un giornale, nel pieno del suo ruolo, ha il dovere di divulgare, informare, per abbattere anche la linea di confine più sottile. Lasciando spazio alle sensibilità di chi dedica la sua vita alla meravigliosa arte dello scrivere."




Questa settimana Demetrio Paolin scrive di Emanuel Carnevali e del suo "Il primo Dio", Tonino Pintacuda della Sicilia di Camilleri, Stefania Nardini di quell'alchimia che si chiama scrittura.



Nelle prossime settimane i lettori di Gente d'Italia gusteranno le varie tappe del Giro d'Italia con Vibrisse curato dall'arcilettore Bartolomeo Di Monaco.



La prima puntata di Gente d'Italia libri è nel numero odierno di Gente d'Italia, la versione pdf la trovate qui.

11/09/06

Dylan Dog: 20 anni con noi...

Dopo il mezzo fallimento della collezione book (una versione cartonata vale 3,70 €?), Dylan Dog torna in edicola con la Grande Ristampa, ben tre albi in unica soluzione per 5,50 € che viene 1,83 (col tre periodico) ad albo.



Ma i festeggiamenti del ventennale non finiscono certo qui, rimando alla pagina del sito ufficiale della Sergio Bonelli che facciamo prima.

Senza parole

world trade center



























































new american dream



altri saturnismi

09/09/06

per sfuggire all'inferno dei viventi

La parte femminile di Blogodot -  stupendo weblog da leggere e da guardare - ha mandato in un altro luogo questo pezzo de Le città invisibili, noi lo rilanciamo qui:



Marco Polo at the court of Kublai Khan. This is a file from the Wikimedia Commons.L'atlante del Gran Kan contiene anche le carte delle terre promesse visitate nel pensiero ma non ancora scoperte o fondate: la Nuova Atlantide, Utopia, la Città del Sole, Oceania, Tamoé, Armonia, New-Lanark, Icaria.



Chiese a Marco Kublai: - Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quale di questi futuri ci spingono i venti propizi.

- Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell'approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s'apre nel bel mezzo d'un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s'incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d'istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie.

Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t'ho detto.



Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World.

Dice: - Tutto è inutile, se l'ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.

E Polo: - L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio."

08/09/06

trentuno anni dopo

Grazie a Luciano Pagano possiamo rileggere il contenuto del pieghevole che accompagnava la prima edizione di Horcynus Orca (qui insieme al sottoscritto)



Opera di grandioso respiro epico e lirico, Horcynus Orca racchiude in una azione di pochi giorni e in uno spazio compreso tra l’estremità della Calabria e la Sicilia una materia di immenso potenziale mitico e simbolico e insieme di straordinaria evidenza realistica: il ritorno al paese, a Cariddi, nello sfacelo dell’autunno del 1943, di ‘Ndrja Cambrìa, marinaio della fu regia Marina, che percorre a piedi le coste devastate della Calabria e viene trasbordato di notte da Circina Circé, potente e ammaliante figura di femminota, dedita a misteriosi traffici su e giù per lo sill’e cariddi. Riapprodando all’isola, tutto quanto costituiva il suo mondo, a terra e a mare, gli appare stravolto, immeschinito e degradato dalla guerra e dalle conseguenze della guerra. L’apparizione improvvisa dell’Horcynus Orca, dell’Orca che dà la morte, che dà la morte e basta, dell’Orca che è, in una parola, la Morte, segna una svolta narrativa di grande effetto e imprime al romanzo una cadenza fortemente drammatica. L’orcaferone, mostro terrificante e cancrenoso, col fetore della sua piaga rivela subito implicazioni simboliche, che non cadono mai nell’astrazione, ma si esprimono in immagini di potenza vitale e visionaria. Dopo l’agonia dell’orca, scodata e irrisa dalle fere, feroce razza di delfini del duemari, e il traino e arenamento dell’enorme carogna ad opera di inglesi e pellisquadre, si assiste a un tempestivo cambiamento di ritmo narrativo e le ultime duecento pagine - che con una progressiva e inaspettata concentrazione dei fatti, tipica del climax tragico della tradizione più alta, portano senza una pausa al finale - sono di una grandezza senza aggettivi. Il viaggio di ritorno di ‘Ndrja Cambrìa si rivela, così, come il suo avanzare, a poco a poco, verso la morte, in un mondo alterato, corrotto, reso irriconoscibile.



Qualsiasi esemplificazione riassuntiva appare però totalmente inadeguata alla sconfinata architettura dell’opera, che fin dalle battute dell’inizio introduce in una dimensione eccezionale, fuori dagli schemi e dalle abitudini narrative del nostro tempo. Fondendo il presentimento della morte e il sentimento della vita, il romanzo sviluppa, attraverso quarantanove episodi e una serie sterminata di personaggi e figure, di visioni e di sogni, di ricordi, di simboli e di associazioni, di variazioni e riprese, l’immensa tematica di quella continua metamorfosi che è la vita degli uomini e dell’universo. Essa si articola in una stupefacente varietà di registri stilistici e in una altrettanto prodigiosa molteplicità di piani narrativi, volta a volta - e spesso contemporaneamente - onirici e realistici, evocativi e visionari, soggettivi e corali: dall’amore tra Aci e Galatea, vissuto dal figlio, alla scandagliata per la riviera di ‘Ndrja e Masino, dall’iniziazione erotica di ‘Ndrja alle immagini ariose ed epiche dell’agonia dell’orca fino al progressivo emergere e dilagare della corruzione agli occhi di ‘Ndrja (il Maltese dalla dentatura d’oro, la regata, la fine dell’idolo don Luigi Orioles).



E’ una narrazione dai tempi lunghi, non solo in senso materiale, ma interiore, che muove per cerchi concentrici da punti diversi e si conferma costantemente come unità: unità di mondo morale e fantastico, completamente risolta in un linguaggio dove convergono e si potenziano reciprocamente, per dilatarsi e arricchirsi in una nuova realtà, le lingue ancora oggi parlate di quell’immenso deposito millenario che è la Sicilia; esse reagiscono con l’italiano delle codificazioni letterarie e producono, con continue contaminazioni e neologismi, una lingua insieme nuova e antica, unica nella inesauribille proliferazione delle su einvenzioni e, al tempo stesso, totalmente realizzata nelle su epotenzialità di comunicazione e di espressione. Così che Horcynus Orca, se da un lato può apparire, senza alcun dubbio, una sorta di monstrum nella narrativa contemporanea, dall’altro affonda le sue radici nel sotrato più profondo, più vitale e più ricco della tradizione occidentale, rinnovandola in un testo di smagliante bellezza e di memorabile densità, destinato a occupare, in assoluto, un posto di primo piano nella letteratura del Novecento.



(altri articoli su D'Arrigo)

05/09/06

Novità in libreria

Antonio Spadaro, La grazia della parola. Karl Rahner e la poesia, Jaca Book.



Una scoperta per chi si interessa di letteratura e di critica letteraria. Per il lettore di spiritualità e teologia un volto meno noto di Rahner e la conferma del nesso profondo tra letteratura e creazione teologica messo in luce dagli "Stili laicali" di von Balthasar.



Il grande teologo Karl Rahner (1904-1984) ha scritto alcuni saggi nei quali sviluppa una attenta riflessione sul linguaggio della poesia. Essi compongono - forse senza una precisa intenzione - un discorso estetico ampio e coinvolgente.



La capacità e l’esercizio di ascolto della parola poetica è anche un presupposto per ascoltare la parola di Dio, «alla quale l’uomo si abbandona in umile prontezza, affinché essa gli apra l’udito dello spirito e gli penetri nel cuore». In effetti, Rahner, interrogandosi su come sia possibile per l’uomo d’oggi trovare accesso alla fede cristiana, scopre che una poesia di Baudelaire o un romanzo di Graham Greene possono suscitare nel lettore una personale esperienza religiosa. Tra teologia e arte della parola Rahner, infatti, scopre un’affinità intrinseca. L’essere umano è stato creato e salvato dal Verbo fatto carne, e la letteratura, per il solo fatto di esprimere la realtà umana, dice dunque il mistero di Cristo e l’esperienza che l’uomo ne fa, perfino quando la ignora o la rifiuta.



Rifuggendo dalla logica vana e incongrua, che vede in ogni approccio teologico alla letteratura non propriamente di ispirazione religiosa un tentativo di «riabilitare» o «battezzare» autori «miscredenti», l’autore espone il pensiero del teologo tedesco intrecciandolo in maniera esplicativa alle intuizioni di scrittori, anche tra loro lontanissimi tranne che per il loro genio, quali Marcel Proust e Flannery O’Connor.




Anno di pubblicazione:  Settembre 2006

Pagine:  104

Collana:     Di fronte e attraverso

Sottocollana:     I Libri della " Civiltà Cattolica"

ISBN:     8816-40747-6



il sito di Antonio Spadaro;

i suoi libri

Rahner su Wikipedia

03/09/06

Le responsabilità del critico

di Northrop Frye

da La letteratura e le arti visive e altri saggi, Abramo, Catanzaro, 1993.



Molti scrittori del diciannovesimo secolo, compresi Burke, Carlyle e Arnold, colpiti molto profondamente da tutti i discorsi rivoluzionari a proposito dei «diritti dell'uomo» che si facevano sulla scia della Rivoluzione francese, amavano insistere sul fatto che gli uomini non hanno diritti, ma solo doveri. Allo stesso modo, per il critico accademico che rappresenta le arti pratiche, in particolare la letteratura, nell'ambito universitario, è meglio parlare delle sue responsabilità piuttosto che dei suoi privilegi. Molti poeti e romanzieri si domandano perché, se egli deve imporre la sua presenza agli studenti per parlare di letteratura, non può limitarsi agli autori che sono già morti e lasciare che l'impatto con quelli ancora in vita avvenga senza impedimenti. La maggior parte dei critici accademici preferirebbe fare così, ma in tal modo si dà per scontato che gli studenti leggano la letteratura contemporanea per conto proprio, e gli studenti sono così poco inclini a farlo che spesso ritengono che i loro insegnanti abbiano l'obbligo morale di dedicarsi il più possibile agli autori viventi. Talvolta gli amministratori delle università potrebbero essere grati ai «letterati», perché le loro richieste finanziarie sono molto inferiori a quelle di chi si occupa di scienza e tecnologia, ma prezzo alto e alta considerazione vanno sempre insieme, e quindi essi riecheggiano l'atteggiamento dell'uomo della strada che mette in dubbio la «rilevanza» delle discipline umanitarie. Il critico non ha alcuna rilevanza, oltre a quella che si crea egli stesso, anche se ho il sospetto che ciò sia ugualmente vero per il resto della razza umana.



Prendiamo le mosse dalla tradizione che ha inizio con Aristotele, per introdurre l'argomento che sta realmente a cuore al critico, ovvero quella che Aristotele chiama poetica. Parlo di tradizione aristotelica piuttosto che di Aristotele perché la Poetica è un trattato molto ellittico, e sembra che lo scriba a cui siamo debitori di quest'opera sia stato preso dal crampo dello scrivano nei momenti più inopportuni. Tutte le volte che, leggiamo qualcosa, dobbiamo fare due cose con le parole: metterle insieme e porle in relazione separatamente con ciò che esse significano nel mondo che sta fuori del libro. Come se ciò non fosse abbastanza complicato, dobbiamo venire alle prese anche con due aspetti delle parole, l'unità e l'insieme. L'unità è espressa dalla narrazione, ovvero la sequenza ordinata delle parole dalla prima pagina all'ultima. L'insieme consiste soprattutto nelle immagini, nelle parole con i loro significati convenzionali, di cui i più importanti sono i sostantivi e i verbi, ovvero i nomi delle cose e delle azioni. Possiamo chiamare struttura e tessuto questi due aspetti della narrazione e della imagery.



Ad un certo punto potremmo avere la sensazione che ciò che significano le parole, al di fuori del libro, prende il sopravvento sul loro rapporto reciproco. In altre parole, abbiamo una struttura verbale che va posta di fronte a qualcos'altro, con cui si trova nella stessa relazione di un'imitazione rispetto a un originale. Vi sono due gran.di e importanti classi di strutture verbali di questo tipo: quelle che imitano la praxis, o azione umana, e quelle che imitano la theoria, o visione e pensiero umano. Possiamo chiamarle strutture verbali storiche e discorsive. La narrazione quindi riflette un'area di azione o di pensiero corrispondente, ed è soggetta al criterio di «verità» che, in questo caso, significa verità di corrispondenza: una struttura verbale è paragonata ad un insieme di fenomeni esterni ad essa, e si definisce vera se ne costituisce una controparte verbale soddisfacente. La corrispondenza può essere solo occasionale e fortuita, oppure può verificarsi sempre più regolarmente nel corso del tempo. Questo ci fa dire che «c'è della verità» in quello che dice lo scrittore. Le immagini corrispondono alle cose che esse designano convenzionalmente: le parole devono essere usate col loro senso consueto e coerente, e gli insiemi più piccoli sono soggetti a un criterio collegato con questo ma diverso, ovvero il criterio del reale.



D'altra parte possiamo avere la sensazione che in ciò che stiamo leggendo le interrelazioni delle parole abbiano la priorità, ovvero che ci troviamo di fronte ad una struttura verbale fine a se stessa. Si tratta, in tal caso, di un'imitazione verbale secondaria di azione e pensiero, che appartiene al gruppo che chiamiamo poetico o letterario. Nell'opera letteraria il principio unificatore non è altro che la narrazione - mythos in greco - non soggetta al criterio della verità di corrispondenza, o della concordanza specifica con qualcosa al di fuori di essa. In quanto imitazione dell'azione, la narrazione non è storia ma racconto, qualche cosa che si legge per il piacere della lettura. Aristotele suggeriva che nel corso di tale processo la narrazione si sposta dalla rappresentazione del particolare alla rappresentazione dell'universale. Quando dalla storia più antica della Scozia passiamo al Macbeth, ci spostiamo da ciò che è accaduto a ciò che accade, ad una visione di qualcosa di ricorrente e mai concluso nella vita umana. La parola «visione» implica che vi sono coinvolte sia la theoria che la praxis, ed è per questo che Aristotele dice che la poesia è più filosofica della storia.



La Poetica non dice quasi nulla riguardo al rapporto della letteratura con le rappresentazioni del pensiero, e nella critica inglese dovremo aspettare fino a Coleridge perché ci si occupi di tale questione. Gli stessi principi generali, ad ogni modo, sono validi anche a questo proposito. Le imitazioni primarie del pensiero sono -costituite da asserzioni, ovvero affermazioni particolari che ancora una volta sono giudicate secondo la verità di corrispondenza. La poesia può usare materiale filosofico. come può usare materiale storico, ma quando lo fa il suo contesto è diverso dalla filosofia. Al livello più semplice, il poeta ha un interesse peculiare per la felicità di espressione, per dire, secondo le parole di Pope, ciò che fu spesso pensato, ma mai così bene espresso. Il poeta è stato sempre ammirato, e lo è tuttora, più di quanto crediamo, per una qualità sentenziosa della sua opera, ovvero per l'abilità a produrre l'espressione facile da citare o da riconoscere. Se guardiamo più da vicino, vediamo che ciò risulta da una maggiore concretezza del suo mezzo. Ad un livello più complesso, un poeta filosofico, se confrontato con un filosofo, è interessato non tanto ad un sistema o alla correlazione di idee, quanto all'elaborazione delle figure o dei diagrammi metaforici da cui deriva il sistema. Così l'Eureka di Poe, che parla diffusamente di elettricità e di forza gravitazionale, sviluppa questi concetti come un alternarsi positivo e negativo del movimento nell'universo, e finisce con una visione simile a quella dei giorni e delle notti di Brahma nell'induismo. Un esempio ancora più chiaro è costituito da Sartor Resartus, che elabora la metafora indumenti-corpo implicita in Kant e Fichte. In opere letterarie lunghe e complesse, come le epiche di Dante e Milton, tali visioni del mondo si espandono in cosmologie, e la cosmologia è, come dice Valéry, una delle arti letterarie.



In letteratura, allora, la narrazione è puro mythos, e ci sono due tipi generali di miti letterari, i miti narrativi e i miti concettuali. In quanto agli insiemi o immagini, nelle opere letterarie essi sono correlati essenzialmente gli uni agli altri piuttosto che separatamente alle cose del mondo esterno. Quando due immagini sono in correlazione tra loro abbiamo una metafora di qualche tipo: così un'opera letteraria ha una struttura mitica e un tessuto metaforico.



Il punto di vista aristotelico delle strutture verbali, con la modulazione fattane da Coleridge attorno al 1800, è stato di grande utilità fino all'inizio del nostro secolo, e mi sembra tuttora solido e conveniente. Il suo difetto principale, a parte la mancanza di prospettiva storica, non era tanto in se stesso, quanto nel fatto che nel campo della critica lasciava aperta la strada ad assunti sociali e culturali molto dubbi. Nonostante l'uso del termine «universale» da parte di Aristotele, sembrava implicare che il compito veramente serio delle parole fosse di dirci la verità su ciò che accadeva nel tempo e nello spazio concettuale. Le strutture letterarie quindi non erano molto serie, a meno che fossero state scritte nelle lingue morte e che lo sforzo nel decifrarle e l'oscurità che le circondava non contribuissero a renderle tali. La vera funzione della letteratura, si pensava, era di fornire una specie di risonanza emotiva alle verità trasmesse dalla storia e dalla filosofia. Sono proprio queste considerazioni di ordine culturale, piuttosto che la stessa teoria aristotelica, a non essere più sostenibili ai nostri giorni.



Non abbiamo più la stessa fiducia ingenua nella capacità illimitata delle parole nell'esprimere tutti i possibili fenomeni dell'esperienza, o nel mostrarci ogni tipo di realtà in uno specchio senza incrinature. Ci rendiamo conto più chiaramente di come è facile parlare di cose che non esistono, o di cui non si può dimostrare l'esistenza, ovvero discutere dei nove ordini di angeli con altrettanta concretezza che della stratificazione delle rocce. Ancora più importante è il fatto che ci rendiamo conto della misura in cui le parole continuano a rifuggire dalla realtà per tornare alle proprie «finzioni» grammaticali, e così ci inducono a credere che i soggetti, i predicati e gli oggetti siano insiti nella natura delle cose. Di conseguenza la filosofia contemporanea ha per lo più spostato l'attenzione da ciò che ci dicono, o che sembrano dirci le parole, alla struttura linguistica stessa, e all'efficacia e ai limiti di quella struttura come strumento comunicativo. Ecco quindi che Heidegger, in Was heisst denken? e nei suoi saggi su Hölderlin, minimizza la differenza tra il pensatore-poeta e il pensatore-filosofo. Entrambi, secondo lui, elaborano strutture verbali autonome, e quelli che egli ritiene filosofi per eccellenza sono Nietzsche e Parmenide, che potrebbero essere benissimo descritti come poeti. Wittgenstein, un filosofo molto diverso, è più interessato agli aspetti negativi delle strutture verbali, e alla definizione dei limiti delle loro capacità, ma anche in lui vi sono riflessi di interessi simili. Quando una struttura verbale viene definita vera perché si ritiene corrisponda a un insieme di fenomeni, essa diventa univoca: in altre parole, il linguaggio è usato come pura e semplice comunicazione. Le Ricerche filosofiche, in particolare, esplorano le immense difficoltà implicite nel cercare di semplificare eccessivamente tale situazione. Vi sono pure implicate questioni più positive. Finché la letteratura continua a usare le parole col loro significato abituale, essa non può mai essere astratta o non figurativa come è la musica, e come possono essere la pittura e la scultura. D'altra parte, ci deve essere un altro aspetto del tipo di verità che può essere trasmesso dalle parole, una verità di implicazione, una verità che emerge da coerenza interna piuttosto che da riferimenti esterni.



C'è la convinzione sempre più diffusa tra i critici, i filosofi e perfino gli specialisti in scienze sociali, che il compito che le parole svolgono meglio, con più accuratezza e con maggiore efficacia, è di avere coerenza logica.. L'abilità delle parole di informare il mondo esterno le rende estremamente utili, ma è alquanto limitata in confronto alla matematica, e sembra essere in certa misura derivata. Per una forma di reazione sarebbe facile esagerare questa tendenza, ma siamo quasi giunti ad una situazione critica per cui le strutture verbali sono ritenute o letterarie o sub-letterarie. Quest'anno, il 1976, si celebra il bicentenario di The Wealth of Nations di Adam Smith e del primo volume di The Decline and Fall of The Roman Empire del Gibbon. In origine queste opere erano resoconti storici e discorsivi sull'economia e sulla storia di Roma. In questo senso sono «datate» e accettarle come tali ci riporterebbe a concezioni superate riguardo a questi argomenti. Ma come strutture verbali autonome esse sono più importanti oggi di quanto non lo fossero ai loro giorni, perché sono passate ad una categoria superiore, ovvero a quella delle opere letterarie.



Ne conseguono due corollari. Uno è che quando un'opera sopravvive grazie a una qualità letteraria di questo tipo, essa acquista anche una dimensione storica. Ciò è quanto esprime innanzi tutto la parola «classico». Il fatto che i libri di Adam Smith e di Gibbon siano ancora leggibili li rende preziosi come documenti del diciottesimo secolo, ovvero come prospettive su un'altra età. Talvolta dobbiamo guardare alle cose dal punto di vista di altre epoche, proprio perché non appartengono ai nostri giorni. Altrimenti perché l'Università di Toronto dovrebbe celebrare un centenario, e il paese in cui si trova un bicentenario? L'altro corollario è che ogni scrittore, nella misura 'in cui riesce a produrre una struttura verbale coerente, non solo è uno scrittore «creativo», ma, se usiamo la parola con un senso critico corretto, è un poeta. Dovrebbe esistere un terzo corollario, ma non è così. Questo corollario sarebbe che la critica letteraria occupa un posto centrale in tutto ciò che ha a che fare con le parole. La ragione per cui non esiste è qualcosa di cui non possiamo occuparci finché non avremo considerato la dimensione storica o genetica dell'argomento. Questo ci porterà dalla tradizione aristotelica alla filosofia italiana del diciottesimo secolo, ovvero a Vico con la sua grande visione dello sviluppo delle istituzioni sociali partendo da quella che egli chiama «sapienza poetica», o mitologia originale.



La rilevanza di Vico per il nostro argomento è che egli colse con grande sicurezza due principi: il primo è che una struttura mitologica è una struttura poetica, qualunque sia l'uso non letterario che si faccia del mito, e il secondo che questa mitologia poetica precede lo sviluppo della scrittura storica e discorsiva. Questo è l'aspetto storico del principio che le strutture verbali sono create innanzi tutto per avere una coerenza logica piuttosto che per riflettere qualcosa: l'aspetto della coerenza è non solo primario ma primitivo, ovvero quello che è venuto per primo. Ne consegue un presupposto e cioè che la poesia abbia sempre preceduto la prosa nella storia della letteratura, il che è ovviamente vero, ma nello stesso tempo distrugge quello che ho sempre attaccato come l'errore di Jourdain, e cioè che la prosa è il linguaggio del discorso ordinario. Tale errore è particolarmente inspiegabile in un momento in cui gli studenti universitari non sono capaci di scrivere o di parlare in prosa, e ci avviciniamo al punto di vedere bollato come appartenente a un'«élite» chiunque lo faccia abitualmente.



Vico vede la mitologia poetica come qualcosa che si usa nella società per controllare l'azione umana da un lato, e il pensiero umano dall'altro. Il controllo dell'azione umana si ottiene attraverso la legge, anche se la legge in questo contesto include l'abitudine e il rituale. La società inizia in un'età degli dei, in cui si ritiene che le leggi siano di origine divina, e siano interpretate da oracoli e profezie; poi si passa a un'età di eroi, in cui le leggi sono formulate nell'interesse di una classe dominante, poi a un'età degli uomini, in cui si dà per scontato che l'uomo sia responsabile delle sue stesse leggi, e finalmente ai vari stadi di un ricorso che dà nuovamente inizio a questa sequenza. Il grande esempio del ricorso per Vico era il ritorno dell'età degli dei e degli eroi dopo la caduta della repubblica romana.



Questa evoluzione della legge è uno sviluppo non letterario della mitologia e comporta una nuova ricreazione allegorica della mitologia in ogni fase sociale. Quando passiamo da un'età degli dei ad un'età degli eroi, le azioni degli dei diventano un'allegoria delle azioni di un'aristocrazia o classe privilegiata. Quando passiamo all'età degli uomini, le azioni dell'aristocrazia diventano un'allegoria di quella che dovremmo chiamare ora una lotta di classe. Ogni reinterpretazione è un tentativo di dire quello che il mito originario «significa realmente». Facendo così si distrugge il mito come struttura e lo si sostituisce con il nuovo significato. L'evoluzione della mitologia interna della legge in una parabola di sfruttamento è ciò che interessa maggiormente a Vico, il quale inizia così una tradizione che sarà più tardi seguita da Michelet, Marx e Sorel. L'habitus mentale normale di Vico è allegorico, ed egli insiste che le vere allegorie dei miti originali sono univoche e storiche.



La mitologia originale, tuttavia, era il prodotto di un pensiero poetico, o per meglio dire immaginativo, e quindi, parallelamente al movimento in cui la mitologia stessa rispecchia il corso dell'azione sociale, si ha una ristrutturazione della mitologia stessa nei suoi stessi modelli immaginativi, una ristrutturazione che è strutturale e non allegorica, che è opera di una ricreazione piuttosto che della distruzione di un significato per sostituirlo con un altro. Questa ristrutturazione del mito è ciò che chiamiamo letteratura. Mari mano che l'età degli dei diviene l'età degli eroi, i miti degli dei si modulano in racconti fantastici su campioni umani; allorché l'età degli eroi diviene l'età degli uomini, questi racconti diventano plausibili e realistici. Ma in tale processo permangono le stesse strutture mitiche, gli stessi espedienti per dare un inizio, uno sviluppo e una conclusione alla storia.



Lo sviluppo letterario del mito è inoltre diverso da un altro processo in cui il mito forma l'embrione della filosofia e della scienza. La mitologia non è in realtà una forma di pensiero concettuale, e lo sviluppo della scienza, come quello della legge, comporta la distruzione e la sostituzione piuttosto che la ristrutturazione del mito. Così l'astronomia del diciassettesimo secolo sostituì lo spazio mitologico con quello scientifico, e la biologia e la geologia del diciannovesimo secolo sostituirono il tempo mitologico con quello scientifico. Continuiamo a usare le espressioni «sorgere» e «calare» del sole, ma ora pensiamo ad esse come allegorie di una situazione molto diversa. Abbiamo quindi bisogno di un terzo sviluppo sociale della mitologia, che, a differenza degli altri due, preservi la sua struttura immaginativa interna per giustificare la continuazione dell'abito mentale poetico e mitologico nella letteratura.



Una visione ciclica della storia è in sé alquanto pessimistica, e l'ideale cammino percorso dalle nazioni, sotto l'occhio benevolo di una provvidenza divina, è così sintetizzato dal Vico:



Gli uomini prima sentono il necessario, dipoi badano all'utile, appresso avvertiscono il comodo, più innanzi si dilettano del piacere, quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano in istrappazzar le sostanze.



Ne sembra conseguire che se ci sono un senso e una morale nella storia o perfino nello studio della storia, tale morale deve essere connessa con la questione di come possiamo arrestare il ciclo in quello che ci sembra il punto più desiderabile. Per la maggior parte di noi questo punto sarebbe l'età degli uomini, e tale sembra essere anche l'atteggiamento di Vico. Egli pare anche suggerire che il tentativo di analisi rappresentato dal suo libro potrebbe fornire un contributo ad agire contro la fatalità di un altro ricorso. Forse, prendendo in prestito una massima celebre, sono solo coloro che non vogliono imparare la storia che sono condannati a ripeterla. L'urodelo potrebbe forse raddrizzare la coda se cominciasse a fargli male quando se la morde.



In Vico il ciclo della storia inizia. con uno scoppio di tuono, il rumore proveniente dal cielo che secondo i giganti primitivi dopo il diluvio doveva essere la voce di Dio, ovvero un segno di disapprovazione per interrompere l'accoppiamento con le loro donne. 1 giganti spaventati si disgiunsero così dalle donne e le trascinarono, invece nelle caverne, dando inizio alla proprietà privata. Fu questo particolare di Vico che attrasse James Joyce che era pure terrorizzato dai temporali. In Finnegans Wake egli sembra associare il mito di Vico con quello di un altro capolavoro del diciottesimo secolo, il Tristram Sbandy di Sterne, dove l'eroe attribuisce le disgrazie della sua vita al fatto che sua madre aveva interrotto il padre, durante l'amplesso, chiedendogli se aveva caricato l'orologio. Sterne, insieme con Sant'Agostino, è più esplicito di Vico nel ritenere che le preoccupazioni nel sesso e nella vita non siano mai disgiunte.



Il tuono del Vico, tuttavia, simboleggia anche un problema storico e sociale per la cui trattazione non abbiamo gli strumenti concettuali: se, e in che misura, gli sviluppi culturali sono fondati su qualche trauma dimenticato, soppresso o male interpretato. i miti della caduta dell'uomo, o, ancora più chiaramente i miti di un diluvio, come «la storia di Atlantide, sembrano indicare qualcosa di simile. Freud suggerisce che la fonte di un mito traumatico di tipo affine è un rito di uccisione di un padre primigenio. Ma in genere lasciamo tali questioni a speculatori come von Daniken e Velikowski, che seguono lo stile mitopoietico del Vico, suggestivo ma poco rigoroso. Può sembrare implicitamente probabile che la vera risposta, se c'è, sia qualcosa di meno pittoresco di una visita di extraterrestri o della nascita del pianeta Venere. Ma la ragione della popolarità di tali scrittori ai nostri giorni ci fa intravedere un altro aspetto del problema e spiega perché attribuisco tanta importanza al Vico.



Ogni epoca, naturalmente, pensa di costituire la realizzazione di tutto ciò che è venuto prima, e cerca di interpretare la storia non come ciclicità ma come evoluzione verso il suo telos nel momento attuale. Vico stesso, vivendo nel diciottesimo secolo, dà molto rilievo al miglioramento della vita da quando i giganti si aggiravano nel mondo in uno stato di promiscua anarchia. Allo stesso modo, l'«uomo delle caverne» dei miti popolari progressisti di una cinquantina di anni fa era molto più vicino alle favole di giganti e di orchi e anche più vicino al Vico che a qualunque cosa sia effettivamente suggerita dalle grotte di Altamira e di Lascaux. Ma c'è oggi una diffusa sensazione che siamo negli ultimi stadi del ciclo trac ciato dal Vico, quando al fasto subentra un folle dispendio di risorse, tanto che ai nostri miti del progresso e dell'evoluzione si è aggiunto un tocco di apprensione in più.



Chiunque abbia più di trent'anni; naturalmente, può avere la sensazione che l'esistenza di tanti giovani sotto i trent'anni costituisca in sé la minaccia di un ritorno ai «secoli bui». Ma i nostri giorni sembrano essere caratterizzati dalla grande intensificazione di un sentimento altrimenti normale che influisce sulla generazione più giovane maggiormente che sulle persone mature. La sensazione che siamo direttamente di fronte ad un altro trauma o «scoppio di tuono», a qualcosa che capiterà nel corso di una generazione, va dalle paure ossessive di un olocausto nucleare alle previsioni maniacali di una Età dell'Aquario. P- rapportabile al senso di vicinanza alla fine di un ciclo, a qualcosa di simile a ciò che il Mental Traveller di Blake chiama la nascita del bimbo. Naturalmente il linguaggio e la letteratura sono pervasi dallo stesso sentimento. Il periodo di ricorso del Vico era accompagnato dalla scomposizione del linguaggio, quando il latino si era trasformato nei vernacoli romanzi. L'elaborato sistema delle comunicazioni dei nostro tempo tiene insieme una forma tradizionale normalizzata di inglese che senza tale sistema si dileguerebbe in ,ogni direzione per trasformarsi in un'infinità di dialetti e di idiomi. Noto spesso nei giovani un senso di diffidenza, quasi di vergogna, nel parlare questa lingua tradizionale, come se in ciò fosse implicito un atteggiamento di partecipazione nella società, che essi non condividono.



Vico ci dice che la storia è fatta dagli uomini, il che significa che anche tutti gli dei nati dalla paura del tuono sono creazioni umane. Questa è la ragione principale del fatto che egli è costretto ad accantonare tutta la tradizione biblica sostenendo che è al di fuori della storia da lui presa in esame. In questo non riusciamo quasi a seguirlo e non sono sicuro che egli stesso lo vorrebbe. In primo luogo Geova, che fece annegare l'intera razza umana, è un dio del tuono altrettanto quanto Zeus, e la storia dell'Esodo è tutta pervasa da un trauma culturale. Il vero rapporto tra la cultura ebraica e quella egiziana è solo questione di congetture: ne fanno fede alcune sagaci osservazioni di Freud in Mosé e il monoteismo, e un commento del diario di Melville dopo una visita alle piramidi: Rabbrividisco all'idea dell'antico Egitto. Fu in queste piramidi che fu concepita l'idea di Geova. Terribile commistione di scaltrezza e terribilità.



In secondo luogo, ciò che è più importante è che la cultura nata in modo così misterioso aveva un carattere rivoluzionario che la rende unica nel mondo antico, oltre che farne la diretta antenata di una serie di religioni rivoluzionarie: l'ebraismo, il cristianesimo, l'islamismo e il marxismo. Si inizia con Dio che dice a Mosé che si sta attribuendo un nome e sta assumendo un ruolo storico specifico ed estremamente fazioso. La fede in una rivelazione che inizia in un momento e in un luogo definiti, l'accettazione di un canone di libri sacri, l'abito mentale dialettico che polarizza ogni questione e ne esclude gli elementi revisionisti, compromettenti o liberali: queste sono caratteristiche di un movimento religioso rivoluzionario e sono ricorrenti in tutta la progenie del roveto ardente. Il monoteismo rivoluzionario degli ebrei è del tutto 'diverso nelle implicazioni sociali dal monoteismo imperiale apparso precedentemente in Egitto e poi in Persia e a Roma. Il monoteismo biblico è quello di una piccola nazione assediata: il suo dio è invisibile e, a differenza dell'Egitto, dove il Faraone era sempre il sommo sacerdote e un'incarnazione di Horo, gli ebrei tendevano a separare l'autorità spirituale da quella temporale. La ragione principale per questa separazione era che gli ebrei possedevano, nell'istituzione della profezia, un terza forma di autorità che, anche se era spesso al servizio dei sacerdoti o dei re, si distingueva dalle altre due. La funzione della profezia era di ricordare agli uomini il loro rapporto contrattuale con Dio, in altre parole era di continuare a ribadire il mito originale.



Dall'insegnamento dei profeti derivò lo sviluppo della legge e della successiva letteratura sapienziale. Ma anche se il codice del Dueteronomio dà per scontate grandi differenze di ricchezza e posizione all'interno della società, compreso lo schiavismo, l'insistenza profetica sul mantenimento della forma di un rapporto originale diretto con Dio sembra esercitare una forza egualitaria. L'insegnamento specifico dei profeti, per esempio di Amos, è pieno di denunce delle «grandi dimore» e dei ricchi che calpestano il volto dei poveri. t come se l'età degli dei e l'età degli uomini fossero unite in una specie di causa comune contro la tirannide degli eroi. Allo stesso modo la tirannide degli eroi è ciò che rinasce con la mancanza di vigore che mette in modo il ricorso, quando il potere degli uomini si arrende ai dittatori o ai «re» di Vico.



La tradizione biblica, allora, se sono nel giusto, ha tre elementi mitologici che ho cercato di estrapolare dal Vico, o che considero impliciti in lui: i due sviluppi centrifughi della legge e della sapienza, e una ristrutturazione immaginativa interna del mito originale nella profezia. Le strutture della legge e della sapienza sono, per così dire, in un rapporto orizzontale con la società: sono sostenute da quella che secondo me è l'ansia della continuità. Da qui il risalto dato, nelle monarchie, e nelle democrazie, alla successione ereditaria, alle prossime elezioni e al nuovo leader. Lo stesso avviene per la religione, la cui forza propellente è la costante ripetizione dello stesso rito. La profezia, d'altro canto, si afferma nella società in modo verticale e discontinuo, presentando una visione trascendente dell'ordine sociale da cui proviene. Il suo simbolo biblico è il profeta nelle terre disabitate, la voce che grida nel deserto.



Ma una volta che una rilevazione profetica è accettata dalla società ed entra a far parte dell'ordine costituito, non ci possono più essere profeti, nel senso di visionari trascendentali, all'interno di tale ordine. Le strutture della legge e della sapienza hanno il completo sopravvento, e i mutamenti sociali avvengono -con uno sviluppo evolutivo e continuo. Il cristianesimo medioevale aveva il suo Sommo Re e il suo Sommo Sacerdote nell'imperatore e nel papa, ma non possedeva una tradizione profetica riconosciuta. La libertà della profezia era una delle cose che stavano particolarmente a cuore alla riforma protestante, ma non si può certo dire che il protestantesimo abbia conseguito tale libertà: i suoi profeti erano i predicatori, che continuavano a muoversi all'interno dell'orbita sacerdotale, o, come disse Milton, il nuovo «presbitero» era il vecchio «prete» scritto a caratteri cubitali. All'interno di qualsiasi ordine sociale, comunque sia costituito, ci possono essere miglioramento e sviluppo, nuove strategie per nuove occasioni, critica sociale, ri-creazioni individuali o mistiche della visione originale. Ma per definizione e per ipotesi, nulla può trascendere la rivelazione della Torah o del Vangelo o del Corano o degli scritti di Marx: tutto ciò che sembra trascenderla è solo un'eresia, un vecchio errore sotto nuove spoglie.



Oggi questa sensazione è intollerabile per molti, perlomeno in uno Stato democratico, e una delle caratteristiche del nostro tempo è un'ansiosa ricerca di qualche tipo di visione profetica o trascendente dell'ordine sociale. Ancora una volta assistiamo all'intensificazione di qualcosa che è in noi da molto tempo. Il protestantesimo, come ho detto, non è riuscito a liberare la profezia, ma ha prodotto alcune straordinarie figure profetiche, tra cui Milton. L'Aeropagitica di Milton mi sembra rappresenti una svolta nella storia della cultura occidentale a questo riguardo. Si tratta di un attacco contro la censura e di una difesa della libertà di stampa che è forse meno importante come tale che come primo suggerimento che il potere della profezia inizia dalla stampatrice piuttosto che dal pulpito, da un contesto secolare piuttosto che sacerdotale. Da ciò si può allargare il discorso al principio generale che è più probabile che il profeta emerga da un settore non riconosciuto della società, da un luogo che la società ha trascurato o ha dimenticato di recintare e proteggere.



A partire per lo meno dal periodo romantico, tendiamo a riconoscere un'autorità profetica alla letteratura e alle arti in genere. Alcuni scrittori, soprattutto della generazione di T.S. Eliot e di T. E. Hulme, hanno cercato in tutti i modi di rinunciare a questo atteggiamento, ma di solito è risultato che essi non erano altro che profeti in abito borghese. I profeti originali erano estatici che cadevano in trance e parlavano con voci diverse, e il loro prestigio aveva molto a che fare con la reverenza primitiva per gli stati mentali abnormi. Così Samuele dice a Saul: Avverrà che come tu entrerai nella città, incontrerai un gruppo di profeti che scenderanno giù dall'altura... e profetizzeranno. Lo spirito del Signore investirà anche te, e ti metterai a fare il profeta insieme con loro e sarai trasformato in un altro uomo.



Il fatto che il potere creativo provenga da un'area della mente che sembra essere indipendente dalla volontà cosciente, e spesso emerge trascinando nella sua scia molti disturbi emotivi, fornisce la principale analogia tra la profezia e le arti. Gli artisti creativi che più istintivamente chiamiamo profetici o riconosciamo come tali, ovvero Nietzsche, Rimbaud, Blake, Vari Gogh, Dostoevskij, Strindberg, esemplificano molto chiaramente tale analogia. Alcuni perseguono la totalità e l'integrazione, altri finiscono per disintegrarsi, ma i frammenti che vengono salvati dalla disintegrazione di questi ultimi sono di un'intesità che non verrà mai raggiunta dai primi.



L'aspetto profetico delle arti, inoltre, si riflette nella grande difficoltà con cui la società assorbe le persone creative. Viene subito in mente la feroce persecuzione di un gran numero dei migliori scrittori russi da parte della burocrazia sovietica, ma ci sono molti paralleli anche negli Stati democratici. Allo stesso tempo se la voce profetica viene così frequentemente dall'outsider, ne consegue che la più efficace difesa della società contro la profezia è la tolleranza. Il fatto che la nostra società se ne rende conto ha contribuito a creare una preoccupazione quasi ossessiva per le sub-culture o contro-culture delle varie minoranze: i neri i meticci, gli omosessuali, i terroristi, i drogati, gli occultisti, gli yogi, ecc., dovunque sia ancora possibile scorgere un caso di ostilità o discriminazione sociale. Lo stesso avviene con la riscoperta del dadaismo e di altri movimenti che sfociano nell'attivismo anarchico. Leggiamo nell'Antico Testamento di profeti che usarono vari stratagemmi emblematici per dare forza ai propri oracoli:



E Sedecia, figlio di Chenaana, gli fece coma di ferro e disse: «Così disse il Signore, 'Con queste respingerai i siriani finché li avrai distrutti'».



Sembra esservi qualche analogia fra episodi come questo e la breve moda dell'«happening», quando, ad esempio, grossi blocchi di ghiaccio venivano posti agli angoli di strada a Los Angeles e lasciati là a sciogliersi, presumibilmente come emblema della civiltà californiana.



D'altronde, molti grandi scrittori non soltanto sono stati dei nevrotici ma sono stati ritenuti pazzi, come Blake, o internati in manicomi, come Ezra Pound. Il presupposto del termine «pazzo», che costituisce un giudizio sociale, è che la società nel suo complesso sia sempre sana di mente, un presupposto difficile da accettare nel ventesimo secolo. Ci viene detto, da R.D. Laing e altri, non solo che la schizofrenia, ad esempio, può essere una reazione assolutamente normale nei confronti di una società pazza, ma che il segno primitivo dell'autorità profetica della pazzia, l'antico collegamento tra il maniaco e il profetico, potrebbero esser stati più giusti di molte delle nostre nozioni sulla malattia mentale. Ma per quanto utile sia l'autocritica implicita nell'esplorazione di ogni angolo della società alla ricerca di oracoli ancora inascoltati, sarebbe bene prima di lasciarsi prendere permanentemente dalla. sindrome del secondo avvento, ricordare che c'è un altro aspetto, più tradizionale, nella profezia.



L'Aeropagitica di Milton è ancora una volta importante a questo riguardo. Fu scritta quando Milton stava meditando l'argomento della sua epica, e stava lentamente passando dall'idea della storia di Artù alla storia di Adamo. Il Paradise Lost rinarra uno dei miti originali della cultura di Milton in modo da farne una parabola del fallimento del movimento rivoluzionario del suo tempo e, di converso, del fallimento di ogni tentativo di un'età degli uomini di preservare la propria libertà senza l'aiuto, -di un tipo di potere quale è simboleggiato nel poema dal Figlio di Dio. Significativamente, tale fallimento tornò al punto di partenza, dalla ribellione contro Carlo 1, all'accettazione di Carlo Il. Giuste o sbagliate che fossero le sue idee, il poema di Milton illustra il curioso legame, che troviamo implicito nelle argomentazioni di Vico, tra l'età degli dei e l'età degli uomini. La storia di Adamo, infatti, è la storia di Ognuno, che dopo essere stato escluso dal Paradiso continua a ritornare sui suoi passi perché ha perso la direzione, e tuttavia non perde mai la speranza di un ritorno finale a qualche cosa che non è l'inizio di un altro ciclo. L'eroe del Paradise Lost è una trinità umana costituita da Cristo, Adamo e lo stesso Milton.. Adamo è l'uomo nel ciclo della storia, Milton è il profeta che ristruttura il mito e rende Cristo e Adamo suoi e nostri contemporanei; Cristo rappresenta il fatto che sebbene l'uomo non abbia una gran voglia di libertà, c'è un potere, identico al suo stesso potere creativo, che è deciso ad imporgliela a forza.



La storia di Artù, d'altra parte, è un tema che appartiene alla convenzione omerica, in cui la funzione principale del poeta è di glorificare un eroe. L'eroe, per tornare a Vico, è un membro della classe dominante che compare come aristocrazia feudale ad un'estremità del ciclo della storia e come divino Cesare o dittatore carismatico all'altra estremità. La glorificazione dell'eroe, allora, implica l'accettazione del ciclo con il suo ricorso come ultimo orizzonte dell'esistenza umana. Non è implicito al riguardo nessun giudizio di valore comparativo, ma la scelta finale di Milton circa l'argomento fu un atto critico e ci aiuta a capire il posto della critica nel processo letterario. Il principio critico in questione è l'identificazione di qualcosa che appartiene alla tradizione letteraria con l'attività che abbiamo chiamata profetica.



Il lavoro della maggior parte degli appartenenti alla classe media, oggi, consiste soprattutto nel contribuire all'inquinamento cartaceo, ovvero ciò che è conosciuto come compilazione di moduli. Mi è molto difficile stare dietro alla valanga di poesia e di narrativa che si produce in Canada, e la maggior parte di queste opere, per quanto siano interessanti in sé, consiste nella compilazione di forme convenzionali, allo stesso modo in cui si compila la denuncia dei redditi. Ma c'è qualcosa di diverso nell'intero processo. Un'opera d'arte è un tentativo di comunicazione immaginativa: se riesce ad esserlo, diventa il punto focale di una comunità. Il critico esiste non tanto per spiegare il poeta quanto per tradurre la letteratura in dialogo continuo con la società.



La parola critico è collegata con la parola crisi, e tutta l'attività consueta del critico ruota intorno ad un momento critico e ad un atto critico che sono sempre lo stesso momento e lo stesso atto per quanto spesso siano ricorrenti. Quest'atto, come ho insistentemente messo in evidenza, non è un atto di giudizio ma di riconoscimento. Se il critico è il giudice, la comunità che egli rappresenta esercita un'autorità suprema sul poeta; ogni creazione umana deve conformarsi alle preoccupazioni delle istituzioni umane. Ma se il critico abbandona il giudizio per il riconoscimento, l'atto di riconoscimento libera qualcosa, nell'energia creatrice umana e perciò aiuta a dare alla comunità il potere di giudicare da sé. Se il critico deve riconoscere il profeta, egli deve naturalmente essere anche profeta; il suo modello è Giovanni Battista, il più grande profeta dei suoi tempi, il cui momento critico coincise con il riconoscimento di un potere ancora più grande del suo. Non intendo dire con questo che la funzione del critico consista nell'attesa che appaia un grande poeta che sarà da lui riconosciuto: praticamente tutto ciò che il critico riconoscerà è già presente. E tanto meno non voglio dire che l'atto critico significativo consista nel riconoscere la supremazia dei poeti sui critici. Questa non è altro che una nozione confusa e assolutamente sbagliata del ruolo del critico.



Il trauma culturale simboleggiato dallo scoppio di tuono vichiano è la proiezione, l'accettazione di un potere misterioso esterno all'uomo, chiamato in un primo tempo volontà degli dei, e poi incarnato in una classe dominante. Man mano che il senso del potere si trasferisce agli uomini, i sensi di colpa che sono un retaggio delle fasi precedenti possono continuare a farsi sentire: ogni scandalo e ogni crimine può contribuire a un crescente senso di fallimento, confusione e disprezzo di sé, finché, prima che ce ne rendiamo conto, ricompare il leader carismatico. Ecco perché è così importante la rielaborazione interiore dei mito originario. Nell'età degli dei apprendiamo che Dio ha creato il giardino dell'Eden per l'uomo, che l'uomo ne è stato cacciato fuori per il suo peccato, e che ora ne è escluso per sempre. Nell'età degli eroi apprendiamo che ci sono immensi parchi o recinti riservati ai nostri grandi uomini, dove essi possono andare a caccia e svagarsi, ma da cui è escluso il resto di noi. Nell'età degli uomini cominciamo ad apprendere, finalmente, qualcosa di ciò che significa la metafora della «creazione».



Il mondo che ci circonda non è recessariamente una creazione: non c'è motivo per cui il mondo in cui viviamo debba avere un inizio e una fine. Ma tutto ciò che è umano è creato: l'uomo ha creato i suoi dei, i suoi governanti, le sue istituzioni, le sue macchine, ed è solo quando egli entra nel mondo creato, attraverso una porta aperta dall'immaginazione di qualcuno, che può partecipare a questo mondo, e sentire che la parola «soggetto», in tutti i suoi contesti, non si applica più a lui. Il senso di libertà e di liberazione che possiamo avere entrando nel mondo creato è così grande che e possiamo anche capire perché le organizzazioni religiose e politiche si preoccupano tanto a proposito del processo creativo e usano ogni pretesto per regolarlo, controllarlo o sbarazzarsene. Ma il critico cerca costantemente di trovare la sua e la nostra via per tornare a quel lampo originario che il trauma del tuono ci ha fatto dimenticare. La porta per entrare nel nostro Eden è ancora chiusa, ma egli ne possiede una chiave e la chiave è l'atto di riconoscimento.



Ho iniziato separando l'uso delle parole per illustrare qualche cosa nell'azione e nel pensiero dal complesso autonomo di parole che esistono in quanto tali. Non si tratta, come ho detto, di due tipi di strutture: ogni struttura verbale ha entrambi gli aspetti. Potremmo distinguerli come ciò che le parole significano e ciò che esse dicono. Lo psicologo Eric Berne, in un popolare manuale chiamato What Do You After You Say Hello?, osserva che quando un bambino apprende dei modelli di comportamento dai genitori, egli non ascolta quanto gli viene detto ma l'imperativo implicito in ciò che gli viene detto. Il principio è molto simile a quello di Frege, a cui fa riferimento Wittgestein, secondo cui ogni asserzione contiene un assunto, e tale assunto è ciò che viene realmente asserito. La società fa la stessa cosa con una rivelazione: chiede non «Che cosa dice?», ma «Che cosa ci dice di fare?». Il profeta, al contrario, è prima di tutto uno che dice e che asserisce, anche quando non pensa a se stesso come alla fonte primaria di ciò che dice.



Come struttura di significato, ogni complesso di parole è un documento ideologico, il prodotto di una condizione sociale e storica specifica nel ciclo della vita umana. In questo contesto non c'è nulla di veramente profetico in un'espressione verbale umana, al di fuori del gruppo che la accetta come una rivelazione. Isaia ha una visione tremenda di Dio che pressa il torchio della sua collera. Ma il suo non è che squallido sciovinismo che gongola per la futura sconfitta di un nemico odiato. Elia sente una voce ancora sommessa dopo il terremoto e il fuoco, ma, storicamente, ciò che gli dice di fare la voce è di liquidare l'opposizione, ovvero sterminare i sacerdoti di Baal. Allo stesso modo, le grandi figure profetiche della letteratura moderna, Rousseau, Swift, Kierkegaard e Dostoevskij, nel loro contesto storico e biografico possono anche non essere stati che dei nevrotici che non avevano la testa a posto. Ciò che e il critico cerca di fare è di condurci da quanto i poeti e i profeti volevano dire, o credevano di voler dire, alla struttura interna di ciò che dicevano. A quel punto la struttura verbale si rovescia come un guanto, il momento presente genera un vortice che ci porta dal mondo del ciclo vichiano al mondo creato.



La letteratura, che include tutte le strutture verbali che arrivano ad essere letterarie nel corso del tempo, dimostra uno straordinario conservatorismo e senso della tradizione e della convenzione, oltre che un'altrettanto straordinaria capacità di rinnovare se stessa. Essa suggerisce quindi che il reale corso della vita umana non può essere né un cerchio chiuso né una linea retta che porta verso direzioni e rischi ignoti, ma un ciclo aperto e in espansione, i cui stadi possono essere simultanei oltre che temporali. Le età degli dei e degli uomini sono i poli opposti del ciclo. Ad una estremità c'è il senso di un mistero infinito ed eterno, all'altra il senso di possibilità illimitate. In tutta la letteratura il tono che ho chiamato profetico continua a echeggiare il senso dell'infinito e dell'eterno, non come ciò che è significato, ma come ciò che è detto nonostante ciò che è significato. Nella Bibbia ci sono riferimenti a una profezia che deve essere sigillata e tenuta nascosta finché venga il suo tempo. Quel tempo viene quando nell'età degli uomini gli dei divengono il nome di poteri umani che appartengono a noi e che noi possiamo in parte riconquistare. In ultima analisi, tutta la critica è critica sociale e mentre è compito dell'immaginazione creativa dire, con Eliot, «Non pensare al frutto dell'azione», è, compito dell'intelligenza critica, nel riconoscerla e nel rispondere ad essa, assicurare che almeno qualcosa dell'atto essenziale della creazione dia frutti.

Si deve pretendere la verità

ingeborg bachmanndi Ingeborg Bachmann

DIE WAHRHEIT IST DEM MENSCHEN ZUMUTBAR (1959)

discorso per il conferimento dell'Hörspielspreis des Kriegsblinden



Lo scrittore - e questo è nella sua natura - si augura di essere ascoltato. E però gli appare meraviglioso accorgersi un giorno che comincia ad avere degli effetti, e tanto più quanto sa di poter dire poco di consolante ad uomini che hanno bisogno di una consolazione come solo possono averlo quelli che sono feriti, dilaniati e pieni di quel grande e segreto dolore con cui l'uomo si distingue tra tutte le altre creature. È una distinzione terribile e incomprensibile. E se davvero dobbiamo sopportarla e imparare a convivere con essa, come dovrebbe apparire questa consolazione e cosa dovrebbe significare per noi? È infatti impossibile, io credo, pretendere di costruirla con parole. Sarebbe sempre troppo misera, troppo a buon mercato, troppo provvisoria.



E così il compito dello scrittore non può consistere nel negare il dolore, nel cancellarne le tracce, nel fingere che non esista. Per lui, anzi, il dolore deve essere vero e deve essere reso tale una seconda volta, cosicché noi possiamo vederlo. Perché noi tutti vogliamo diventare vedenti. E solo dopo aver provato quel dolore segreto possiamo sentire (in modo diverso) ogni esperienza, ed in particolare quella della verità. Quando giungiamo a questo stato in cui il dolore diventa fertile, stato che è insieme chiaro e triste, noi diciamo, molto semplicemente, ma a ragione: mi si sono aperti gli occhi. E non lo diciamo perché abbiamo davvero percepito esteriormente un oggetto o un avvenimento, ma proprio perché comprendiamo ciò che non possiamo vedere. E l'arte dovrebbe portare a questo: far sì che, in tal senso, i nostri occhi si aprano.



Lo scrittore - e anche questo è nella sua natura - è rivolto con tutto se stesso ad un Tu, all'uomo al quale vorrebbe far giungere la sua esperienza degli uomini (o la sua esperienza delle cose, del mondo e del suo tempo, sì, anche di tutte queste cose insieme!). Ma soprattutto egli vuole che giunga la sua esperienza dell'uomo che egli stesso o altri possono essere nel momento in cui sono al massimo grado uomini. Con tutti i sensi vigili, egli cerca di delineare la forma del mondo, i tratti dell'uomo in questo tempo. Come ci si pone rispetto ai sentimenti, che cosa si pensa e come si agisce? Quali sono le passioni, quali le preoccupazioni, le speranze...?



Nel mio radiodramma Der gute Gott von Manhattan tutte le questioni si riducono alla questione dell'amore tra uomo e donna e a che cosa sia, a come proceda e a quanto grande possa essere; e certamente si potrebbe obbiettare che questo è un caso limite, che qui si va troppo oltre...



Ma in ogni caso, anche nel più quotidiano degli amori, si trova il caso limite che noi possiamo scorgere ad un'osservazione più prossima - e che forse dovremmo sforzarci di scorgere. Perché in tutto quel che facciamo, pensiamo e sentiamo vorremmo talvolta giungere fino al punto più estremo. In noi si sveglia il desiderio di oltrepassare i limiti che ci sono imposti. Non per contraddirmi, ma per essere il più chiara possibile, vorrei dire che anche per me è evidente che dobbiamo rimanere nell'ordine, che non esiste una via d'uscita dalla società e che dobbiamo confrontarci fra di noi. Ma, all'interno dei limiti, abbiamo lo sguardo rivolto a ciò che è perfetto, impossibile, irraggiungibile, che sia nell'amore, nella libertà o in qualche altro valore puro. Nel contrasto tra possibile e impossibile ampliamo le nostre possibilità. E secondo me ciò dipende dal fatto che noi stessi produciamo questo rapporto di tensione che ci fa crescere; che tendiamo ad una meta che veramente si allontana ogni volta che noi ci avviciniamo ad essa.



Come lo scrittore cerca con le sue opere di indirizzare gli altri verso la verità, cosi anche gli altri gli fanno capire, con le lodi e il biasimo, che da lui si aspettano la verità e che vogliono giungere in quello stadio in cui si aprono loro gli occhi. Si può infatti pretendere la verità.



Chi, se non quelli tra voi che hanno dovuto patire un triste destino, potrebbe comprendere meglio che la nostra forza è più grande della nostra sfortuna, che, anche se privati di molto, si riesce a rimanere in piedi, che si riesce ad essere delusi, che cioè si riesce a vivere senza farsi illusioni. Credo che all'uomo sia concessa una specie di orgoglio, l'orgoglio di chi, nella buia prigione del mondo, non si dà per vinto e non smette di cercare ciò che è giusto.



Una pausa di riflessione tra due occupazioni, come quella odierna, è allo stesso tempo l'occasione per un ringraziamento; per quanto mi concerne, desidero ringraziarvi per le molte domande che certamente mi rivolgerete e che potranno tentare di diventare risposte ad occupazioni e sforzi sempre nuovi. Vi ringrazio dunque per l'onore che oggi mi fate. E, dal momento che, quando si ringrazia, non lo si fa in generale, desidero rivolgermi in particolare a quanti hanno reso possibile il mio lavoro e quello di altri autori grazie alla loro generosità verso le stazioni radiofoniche tedesche; e inoltre a tutti gli ascoltatori che ho trovato, quelli sconosciuti, di cui non so il nome. Ma soprattutto ai ciechi di guerra, che molto più degli altri hanno caro prestano attenzione alla parola e che ad essa in quanto istanza degna di lode, dedicano questo premio.



Vi sono molto grata.

(traduzione di Bruno Ruffilli)

A che cosa "serve" la letteratura?

L'intervento al Convegno "A che cosa serve la letteratura?" (Reggio Calabria, 20 e 21 febbraio 2004) del critico letterario Antonio Spadaro, autore del saggio "A che cosa serve la letteratura" (ElleDiCi - La Civiltà Cattolica, 2002), Premio Capri 2002 per la sezione "Letteratura" e Premio Crotone 2002 per la sezione giovani critici. [gli altri interventi del convegno li trovate qui] [la versione stampabile di questo testo è qui]

di Antonio Spadaro



A che cosa «serve» la letteratura? La letteratura col suo immenso patrimonio di storie, immagini, suoni, personaggi… a che serve? a che mi serve? Si chiedeva (ed io con lui) Charles Du Bos: «che cos’è la letteratura, la letteratura degna del nome, la sola che ci riguardi e che abbia sempre avuto un valore per me?» . Quel «per me» non è affatto da trascurare. Anzi: la particella pronominale «mi», cioè «a me», regge tutta la domanda e dunque ne porta il peso.

L’ultima poesia di Raymond Carver ci fa comprendere come la poesia è utile se si confronta con ciò che vogliamo veramente da questa vita:



ULTIMO FRAMMENTO



E hai ottenuto quello che

volevi da questa vita, nonostante tutto



E cos’è che volevi?

Potermi dire amato, sentirmi

amato sulla terra



La poesia serve a dire o ad ascoltare come queste. Molti però al solo sentir parlare di un «servizio» della letteratura, pensano a una «letteratura di servizio» o, peggio ancora a una letteratura «a servizio» di qualcosa e dunque asservita.

Il rapporto tra la vita e la letteratura è sempre stato inquieto e complesso. Si potrebbe scrivere una vera e propria storia di questa relazione che è stata ora affermata e ora negata, ora desiderata e ora respinta. Tuttavia nel breve spazio del mio intervento mi limiterò solamente a intrecciare i sentieri di alcuni autori. Caverò dalle loro opere poche tessere utili per un mosaico. Il risultato finale corrisponderà all’immagine dell’esperienza letteraria che sento vicina.



Jean Cocteau scrisse a Jacques Maritain: «La letteratura è impossibile, bisogna uscirne, ed è inutile cercare di tirarsene fuori con la letteratura perché solo l’amore e la Fede ci consentono di uscire da noi stessi» . Ma per andar dove? Probabilmente per uscire dal narcisismo dell’«interiorità» autoreferenziale. Pier Vittorio Tondelli, scrittore scomparso nel 1991 a soli 36 anni per aids, scrisse tra i suoi ultimi appunti: «La letteratura non salva, mai». Sono parole che ricordano drammaticamente anche gli ultimi versi di Clemente Rebora: Lungi da me la scappatoia dell’arte/ per fuggir la stretta via che salva! L’arte sarebbe dunque una scappatoia. Sarebbe una forma di tragica consolazione, che confina con la percezione leopardiana dell’infinita vanità del tutto. È Stephane Mallarmé a mettere in relazione la tristezza della carne (La chair est triste, hélas!) con la vanità della lettura di tous les livres. Che farsene di parole scarse, e forse senza sole, come le definiva Sandro Penna, o di qualche storta sillaba e secca come un ramo (Montale)? È tutta qui la poesia, la letteratura?

Per rispondere, vorrei accostarmi a Marcel Proust. A suo giudizio, infatti, la letteratura è una forma di «ritiro», in cui, nella solitudine, si fanno «tacere le parole», le nostre e quelle degli altri, con le quali giudichiamo le cose e la vita «senza essere noi stessi» . Ma questo ritiro non è forse anche un ritirarsi, cioè un «ritrarsi» dalla vita? In effetti, all’interno dello spazio aperto dal libro, Proust nota come i suoi pomeriggi dedicati alla lettura contenessero «più avvenimenti drammatici di quanti non ne contenga, spesso, un’intera vita» . Erano gli avvenimenti che si susseguivano nel libro che stava leggendo. Sorgono quindi due domande interessanti: la vita dunque contiene meno vita della letteratura? La letteratura è più vita della vita stessa?

Sembra in effetti che la letteratura sostituisca la vita o che almeno riesca a rimpiazzare momenti d’inedia trasformandoli in minuti, ore, giorni di pura avventura. L’autore della Recherche afferma infatti che in qualche modo i pomeriggi dedicati alla lettura appaiono come «accuratamente ripuliti dai mediocri incidenti della mia esistenza personale che avevo rimpiazzati con una vita di strane avventure e aspirazioni in un paese irrorato d’acque vive!» . Ecco allora che il romanziere «scatena in noi nello spazio di un’ora tutte le possibili gioie e sventure che, nella vita, impiegheremmo anni interi a conoscere in minima parte» .

In realtà la letteratura non serve a sostituire la vita. Semmai è vero che ci sono aspetti della vita che spesso noi conosciamo solo nella lettura . La grandezza dell’arte vera infatti è quella «di ritrovare, di riafferrare, di farci conoscere quella realtà lontani dalla quale viviamo, […] quella realtà che rischieremmo di morire senza aver conosciuta e che è, molto semplicemente, la nostra vita» . Dunque, in sintesi: l’arte ci fa conoscere la vita, al di là della conoscenza convenzionale che di essa abbiamo. Ma allora come la letteratura ci fa conoscere la vita?



Risponderò a questa immagine attraverso quattro immagini…



La prima è l’immagine del laboratorio fotografico. L’opera letteraria, scrive Proust, è «una sorta di strumento ottico», che consente al lettore di «sviluppare» ciò che forse, senza il libro, non avrebbe osservato dentro di sé . Il ruolo della lettura è fotografico: gli uomini spesso non vedono la loro vita e così il loro passato diviene ingombro di tante lastre fotografiche, che rimangono inutili perché l’intelligenza non le ha «sviluppate» . La letteratura invece è come un laboratorio fotografico, nel quale è possibile elaborare le immagini della vita perché svelino i loro contorni e le loro sfumature. Ecco dunque a cosa «serve» fondamentalmente la letteratura: a sviluppare le immagini della vita, a salvare la nostra esistenza dall’incomprensibilità.

Ma, possiamo chiederci, come è possibile? La letteratura non mi parla della mia vita, ma di storie di altri. Appunto: la passione per la lettura richiede delle condizioni, vi è uno «straniamento», per il quale il mondo in cui ci si immerge nella lettura non è più il nostro, il solito (la Yourcenar e i suoi lettori entrano nel tempo di Adriano, come i lettori di Kafka si muovono verso l’irragiungibile Castello e i lettori di Carroll entrano nel Paese delle meraviglie,…).

Tuttavia è proprio a partire dalla cripta del testo letterario e dai suoi sotterranei che è possibile rimettere in questione sia la nostra percezione comune delle cose sia la nostra personale esistenza in un gioco di interpretazioni e significati colti con maggiore chiarezza. Ecco allora la via per comprendere la virtù paradossale della lettura: «quella di astrarci dal mondo per trovargli un senso» , entrare in un mondo diverso rispetto a quello della nostra vita per discernere il senso proprio del nostro mondo.

W. Wenders nella sceneggiatura di Lisbon story ci aiuta a capire. Nel film il protagonista è un regista che intende girare le sue immagini mediante una telecamera con l’obiettivo poggiato sulle spalle per riprendere scene mai viste, neanche da chi «gira». Ecco la risposta del suo amico e tecnico del suono: «Se nessuno guarda attraverso la lente, ecco quello che vedranno su questi dannati video le generazioni future: il punto di vista di nessuno. Non c’è ragione di fare immagini spazzatura da buttare un minuto dopo».



Ecco allora la seconda immagine, quella tratta dall’idraulica: si chiedeva Charles Du Bos: «senza la letteratura cosa sarebbe la vita?». La risposta che ci offre sembra eccessiva e tuttavia resta appropriata nella sua ispirazione fondamentale. Eccola: «Non sarebbe altro che una cascata da cui tanti di noi sono sommersi, talmente insensata che noi, incapaci di interpretare, ci limitiamo a subire. Di fronte a tale cascata, la letteratura assolve le funzioni dell’idraulica: capta, raccoglie, convoglia e solleva le acque» . In poche parole: senza la letteratura, la vita rischierebbe di restare «a secco».

La letteratura, rimanendo nella metafora, incontra l’uomo/lettore sotto il pelo dell’acqua che è quel prosaico e scialbo significato letterale, quella «letteralità» che «uccide», come ricorda san Paolo. La vita letteralizzata è quella ridotta al senso comune, all’apparenza, alla banalità illuministica della superficie.



Ecco infine la terza immagine, quella digestiva. Il rapporto tra letteratura e realtà è intenso e coinvolgente. È il gesuita Michel De Certeau a ricordare come la lettura abbia un ruolo di elaborazione «digestiva»: «la ruminatio della mucca ne è il modello», egli afferma ricordando Guillaume de Saint-Thierry e J.-J. Surin, il quale a sua volta parla di «stomaco dell’anima».

Si può elaborare una vera e propria «fisiologia della lettura digestiva» . Proseguendo su questa linea si può dire che anche che la lettura sia uno «stomaco per digerire la realtà». In altri termini possiamo parlare di «assimilazione». La letteratura è quel linguaggio capace di trasformare in sé il mondo e le esperienze .

Ecco dunque a cosa «serve» fondamentalmente (ci sono tanti altri «servizi», ma vengono dopo) la letteratura: a dire la nostra presenza nel mondo, a interpretarla e «digerirla», a cogliere ciò che va oltre la superficie del vissuto per discernere in essa significati e tensioni fondamentali.



Così la vera letteratura non è mai di «evasione». Chi scrive prende posto nell’universo e, a partire da questa posizione, in modo realistico, fantastico, utopico o satirico, elabora il proprio mondo, reinterpretandolo, amandolo o contestandolo. Ogni poesia, ogni racconto, ogni romanzo è un atto critico nei confronti della vita. La letteratura offre a una vita ridotta al suo puro «senso letterale», un punto di fuga. Cioè: la letteratura dischiude il mondo nel quale si vive e fa scoprire la sua ricchezza.

La letteratura non è dunque «fuga» dal mondo, dalle cose, in un’interiorità tanto ricca, quanto vaga e a forte rischio di autoreferenzialità. La verità della letteratura è sempre una verità di fatti, di cose e di relazioni tra cose e persone. «Niente idee se non nelle cose (No Ideas but in Things)», scriveva Williams Carlos Williams, superato da Wallace Stevence che afferma: «niente idee sulle cose, ma le cose stesse (Not Ideas about the Thing but the Thing Itself)».

Se così non fosse, la letteratura sarebbe una «evasione» inutile e vana. Dunque la «fuga» è verso l’interno, verso il misterium, che ha il suo secretum nel mondo, nelle cose dense e pastose, materiali. L’evasione genera la visibilità calviniana, giocosa ma inutile. Qui invece sto parlando di visio, la visio dantesca, ad esempio, che è «luce intellettual, piena d’amore;/ amor di vero ben, pien di delizia,/ delizia che trascende ogni dolzore» (Paradiso XXX, 40-42).

Lo scrittore, dunque, è chiamato ad avere una visione (anagogica) del mondo capace di intuire più livelli di realtà in un’immagine o in una situazione. Egli vede prima in superficie, ma la sua angolazione visiva è tale che comincia a vedere prima di arrivare alla superficie e continua a vedere dopo averla oltrepassata. Ha ragione Flannery O’Connor quando afferma che allo scrittore è necessario un certain grain of stupidity, un «granello di stupidità», che serve a tenere gli occhi imbambolati (to stare) sul reale .



Vi faccio due semplici esempi poetici. Il primo è una poesia di William Carlos Williams dal titolo



IRIS

uno scoppio d’iris così (a burnst of iris so that)

scesi per la

colazione



esplorammo tutte le

stanze in cerca

di



quel profumo dolcissimo e da

prima non riuscimmo a

scoprirne la



sorgente poi un azzurro come

di mare ci

colse



in sussulto improvviso di tra

gli squillanti (trumpeting)

petali (petals)



Ecco un’altra poesia. E’ del messinese Bartolo Cattafi:



COSTRIZIONE

Siamo ora costretti al concreto

a una crosta di terra

a una sosta d’insetto

nel divampante segreto del papavero



Ecco la quarta immagine, quella esplosiva. La due poesie fin qui lette sono esplosive e, in questa esplosione, comunicano quella che Wallace Stevens definì semplicemente «Una nuova conoscenza del reale (A new knowledge of reality)». Colgono un’immagine e questa, nell’osservazione, esplode: il papavero «divampa», l’iris «scoppia». E’ questa dinamica esplosiva la vera utilità di un’opera d’arte, anche letteraria.



Cosa fa sì allora che un’opera letteraria abbia valore? A mio parere l’esatto contrario di ciò che scriveva Montale nel suo celebre, bello quanto inutile, verso Non domandarci la formula che mondi possa aprirti. Il romanzo di valore possiede in se stesso la formula capace di aprire un mondo cogliendone la sostanza (in senso letterale: ciò che sta sotto, a suo fondamento), ma anche assistere alla sua espansione, alla sua «dichiarazione», per usare ancora un termine di Montale. Se un romanzo, un racconto o una poesia non dichiara un mondo e non lo spalanca davanti al lettore – non importa se in modo realista, o surrealista – non fa compiere al lettore una vera esperienza, non fa conoscere nulla: è vuoto e noia. Anche Montale ha visto un «croco», coglie la sua grazia, ma l’esplosione fallisce, resta il silenzio, la grazia rimane sorda. Rimane la polvere:



Non chiederci la parola che squadri da ogni lato

l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco

lo dichiari e risplenda come un croco

perduto in mezzo a un polveroso prato.



L’opera letteraria che non apre mondi può ridursi solo a polvere e cioè a tre cose: a ideologia, a sentimentalismo o a «esperimento» linguistico. Polvere, appunto.

E invece la letteratura ha un altro destino. La poesia può addirittura… pensate un po’… prendere il posto di una montagna. E’ l’esperienza del poeta statunitense Wallace Stevens in La poesia che prese il posto di un monte (The Poem that Took the Place of a Mountain). Qui il poeta parla di sé in terza persona, come «egli»:



LA POESIA CHE PRESE IL POSTO DI UN MONTE

Era là, parola per parola,

La poesia che prese il posto di un monte.



Egli ne respirava l’ossigeno,

Perfino quando il libro stava rivoltato nella polvere del tavolo.



Gli ricordava come avesse avuto bisogno

Di un luogo da raggiungere nella sua direzione,



Come egli avesse ricomposto i pini,

Spostando le rocce e trovato un sentiero fra le nuvole,



Per giungere al punto d’osservazione giusto,

Dove egli sarebbe stato completo di una completezza inspiegata:



La roccia esatta dove le sue inesattezze

Scoprissero, alla fine, la vista che erano andate guadagnando,



Dove egli potesse coricarsi e, fissando in basso il mare,

Riconoscere la sua unica e solitaria casa.



La letteratura dunque non è chiamata a consegnare una parola rinsecchita, ma a permettere una scalata. Scrivere per Stevens è come scalare un monte, avere una direzione, ricordare che c’è una meta, una exact rock, cioè una «roccia esatta», da raggiungere, nonostante tutte le nostre inesattezze. Questa è la scrittura umana, vera, ricca di senso, quella che procede affilata e dritta come una freccia e sa così persino spaccare le rocce e spostare i pini, pur di non perdere la forza della sua direzione. Una scrittura senza una «roccia esatta» da raggiungere è una macchia su carta porosa, stagno inutile e sciolto.

Ecco allora la domanda da porsi davanti a una poesia o a una narrazione: qual è la sua «roccia esatta»? Dove sta andando? Dove mi porta? Quale meta mi indica? E con quale forza? Con quale sguardo? Lo scrittore autentico sa spostare le rocce e trovare sentieri tra le nuvole per guadagnare la vista giusta, il giusto punto di osservazione dove si ottiene una pienezza, una completezza che, dice Stevens, resta inspiegabile.

Solo «affacciandoci» dalla vera poesia possiamo guardare in basso e riconoscere la nostra casa. Ecco, ancora una volta, il servizio della letteratura. La letteratura invece è complice insostituibile di un esercizio interiore che dà respiro e consistenza alla vita. A questo punto a me lettore che parlo e a voi lettori che mi avete ascoltato il grande Giacomo Debenedetti direbbe che qui «si tratta anche di te» .

Stephen King in DVD

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Finalmente in edicola arriva pure la collezione dei film tratti dalle opere di Stephen King in dvd, un'altra opera De Agostini. Il sito della raccolta è questo, questa invece la lista di tutte e ventiquattro le uscite previste.



Io li ho registrati tutti negli anni 90, su VHS Sony, iniziando proprio da IT, che strizza! avevo otto o nove anni, la scena della discesa nelle fogne e le mutazioni del pagliaccio mi provocarono semestri di incubi, iniziai la prima dieta dopo aver letto proprio IT, 1238 pagine, "un capolavoro ad un passo dalla Divina Commedia", scrisse Tiziano Sclavi nell'almanacco della paura 1998 (tutta una monografia sul re di Bangor).



La mia lettura e come essa ha influito sul resto della mia vita di macchiafogli l'ho raccontata qui.

Una versione romanzata della dieta la trovate, invece, qui.



(King su wikipedia)