31/10/06

E l'avventura di BombaCarta continua

Andrea Monda, tolkeniano di prim'ordine, continua a realizzare i suoi particolarissimi resoconti sull'annuale incontro dei rappresentati delle varie realtà della Federazione BombaCarta.

L'anno scorso eravamo rimasti qui. Ecco il seguito:




Il concilio di Spadaro



 “Questo è il motivo per il quale siete stati tutti chiamati qui. Chiamati, dico, pur non avendovi io chiamati a me, stranieri di remoti paesi. Siete venuti e vi siete incontrati, in questo breve lasso di tempo, parrebbe quasi per caso. Eppur non è così. Sappiate che è stato ordinato che noi seduti in questo luogo, noi e non altri dobbiamo trovare una soluzione al pericolo che corre il mondo”
.

Così il saggio Elrond introduce il Concilio da lui convocato. Così, più o meno, poteva introdurre i lavori anche Antonio Spadaro domenica 29 ottobre, all’inizio del secondo Concilio di BombaCarta.



Per fortuna non c’era da “trovare una soluzione al pericolo che corre il mondo” ma c’erano, questo sì,  diversi partecipanti “stranieri di remoti paesi”.



C’era Alessio, dalla landa di Urbino, nobile e solitario, Alessio dei Lincei, cavaliere senza macchia e senza paura, intento a lottare con i giganti e gli orchi delle banche e delle istituzioni pubbliche, forse sconfitto ma mai domo. Un esempio da seguire, che incoraggia e deve essere incoraggiato.



C’era l’allegra brigata sicula, capitanata dal buon Tonino, spavaldo ed energico come al solito, contagioso e coinvolgente, con tre splendidi cavalieri al suo seguito (e la deliziosa Maria al suo fianco). Una brigata fragorosa, vitale,stimolante. Il regno del Sud si allarga, anche Catania è caduta.



C’era Maria, inviata da Dama Tita in persona, umile e forte, decisa e accogliente, grata e fiduciosa. Un’iniezione di allegra determinazione, proprio come la Dama di Reggio ha sempre portato con sé. Il grande evento di Reggio anche quest’anno si farà, ormai è più che una realtà! C’era, sempre dalla dura e splendida terra calabra, la tenace Angela, onesta e battagliera, che con forza e franchezza ha descritto l’agonistica situazione delle terre del Sud chiedendo lumi e aiuti. All’unisono il Concilio guidato da Antonio si è stretto intorno alla voce reclamante soccorso.



C’era Paola, dalla lontana Taranto. Una nuova potenza si erge a Est, Officine Meridiane il suo nome: una promessa, una scommessa, una nuova forza che lietamente si unisce alla Compagnia!



C’era Anna Maria, una sicurezza, baluardo del Nord su nel Trentino, con sagacia e bonomia  tutta meridionale, partenopea. Anna Maria, la mora del Nord! Grande smistatrice delle informazioni, controlla tutti i corrieri e tutte le fonti di notizie, nulla sfugge al suo occhio accorto e vigile. La Compagnia può dormire tranquilla: la frontiera settentrionale è controllata e monitorata con materna sollecitudine. C’era Gabriele, con la dolce Chiara (e l’ombra rassicurante del gigante Angelo dietro le spalle) e dal lontano Uboldo altre buone notizie son giunte. Ulisse naviga con forza e sagacia, i mari più tranquilli si sono fatti e tutto è pronto per nuove imprese, grandi ardimenti, insperate conquiste.



C‘era Rosa Elisa, la Rosa della Compagnia. La costa occidentale è in buone, ferme e solide mani. La saggezza di Rosa è garanzia per tutti. Dolce, rassicurante, forte e profonda…nella sua pacatezza tutti i membri del Concilio hanno trovato stimolo e conforto. Nuove prospettive si aprono, se Rosa si muove! Genova sarà presto una città “in rosa”! C’era infine Cristiano, il vicino Cristiano. La sua presenza è una consolazione per tutti. Abbiamo una spalla, solida, su cui appoggiarci. L’orizzonte è più ampio, più profondo; le prospettive si aprono, si spalancano, ma non arbitrariamente, bensì con rigore, saggezza.



E così il Concilio condotto da Antonio (con la presenza forte e viva della Compagnia romana, in particolare come non ricordare la dolcezza di Michela e l’arguzia di Domenico?) si è svolto con la serenità di sempre e tutte le tensioni, proprie di ogni incontro vero, si sono affrontate e sciolte grazie alla mano saggia della nostra guida.



A questo punto, se Spadaro è ad un tempo Gandalf e Frodo, e Stas è Sam (e Cecilia è Rosie), la domanda è…ma il responsabile dei grandi eventi chi è? Non mi dire che è quel gran “sola” di Saruman! E, infine, chi è Gollum?

I colori della creatività

Colori, il nuovo tema di BombaCarta

Riprendono i lavori dell'associazione culturale e scuola di espressione creativa fondata da padre Spadaro

di Giulia Rocchi



(da romasette)



Colori. Quello che forse più ci colpisce del visibile, i raggi solari che diventano oggetti, luce, movimento. È questo il tema che accompagnerà, per il 2006-2007, gli amici di BombaCarta, associazione per «l’esercizio e la riflessione sull’espressione creativa», come recita il sottotitolo nella home page del sito internet, fondata dal gesuita padre Antonio Spadaro. «È un “tema generatore” – dice a proposito dell’argomento scelto per il nuovo anno –. Non è un rigido binario lungo cui portare avanti le discussioni, ma serve a ispirare il lavoro futuro». Secondo padre Spadaro, si tratta di «un ponte interessante per comprendere la realtà: essa ci si manifesta attraverso il colore, che invece spesso è visto come qualcosa di accessorio, come un belletto».



La scelta di un tema così evocativo costituisce un segno di distinzione rispetto al passato, in cui gli argomenti erano più precisi. «Il colore consente di muoversi tra diverse arti, non interessa solo quelle visive», sostiene il fondatore di Bombacarta. «Fu proprio un gesuita – ricorda con una punta di orgoglio per la Compagnia a cui appartiene – a parlare per primo del rapporto tra musica e colori: Louis-Bertrand Castel, che nel 1725 presentò un clavicembalo oculare, in cui ad ogni nota corrispondeva un colore». In tal modo anche i sordi, sottolinea padre Spadaro, avrebbero potuto godere di una bella canzone, vedendola rappresentata come un quadro; mentre i ciechi avrebbero ascoltato note melodiose e visualizzato, così, tonalità e sfumature.



Un editoriale spiega ai “bombers” e ai navigatori le motivazioni e le riflessioni che stanno dietro a un concetto «ovvio, da alcuni punti di vista quasi banale» come quello dei colori. Il testo chiarificatore è scritto sia in inglese che in italiano. «Abbiamo deciso di proporlo in due versioni – sottolinea il gesuita – perché da un po’ di tempo abbiamo rapporti con due realtà statunitensi affini alla nostra, di Atlanta e di New York». Si apre anche all’estero, dunque, l’associazione. BombaCarta, in effetti, non «nasce come una scuola con delle sedi prestabilite – continua padre Spadaro – ma come rapporto di amicizia. Lì dove questi rapporti nascono i gruppi si sviluppano».



Dell’importanza dei legami interpersonali si parla anche nel “Manifesto di impegno culturale e creativo” di BombaCarta. «Impariamo l’arte dell’amicizia vivendo l’amicizia per l’arte», si legge infatti. Una frase che riassume lo spirito dell’associazione culturale e scuola di espressione creativa, nata nel 1997 con un obiettivo ben preciso: far uscire fuori dai cassetti di tante private scrivanie i romanzi e le poesie che si trovano nascosti all’interno. Dall’idea originale del fondatore, si è arrivati, in nove anni, a una realtà che coinvolge oltre 380 persone (tanti sono gli iscritti alla mailing list), e dal gruppo di amici si è passati addirittura a costituire una federazione di tante “associazioni gemelle”, sparse qua è là per l’Italia: da Genova a Palermo, da Varese a Urbino, da Reggio Calabria a Trento.



Numerose le attività della federazione. «Un sabato al mese ci si incontra per l’officina creativa – racconta Andrea Monda, uno dei membri del consiglio direttivo – in cui viene declinato attraverso le arti espressive un “sottotema”, se così possiamo chiamarlo, di quello principale scelto per l’anno in corso. In particolare tramite la narrativa e la poesia, ma anche con il cinema o la musica». La riunione è strutturata in modo interattivo, attraverso «workshop che consentono ai partecipanti di interagire tra di loro e con i relatori», continua.

L’officina si svolge sempre all’Istituto Massimo dell’Eur (via Massimiliano Massimo 7, dalle 10.30 alle 17.30), e il primo appuntamento del nuovo anno è previsto per domani, 28 ottobre. Il Centro Chris Cappell di via Tomacelli ospita, invece, i laboratori. Si tratta di incontri settimanali più “pratici”, rivolti a una quindicina di persone al massimo, dedicati alla scrittura creativa, all’autobiografia e alla lettura. Il Centro accoglie anche BombaCinema, a cadenza mensile e diretta proprio da Monda. Che spiega: «Durante le riunioni visioniamo alcune clip tratte da film, poi seguono riflessioni e commenti».

25/10/06

MR Comicus

Un nuovo grande link: il blog di Marco Rizzo. Mio collega di master che ho salvato dalla pioggia ancor prima di scoprire il suo talento.


Leggevo ComicUs senza sapere che la mente empedoclea che l'aveva partorito era nel mio stesso ascensore tra una lezione e l'altra.


Da oggi ufficialmente gli romperò le palle per almeno una sua vignetta su BombaSicilia (o almeno la copertina...)





APPROFONDIMENTI


Intervista a Marco sulle finalità di ComicUs


e un'altra sulla sua rivista "Mono"


 

22/10/06

Il gioco grande. Presentazione a Palermo

Lunedì 30 ottobre alle 18 alla libreria Kursa al Kalhesa, a Palermo in via Foro Umberto I 21, alla presenza del sostituto procuratore di Palermo Antonio Ingroia, dell’onorevole Francesco Forgiane (PRC) e del giornalista Marco Travaglio, sarà presentato “Il gioco grande – Ipotesi su Provenzano” (Editori Riuniti), scritto da Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco. Moderererà Franco Nicastro, presidente dell’Ordine dei giornalisti Sicilia.



Il gioco grande. Ipotesi su Provenzano

Edito da Editori Riuniti, 2006

168 pagine, € 12,00

di Giuseppe Lo Bianco, Sandra Rizza



Quarta di copertina

Quella che i media ci hanno raccontato finora è la «favola» della mafia a una dimensione; la storia minimalista di Provenzano, il padrino di una Cosa nostra arcaica e pre-tecnologica che tra lupara e cicoria ha concluso la sua parabola lontano dagli scenari occulti e ufficiali del potere. I segnali cifrati che filtrano dalle cronache, a partire dalla sua cattura, ci dicono però che Provenzano è qualcosa di diverso, qualcosa di più: l'attor di un gioco grande, di una strategia eversiva che ha portato l'Italia per l'ennesima volta sull'orlo del «golpe», utilizzando Cosa nostra come un plotone di esecuzione, ma soprattutto come un formidabile alibi per scaricarle addosso le responsabilità politiche e giudiziarie della stagione delle stragi.



Questo libro si interroga sul significato del termine «lotta alla mafia», riflette sulla convergenza di interessi tra «lupara proletaria» e «cervello borghese». Quella che offriamo è una lettura diversa, non sempre in linea con gli atteggiamenti ufficiali che formano il comune sentire sull'argomento, al punto che, forse, ai lettori profani, potrà apparire addirittura provocatoria . Ma non c'è altro modo (se non quello, appunto, del ragionamento serrato, della logica spinta alle estreme conseguenze), per stimolare coscienze addormentate, attraverso un'analisi laica, scrollata dei luoghi comuni che sono frutto di chiavi interpretative ormai vecchie.

Enciclopedia della memoria irrilevante

riceviamo e pubblichiamo




Cari amici,  il mio nuovo libro si intitola "ENCICLOPEDIA DELLA MEMORIA IRRILEVANTE" e lo presenterò DOMENICA 29 OTTOBRE alle 18 all'ATELIER MONTEVERGINI di Palermo.

Accorrete numerosi, per favore.

Un saluto


Roberto Alajmo




Il libro è un divertissement, una sorta di zibaldone «di pensieri e ricordi che non servono a niente come la canzoncina di Pippi Calzelunghe, la formazione del Palermo del 1962 e una jingle pubblicitaria». Circa trecento voci elencate alla maniera di un dizionario.




Una mia intervista a Roberto Alajmo la trovate qui.

15/10/06

Buzzati, l'alba del mistero

Il 16 ottobre 2006 Dino Buzzati avrebbe compiuto 100 anni. Abbiamo voluto ricordarlo con uno speciale su Gente d'Italia.

La versione commentabile è disponibile su Vibrisse, il bollettino di letture e scritture curate dallo scrittore e editor Giulio Mozzi



Ecco uno dei più bei racconti di Buzzati, tratto dal volume "Sessanta Racconti"







Sette piani



Dopo un giorno di viaggio in treno, Giuseppe Corte arrivò, una mattina di marzo, alla città dove c'era la famosa casa di cura.

Aveva un po' di febbre, ma volle fare ugualmente a piedi la strada fra la stazione e l'ospedale, portandosi la sua valigetta.

Benché avesse soltanto una leggerissima forma incipiente, Giuseppe Corte era stato consigliato di rivolgersi al celebre sanatorio, dove non si curava che quell'unica malattia. Ciò garantiva un'eccezionale competenza nei medici e la più razionale ed efficace sistemazione d'impianti.

Quando lo scorse da lontano - e lo riconobbe per averne già visto la fotografia in una circolare pubblicitaria - Giuseppe Corte ebbe un'ottima impressione. Il bianco edificio a sette piani era solcato da regolari rientranze che gli davano una fisonomia vaga d'albergo. -

Tutt'attorno era una cinta di alti alberi.

Dopo una sommaria visita medica, in attesa di un esame più accurato Giuseppe Corte fu messo in una gaia camera del settimo ed ultimo piano. I mobili erano chiari e lindi come la tappezzeria, le poltrone erano di legno, i cuscini rivestiti di policrome stoffe.

La vista spaziava su uno dei più bei quartieri della città. Tutto era tranquillo, ospitale e rassicurante.

Giuseppe Corte si mise subito a letto e, accesa la lampadina sopra il capezzale, cominciò a leggere un libro che aveva portato con sé.

Poco dopo entrò un'infermiera per chiedergli se desiderasse qualcosa.

Giuseppe Corte non desiderava nulla ma si mise volentieri a discorrere con la giovane, chiedendo informazioni sulla casa di cura. Seppe così la strana caratteristica di quell'ospedale. I malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. Il settimo, cioè l'ultimo, era per le forme leggerissime. Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo quelli per cui era inutile sperare.

Questo singolare sistema, oltre a sveltire grandemente il servizio impediva che un malato leggero potesse venir turbato dalla vicinanza di un collega in agonia, e garantiva in ogni piano un'atmosfera omogenea.

D'altra parte la cura poteva venir così graduata in modo perfetto.

Ne derivava che gli ammalati erano divisi in sette progressive caste.

Ogni piano era come un piccolo mondo a sé, con le sue particolari regole, con le sue speciali tradizioni. E siccome ogni settore era affidato a un medico diverso, si erano formate, sia pure minime, ma precise differenze nei metodi di cura, nonostante il direttore generale avesse impresso all'istituto un unico fondamentale indirizzo.

Quando l'infermiera fu uscita, Giuseppe Corte, sembrandogli che la febbre fosse scomparsa, raggiunse la finestra e guardò fuori, non per osservare il panorama della città, che pure era nuova per lui, ma nella speranza di scorgere, attraverso le finestre altri ammalati dei piani inferiori. La struttura dell'edificio, a grandi rientranze, permetteva tale genere di osservazione. Soprattutto Giuseppe Corte concentrò la sua attenzione sulle finestre del primo piano che sembravano lontanissime, e che si scorgevano solo di sbieco. Ma non poté vedere nulla di interessante. Nella maggioranza erano ermeticamente sprangate dalle grigie persiane scorrevoli.

Il Corte si accorse che a una finestra di fianco alla sua stava affacciato un uomo. I due si guardarono a lungo con crescente simpatia ma non sapevano come rompere il silenzio. Finalmente Giuseppe Corte si fece coraggio e disse: " Anche lei sta qui da poco?"

" Oh no" fece l'altro, " sono qui già da due mesi..." tacque qualche istante e poi, non sapendo come continuare la conversazione, aggiunse:

" Guardavo giù mio fratello."

" Suo fratello?"

" Sì" spiegò lo sconosciuto. " Siamo entrati insieme, un caso veramente strano, ma lui è andato peggiorando, pensi che adesso è già al quarto."

" Al quarto che cosa?"

" Al quarto piano" spiegò l'individuo e pronunciò le due parole con una tale espressione di commiserazione e di orrore, che Giuseppe Corte restò quasi spaventato.

" Ma son così gravi al quarto piano?" domandò cautamente.

" Oh Dio" fece l'altro scuotendo lentamente la testa, " non sono ancora così disperati, ma c'è comunque poco da stare allegri."

" Ma allora" chiese ancora il Corte, con una scherzosa disinvoltura come di chi accenna a cose tragiche che non lo riguardano, " allora, se al quarto sono già così gravi, al primo chi mettono allora?"

" Oh, al primo sono proprio i moribondi. Laggiù i medici non hanno più niente da fare. C'è solo il prete che lavora. E naturalmente..."

" Ma ce n'è pochi al primo piano" interruppe Giuseppe Corte, come se gli premesse di avere una conferma, " quasi tutte le stanze sono chiuse laggiù."

" Ce n'è pochi, adesso, ma stamattina ce n'erano parecchi" rispose lo sconosciuto con un sottile sorriso. " Dove le persiane sono abbassate là qualcuno è morto da poco. Non vede, del resto, che negli altri piani tutte le imposte sono aperte? Ma mi scusi" aggiunse ritraendosi lentamente, " mi pare che cominci a far freddo. Io ritorno in letto.

Auguri, auguri..."

L'uomo scomparve dal davanzale e la finestra venne chiusa con energia; poi si vide accendersi dentro una luce. Giuseppe Corte se ne stette ancora immobile alla finestra fissando le persiane abbassate del primo piano. Le fissava con un'intensità morbosa, cercando di immaginare i funebri segreti di quel terribile primo piano dove gli ammalati venivano confinati a morire; e si sentiva sollevato di sapersene così lontano. Sulla città scendevano intanto le ombre della sera. Ad una ad una le mille finestre del sanatorio si illuminavano, da lontano si sarebbe potuto pensare a un palazzo in festa. Solo al primo piano,laggiù in fondo al precipizio, decine e decine di finestre rimanevano cieche e buie.

Il risultato della visita medica generale rasserenò Giuseppe Corte.

Incline di solito a prevedere il peggio, egli si era già in cuor suo preparato a un verdetto severo e non sarebbe rimasto sorpreso se il medico gli avesse dichiarato di doverlo assegnare al piano inferiore. La febbre infatti non accennava a scomparire, nonostante le condizioni generali si mantenessero buone. Invece il sanitario gli rivolse parole cordiali e incoraggianti. Un principio di male c'era - gli disse - ma leggerissimo; in due o tre settimane probabilmente tutto sarebbe passato.

" E allora resto al settimo piano?" aveva domandato ansiosamente Giuseppe Corte a questo punto.

" Ma naturalmente! " gli aveva risposto il medico battendogli amichevolmente una mano su una spalla. " E dove pensava di dover andare? Al quarto forse?" chiese ridendo, come per alludere alla ipotesi più assurda.

" Meglio così, meglio così " fece il Corte. " Sa? Quando si è ammalati si immagina sempre il peggio... "

Giuseppe Corte infatti rimase nella stanza che gli era stata assegnata originariamente. Imparò a conoscere alcuni dei suoi compagni di ospedale, nei rari pomeriggi in cui gli veniva concesso d'alzarsi.

Seguì scrupolosamente la cura, mise tutto l'impegno a guarire rapidamente, ma ciononostante le sue condizioni pareva rimanessero stazionarie.

Erano passati circa dieci giorni, quando a Giuseppe Corte si presentò il capo-infermiere del settimo piano. Aveva da chiedere un favore in via puramente amichevole: il giorno dopo doveva entrare all'ospedale una signora con due bambini; due camere erano libere, proprio di fianco alla sua, ma mancava la terza; non avrebbe consentito il signor Corte a trasferirsi in un'altra camera, altrettanto confortevole?

Giuseppe Corte non fece naturalmente nessuna difficoltà; una camera o un'altra per lui erano lo stesso; gli sarebbe anzi toccata forse una nuova e più graziosa infermiera.

" La ringrazio di cuore" fece allora il capo-infermiere con un leggero inchino; " da una persona come lei le confesso non mi stupisce un così gentile atto di cavalleria. Fra un'ora, se lei non ha nulla in contrario, procederemo al trasloco. Guardi che bisogna scendere al piano di sotto " aggiunse con voce attenuata come se si trattasse di un particolare assolutamente trascurabile. " Purtroppo in questo piano non ci sono altre camere libere. Ma è una sistemazione assolutamente provvisoria" si affrettò a  specificare vedendo che Corte, rialzatosi di colpo a sedere, stava per aprir bocca in atto di protesta, "è una sistemazione assolutamente provvisoria. Appena resterà libera una stanza, e credo che sarà fra due o tre giorni, lei potrà tornare di sopra. "

" Le confesso" disse Giuseppe Corte sorridendo, per dimostrare di non essere un bambino, " le confesso che un trasloco di questo genere non mi piace affatto."

" Ma non ha alcun motivo medico questo trasloco; capisco benissimo quello che lei intende dire, si tratta unicamente di una cortesia a questa signora che preferisce non rimaner separata dai suoi bambini... Per carità" aggiunse ridendo apertamente, " non le venga neppure in mente che ci siano altre ragioni!"

" Sarà" disse Giuseppe Corte, " ma mi sembra di cattivo augurio."

Il Corte così passò al sesto piano, e sebbene fosse convinto che questo trasloco non corrispondesse a un peggioramento del male, si sentiva a disagio al pensiero che tra lui e il mondo normale, della gente sana, già si frapponesse un netto ostacolo. Al settimo piano, porto d'arrivo, si era in un certo modo ancora in contatto con il consorzio degli uomini; esso si poteva anzi considerare quasi un prolungamento del mondo abituale. Ma al sesto già si entrava nel corpo autentico ell'ospedale; già la mentalità dei medici, delle infermiere e degli stessi ammalati era leggermente diversa. Già si ammetteva che a quel piano venivano accolti dei veri e propri ammalati, sia pure in forma non grave. Dai primi discorsi fatti con i vicini di stanza, con il personale e con i sanitari, Giuseppe Corte si accorse come in quel reparto il settimo piano venisse considerato come uno scherzo, riservato ad ammalati dilettanti, affetti più che altro da fisime; solo dal sesto, per così dire, si cominciava davvero.

Comunque Giuseppe Corte capì che per tornare di sopra, al posto che gli competeva per le caratteristiche del suo male, avrebbe certamente incontrato qualche difficoltà; per tornare al settimo piano, egli doveva mettere in moto un complesso organismo, sia pure per un minimo sforzo; non c'era dubbio che se egli non avesse fiatato, nessuno avrebbe pensato a trasferirlo di nuovo al piano superiore dei "quasi-sani".

Giuseppe Corte si propose perciò di non transigere sui suoi diritti e di non cedere alle lusinghe dell'abitudine. Ai compagni di reparto teneva molto a specificare di trovarsi con loro soltanto per pochi giorni, ch'era stato lui a voler scendere d'un piano per fare un piacere a una signora, e che appena fosse rimasta libera una stanza sarebbe tornato di sopra. Gli altri lo ascoltavano senza interesse e annuivano con scarsa convinzione.

Il convincimenìo di Giuseppe Corte trovò piena conferma nel giudizio del nuovo medico. Anche questi ammetteva che Giuseppe Corte poteva benissimo essere assegnato al settimo piano; la sua forma era as-so-lu-ta-men-te leg-ge-ra - e scandiva tale definizione per darle importanza - ma in fondo riteneva che al sesto piano Giuseppe Corte forse potesse essere meglio curato.

" Non cominciamo con queste storie" interveniva a questo punto il malato con decisione, " lei mi ha detto che il settimo piano è il mio posto; e voglio ritornarci."

" Nessuno ha detto il contrario" ribatteva il dottore, " il mio era un puro e semplice consiglio non da dot-to-re, ma da au-ten-ti-co a-mi-co! La sua forma, le ripeto, è leggerissima, non sarebbe esagerato dire che lei non è nemmeno ammalato, ma secondo me si distingue da forme analoghe per una certa maggiore estensione. Mi spiego: l'intensità del male è minima, ma considerevole l'ampiezza; il processo distruttivo

delle cellule" era la prima volta che Giuseppe Corte sentiva là dentro quella sinistra espressione, " il processo distruttivo delle cellule  è assolutamente agli inizi, forse non è neppure cominciato, ma tende, dico solo tende, a colpire contemporaneamente vaste porzioni dell'organismo. Solo per questo, secondo me, lei può essere curato più efficacemente qui, al sesto, dove i metodi terapeutici sono più tipici ed intensi."

Un giorno gli fu riferito che il direttore generale della casa di cura, dopo essersi lungamente consultato con i suoi collaboratori, aveva deciso un mutamento nella suddivisione dei malati. Il grado di ciascuno di essi - per così dire - veniva ribassato di un mezzo punto.

Ammettendosi che in ogni piano gli ammalati fossero divisi, a seconda della loro gravità, in due categorie, (questa suddivisione veniva effettivamente fatta dai rispettivi medici, ma ad uso esclusivamente interno) l'inferiore di queste due metà veniva d'ufficio traslocata a un piano più basso. Ad esempio, la metà degli ammalati del sesto piano, quelli con forme leggermente più avanzate, dovevano passare al quinto;

e i meno leggeri del settimo passare al sesto. La notizia fece iacere a Giuseppe Corte, perché in un così complesso quadro di traslochi, il suo ritorno al settimo piano sarebbe riuscito assai più facile.

Quando accennò a questa sua speranza con l'infermiera, egli ebbe però un'amara sorpresa. Seppe cioè che egli sarebbe stato traslocato, ma non al settimo bensì al piano di sotto. Per motivi che l'infermiera non sapeva spiegargli, egli era stato compreso nella metà più "grave" degli ospiti del sesto piano e doveva perciò scendere al quinto.

Passata la prima sorpresa, Giuseppe Corte andò in furore; gridò che lo truffavano, che non voleva sentir parlare di altri traslochi in basso, che se ne sarebbe tornato a casa, che i diritti erano diritti e che l'amministrazione dell'ospedale non poteva trascurare così sfacciatamente le diagnosi dei sanitari.

Mentre egli ancora gridava arrivò il medico per tranquillizzarlo.

Consigliò al Corte di calmarsi se non avesse voluto veder salire la febbre, gli spiegò che era successo un malinteso, almeno parziale.

Ammise ancora una volta che Giuseppe Corte sarebbe stato al suo giusto posto se lo avessero messo al settimo piano, ma aggiunse di avere sul suo caso un concetto leggermente diverso, se pure personalissimo.

n fondo in fondo la sua malattia poteva, in un certo senso s'intende, essere anche considerata di sesto grado, data l'ampiezza delle manifestazioni morbose. Lui stesso però non riusciva a spiegarsi come il Corte fosse stato catalogato nella metà inferiore del sesto piano. Probabilmente il segretario della direzione, che proprio quella mattina gli aveva telefonato chiedendo l'esatta posizione clinica di Giuseppe Corte, si era sbagliato nel trascrivere. O meglio la direzione aveva di proposito leggermente "peggiorato" il suo giudizio, essendo egli ritenuto un medico esperto ma troppo indulgente. Il dottore infine

consigliava il Corte a non inquietarsi, a subire senza proteste il trasferimento; quello che contava era la malattia, non il posto in cui veniva collocato un malato.

Per quanto si riferiva alla cura - aggiunse ancora il medico - Giuseppe Corte non avrebbe poi avuto da rammaricarsi; il medico del piano di sotto aveva certo più esperienza; era quasi dogmatico che l'abilità dei dottori andasse crescendo, almeno a giudizio della direzione, man mano che si scendeva. La camera era altrettanto comoda ed elegante. La vista ugualmente spaziosa: solo dal terzo piano in giù la visuale era tagliata dagli alberi di cinta.

Giuseppe Corte, in preda alla febbre serale, ascoltava ascoltava le meticolose giustificazioni con una progressiva stanchezza. Alla fine si accorse che gli mancavano la forza e soprattutto la voglia di reagire ulteriormente all'ingiusto trasloco. E senza altre proteste si lasciò portare al piano di sotto.

L'unica, benché povera, consolazione di Giuseppe Corte, una volta che si trovò al quinto piano, fu di sapere che per giudizio concorde di medici, di infermieri e ammalati, egli era in quel reparto il meno grave di tutti. Nell'ambito di quel piano insomma egli poteva considerarsi di gran lunga il più fortunato. Ma d'altra parte lo tormentava il pensiero che oramai ben due barriere si frapponevano fra lui e il mondo della gente normale.

Procedendo la primavera, l'aria intanto si faceva più tepida, ma Giuseppe Corte non amava più come nei primi giorni affacciarsi alla finestra; benché un simile timore fosse una pura sciocchezza, egli si sentiva rimescolare tutto da uno strano brivido alla vista delle finestre del primo piano, sempre nella maggioranza chiuse, che si erano fatte assai più vicine.

Il suo male sembrava stazionario. Dopo tre giorni di permanenza al quinto piano, si manifestò anzi sulla gamba destra una specie di eczema che non accennò a riassorbirsi nei giorni successivi.

Era un'affezione - gli disse il medico - assolutamente indipendente dal male principale; un disturbo che poteva capitare alla persona più sana del mondo.

Ci sarebbe voluta, per eliminarlo in pochi giorni, una intensa cura di raggi digamma.

"E non si possono avere qui i raggi digamma" chiese Giuseppe Corte. "Certamente " rispose compiaciuto il medico " il nostro ospedale dispone di tutto. C'è un solo inconveniente..."

"Che cosa?" fece il Corte con un vago presentimento.

"Inconveniente per modo di dire " si corresse il dottore "volevo dire che l'installazione per i raggi si trova soltanto al quarto piano e io le sconsiglierei di fare tre volte al giorno un simile tragitto."

"E allora niente?"

"Allora sarebbe meglio che fino a che l'espulsione non sia passata lei avesse la compiacenza di scendere al quarto."

"Basta!" urlò allora esasperato Giuseppe Corte. "Ne ho già abbastanza di scendere! Dovessi crepare, al quarto non ci vado!"

"Come lei crede" fece conciliante il medico per non irritarlo "ma come medico curante, badi che le proibisco di andar da basso tre volte al giorno."

Il brutto fu che l'eczema, invece di attenuarsi, andò lentamente ampliandosi. Giuseppe Corte non riusciva a trovare requie e continuava a rivoltarsi nel letto. Durò così, rabbioso, per tre giorni, fino a che dovette cedere. Spontaneamente pregò il medico di fargli praticare la cura dei raggi e di essere trasferito al piano inferiore.

Quaggiù il Corte notò, con inconfessato piacere, di rappresentare un'eccezione. Gli altri ammalati del reparto erano decisamente in condizioni molto serie e non potevano lasciare neppure per un minuto il letto. Egli invece poteva prendersi il lusso di raggiungere a piedi, dalla sua stanza, la sala dei raggi, fra i complimenti e la meraviglia delle stesse infermiere.

Al nuovo medico, egli precisò con insistenza la sua posizione specialissima. Un ammalato che in fondo aveva diritto al settimo piano veniva a trovarsi al quarto. Appena l'espulsione fosse passata, egli intendeva ritornare di sopra.

Non avrebbe assolutamente ammesso alcuna nuova scusa.

Lui, che sarebbe potuto trovasi legittimamente ancora al settimo.

"Al settimo, al settimo!" esclamò sorridendo il medico che finiva proprio allora di visitarlo. " Sempre esagerati voi ammalati! Sono il primo io a dire che lei può essere contento del suo stato; a quanto vedo dalla tabella clinica, grandi peggioramenti non ci sono stati. Ma da questo a parlare di settimo piano - mi scusi la brutale sincerità - c'è una certa differenza! Lei è uno dei casi meno preoccupanti, ne convengo, ma è pur sempre un ammalato! "

"E allora, allora " fece Giuseppe Corte accendendosi tutto nel volto, "lei a che piano mi metterebbe?"

" Oh, Dio, non è facile dire, non le ho fatto che una breve visita, per poter pronunciarmi dovrei seguirla per almeno una settimana. "

" Va bene " insistette Corte " ma pressapoco lei saprà."

Il medico per tranquillizzarlo, fece finta di concentrarsi un momento in meditazione e poi, annuendo con il capo a se stesso, disse lentamente: " Oh Dio! proprio per accontentarla, ecco, ma potremmo in fondo metterla al sesto!"

"Si si " aggiunse come per persuadere se stesso. " Il sesto potrebbe andar bene."

Il dottore credeva cosi di far lieto il malato. Invece sul volto di Giuseppe Corte si diffuse un'espressione di sgomento: sì accorgeva, il malato, che i medici degli ultimi piani l'avevano ingannato; ecco qui questo nuovo dottore, evidentemente più abile e più onesto, che in cuor suo - era evidente - lo assegnava, non al settimo, ma al quinto piano, e forse al quinto inferiore! La delusione inaspettata prostrò il Corte. Quella sera la febbre salÌ sensibilmente.

La permanenza al quarto piano segnò il periodo più tranquillo passato da Giuseppe Corte dopo l'entrata all'ospedale. Il medico era persona simpaticissima, premurosa e cordiale; si tratteneva spesso anche per delle ore intere a chiacchierare degli argomenti più svariati. Giuseppe Corte discorreva pure molto volentieri, cercando argomenti che riguardassero la sua solita vita d'avvocato e d'uomo di mondo. Egli cercava di persuadersi di appartenere ancora al consorzio degli uomini sani, di essere ancora legato al mondo degli affari, di interessarsi veramente dei fatti pubblici.

Cercava, senza riuscirvi. Invariabilmente il discorso finiva sempre per cadere sulla malattia.

Il desiderio di un miglioramento qualsiasi era divenuto in Giuseppe Corte un'ossessione. Purtroppo i raggi digamma, se erano riusciti ad arrestare il diffondersi dell'espulsione cutanea, non erano bastati ad eliminarla. Ogni giorno Giuseppe Corte ne parlava lungamente col medico e si sforzava in questi colloqui di mostrarsi forte, anzi ironico, senza mai riuscirvi.

" Mi dica, dottore" disse un giorno " come va il processo distruttivo delle mie cellule?"

"Oh, ma che brutte parole! " lo rimproverò scherzosamente il dottore. " Dove mai le ha imparate? Non sta bene, non sta bene, soprattutto per un malato! Mai più voglio sentire da lei discorsi simili."

"Va bene " obiettò il Corte " ma cosi lei non mi ha risposto. "

" Oh, le rispondo subito" fece il dottore cortese. " Il processo distruttivo delle cellule, per ripetere la sua orribile espressione, è, nel suo caso minimo, assolutamente minimo. Ma sarei tentato di definirlo ostinato."

" Ostinato, cronico vuol dire?"

" Non mi faccia dire quello che non ho detto. Io voglio dire sollanto ostinato. Del resto sono così la maggioranza dei casi. Affezioni anche lievissime spesso hanno bisogno di cure energiche e lunghe."

" Ma mi dica, dottore, quando potrò sperare in un miglioramento? "

" Quando? Le predizioni in questi casi sono piuttosto difficili... Ma senta" aggiunse dopo una pausa meditativa, " vedo che lei ha una vera e propria smania di guarire... se non temessi di farla arrabbiare sa che cosa le consiglierei?"

" Ma dica, dica pure, dottore..."

" Ebbene, le pongo la questione in termini molto chiari. Se io, colpito da questo male in forma anche tenuissima, capitassi in questo sanatorio, che è forse il migliore che esista, mi farei assegnare spontaneamente, e fin dal primo giorno, fin dal primo giorno, capisce a uno dei piani più bassi. Mi farei mettere addirittura al..."

" Al primo?" suggerì con uno sforzato sorriso il Corte.

" Oh no! al primo no!" rispose ironico il medico " questo poi no! Ma al terzo o anche al secondo di certo. Nei piani inferiori la cura è fatta molto meglio, le garantisco, gli impianti sono più completi e potenti, il personale è più abile. Lei sa poi chi è l'anima di questo ospedale?"

" Non è il professore Dati?"

" Già il professore Dati. è lui l'inventore della cura che qui si pratica, lui il progettista dell'intero impianto. Ebbene, lui, il maestro sta, per così dire, fra il primo e il secondo piano. Di là irraggia la sua forza direttiva. Ma, glielo garantisco io, il suo influsso non arriva oltre al terzo piano: più in là si direbbe che gli stessi suoi ordini si sminuzzino, perdano di consistenza, deviino, il cuore dell'ospedale è in basso e in basso bisogna stare per avere le cure migliori."

" Ma insomma " fece Giuseppe Corte con voce tremante, " allora lei mi consiglia..."

" Aggiunga una cosa" continuò imperterrito il dottore, " aggiunga che nel suo caso particolare ci sarebbe da badare anche all'espulsione.

Una cosa di nessuna importanza ne convengo, ma piuttosto noiosa, che a lungo andare potrebbe deprimere il suo "morale"; e lei sa quanto è importante per la guarigione la serenità di spirito.

Le applicazioni di raggi che io le ho fatte sono riuscite solo a metà fruttuose. Il perché? Può darsi che sia un puro caso, ma può darsi anche che i raggi non siano abbastanza intensi. Ebbene, al terzo piano le macchine dei raggi sono molto più potenti. Le probabilità di guarire il suo eczema sarebbero molto maggiori. Poi vede? una volta avviata la guarigione, il passo più difficile è fatto. Quando si comincia a risalire, è poi difficile tornare ancora indietro. Quando lei si sentirà davvero meglio, allora nulla impedirà che lei risalga qui da noi o anche più in su, secondo i suoi "meriti" anche al quinto, al sesto, persino al settimo oso dire..."

" Ma lei crede che questo potrà accelerare la cura?"

" Ma non ci può essere dubbio. Le ho già detto che cosa farei io nei suoi panni."

Discorsi di questo genere il dottore ne faceva ogni giorno a Giuseppe Corte. Venne infine il momento in cui il malato, stanco di patire per l'eczema, nonostante l'istintiva riluttanza a scendere, decise di seguire il consiglio del medico e si trasferì al piano di sotto.

Notò subito al terzo piano che nel reparto regnava una speciale gaiezza, sia nel medico, sia nelle infermiere, sebbene laggiù fossero in cura ammalati molto preoccupanti. Si accorse anzi che di giorno in giorno questa gaiezza andava aumentando: incuriosito, dopo che ebbe preso un po' di confidenza con l'infermiera, domandò come mai fossero tutti così allegri.

" Ah, non lo sa?" rispose l'infermiera, " fra tre giorni andiamo in vacanza."

" Come, andiamo in vacanza?"

" Ma sì. Per quindici giorni, il terzo piano si chiude e il personale se ne va a spasso. Il riposo tocca a turno ai vari piani."

" E i malati? come fate?"

" Siccome ce n'è relativamente pochi, di due piani se ne fa uno solo."

"Come? riunite gli ammalati del terzo e del quarto? "

" No, no" corresse l'infermiera, " del terzo e del secondo. Quelli che sono qui dovranno discendere da basso."

"Discendere al secondo?" fece Giuseppe Corte, pallido come un morto. " Io dovrei così scendere al secondo?"

" Ma certo. E che cosa c'è di strano? Quando torniamo, fra quindici giorni, lei ritornerà in questa stanza. Non mi pare che ci sia da spaventarsi."

Invece Giuseppe Corte - un misterioso istinto lo avvertiva - fu invaso da una crudele paura. Ma, visto che non poteva trattenere il personale dall'andare in vacanza, convinto che la nuova cura coi raggi più intensi gli facesse bene - l'eczema si era quasi completamente riassorbito - egli non osò muovere formale opposizione al nuovo trasferimento. Pretese, però, incurante dei motteggi delle infermiere, che sulla porta della sua nuova stanza fosse attaccato un cartello con su scritto "Giuseppe Corte, del terzo piano, di passaggio".

Una cosa simile non trovava precedenti nella storia del sanatorio, ma i medici non si opposero, pensando che in un temperamento nervoso quale il Corte anche una piccola contrarietà potesse provocare una grave scossa.

Si trattava in fondo di aspettare quindici giorni né uno di più, né uno di meno. Giuseppe Corte si mise a contarli con avidità ostinata restando per delle ore intere immobile sul letto, con gli occhi fissi sui mobili, che al secondo piano non erano più così moderni e gai come nei reparti superiori, ma assumevano dimensioni più grandi e linee più solenni e severe. E di tanto in tanto aguzzava le orecchie poiché gli pareva di udire dal piano di sotto, il piano dei moribondi, il reparto dei "condannati", vaghi rantoli di agonie.

Tutto questo naturalmente contribuiva a scoraggiarlo. E la minore serenità sembrava aiutare la malattia, la febbre tendeva a salire, la debolezza generale si faceva più fonda. Dalla finestra - si era oramai in piena estate e i vetri si tenevano quasi sempre aperti - non si

scorgevano più i tetti e neppure le case della città, ma soltanto la muraglia verde degli alberi che circondavano l'ospedale.

Dopo sette giorni, un pomeriggio verso le due, entrarono improvvisamente il capo-infermiere e tre infermieri, che spingevano un lettuccio a rotelle. " Siamo pronti per il trasloco?" domandò in tono di bonaria celia il capo-infermiere.

" Che trasloco? " domandò con voce stentata Giuseppe Corte, " che altri scherzi sono questi? Non tornano fra sette giorni quelli del terzo piano? "

" Che terzo piano?" disse il capo-infermiere come se non capisse, " Io ho avuto l'ordine di condurla al primo, guardi qua" e fece vedere un modulo stampato per il passaggio al piano inferiore firmato nientemeno che dallo stesso professore Dati.

Il terrore, la rabbia infernale di Giuseppe Corte esplosero allora in lunghe, irose grida che si ripercossero per tutto il reparto. " Adagio adagio, per carità" supplicarono gli infermieri, " ci sono dei malati che non stanno bene!" Ma ci voleva altro per calmarlo.

Finalmente accorse il medico che dirigeva il reparto, una persona gentilissima e molto educata. Si informò, guardò il modulo, si fece spiegare dal Corte. Poi si rivolse incollerito al capo-infermiere, dichiarando che c'era stato uno sbaglio, lui non aveva dato alcuna disposizione del genere, da qualche tempo c'era una insopportabile confusione, lui veniva tenuto all'oscuro di tutto... Infine, detto il fatto suo al dipendente, si rivolse, in tono cortese, al malato, scusandosi profondamente.

"Purtroppo però" aggiunse il medico, " purtroppo il professor Dati proprio un'ora fa è partito per una breve licenza, non tornerà che fra due giorni. Sono assolutamente desolato, ma i suoi ordini non possono essere trasgrediti. Sarà lui il primo a rammaricarsene, glielo garantisco... un errore simile! Non capisco come possa essere accaduto!"

Ormai un pietoso tremito aveva preso a scuotere Giuseppe Corte.

La capacità di dominarsi gli era completamente sfuggita. Il terrore l'aveva sopraffatto come un bambino. I suoi singhiozzi risuonavano lenti e disperati per la stanza.

Giunse così, per quell'esecrabile errore, all'ultima stazione. Nel reparto dei moribondi lui, che in fondo, per la gravità del male, a giudizio anche dei medici più severi, aveva il diritto di essere assegnato al sesto, se non al settimo piano! La situazione era talmente grottesca che in certi istanti Giuseppe Corte sentiva quasi la voglia di sghignazzare senza ritegno.

Disteso nel letto, mentre il caldo pomeriggio d'estate passava lentamente sulla grande città, egli guardava il verde degli alberi attraverso la finestra, con l'impressione di essere giunto in un mondo irreale, fatto di assurde pareti a piastrelle sterilizzate, di gelidi androni mortuari, di bianche figure umane vuote di anima. Gli venne persino in mente che anche gli alberi che gli sembrava di scorgere attraverso la finestra non fossero veri; finì anzi per convincersene, notando che le foglie non si muovevano affatto.

Questa idea lo agitò talmente, che il Corte chiamò col campanello l'infermiera e si fece porgere gli occhiali da miope, che in letto non adoperava; solo allora riuscì a tranquillizzarsi un poco: con l'aiuto delle lenti poté assicurarsi che erano proprio alberi veri e che le foglie, sia pur leggermente, ogni tanto erano mosse dal vento.

Uscita che fu l'infermiera, passò un quarto d'ora di completo silenzio.

Sei piani, sei terribili muraglie, sia pure per un errore formale, sovrastavano adesso Giuseppe Corte con implacabile peso. In quanti anni, sì, bisognava pensare proprio ad anni, in quanti anni egli sarebbe riuscito a risalire fino all'orlo di quel precipizio?

Ma come mai la stanza si faceva improvvisamente così buia? Era pur sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo Giuseppe Corte, che si sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardò l'orologio, sul comodino, di fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il capo dall'altra parte, e vide che le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce.

11/10/06

Così mangiò Zarathustra

di Woody Allen

(fonte L'Internazionale del 15 settembre via landofnowhere.splinder.com)



Niente riesce a mettere in subbuglio la comunità intellettuale più della scoperta di un'opera ignota di un grande pensatore. È una cosa che fa agitare i sapienti come quegli affarini che si vedono in una goccia al microscopio. In un recente viaggio ad Heidelberg per procurarmi alcune rare cicatrici da duello del diciannovesimo secolo, mi sono imbattuto proprio in un tesoro del genere. Chi avrebbe mai immaginato che esistesse un Libro delle diete di Friedrich Nietzsche? Ebbene, se l'autenticità dell'opera può apparire un filo dubbia agli increduli, quasi tutti quelli che l'hanno studiata affermano che nessun altro pensatore occidentale era mai andato così vicino a conciliare Platone con la dieta Pritikin. Ecco alcuni estratti.



In sé il grasso è una sostanza o l'essenza di una sostanza o una modalità di tale essenza. Il problema principale sorge quando si accumula sui fianchi. Tra i presocratici, fu Zenone a sostenere che il peso è un'illusione, e che per quanto un uomo possa mangiare sarà sempre grasso la metà di uno che non fa mai flessioni. Gli ateniesi erano ossessionati dalla ricerca del corpo ideale. In una tragedia perduta di Eschilo, Clitennestra rompe il voto di non fare mai spuntini tra i pasti, e poi finisce per cavarsi gli occhi quando si accorge che non entra più nel costume da bagno.

Ci volle l'intelletto di Aristotele per porre il problema del peso in termini scientifici. In un antico frammento dell'Etica, il filosofo afferma che la circonferenza di ogni uomo è pari al suo girovita moltiplicato per pi greco. Tanto bastò fino al Medioevo, quando Tommaso d'Aquino tradusse in latino alcuni menù e furono aperte le prime ostricherie. L'abitudine di cenare fuori era ancora condannata dalla chiesa, e farsi parcheggiare l'auto da un addetto era considerato un peccato venale.

Per secoli, com'è noto, il papato considerò il sandwich aperto al tacchino caldo il massimo della licenziosità; molti sandwich furono costretti a restare chiusi, e riaprirono solo dopo la riforma. In certi dipinti di soggetto religioso del quattordicesimo secolo si vedono per la prima volta scene di dannati in sovrappeso che vagano per l'inferno, condannati a yogurt e insalate. Gli spagnoli erano cattivissimi: l'Inquisizione poteva condannare qualcuno solo perché aveva farcito un avocado con la polpa di granchio.

Nessun filosofo giunse però a risolvere il problema del rapporto fra peso e senso di colpa finché Cartesio non divise la mente dal corpo, così il corpo poteva ingozzarsi mentre la mente pensava: “Chi se ne importa, tanto non sono io”. Ma il grande interrogativo della filosofia rimane questo: “Se la vita è priva di senso, come la mettiamo con la pastina a forma di lettere dell'alfabeto?”. Fu Leibniz il primo a dire che il grasso era fatto di monadi. Leibniz era a dieta e faceva ginnastica, ma non riuscì mai a smaltire le sue monadi: almeno non quelle che aveva sulle cosce. Spinoza, dal canto suo, consumava pasti frugali perché credeva che Dio stesse in tutte le cose, ed è terribile strafogarsi di knish quando si pensa di spalmare senape a palate sulla Causa prima di tutte le cose.

Esiste un rapporto fra il genio creativo e un sano regime alimentare? Si pensi al compositore Richard Wagner e a quello che era capace d'ingurgitare: patate fritte, formaggio grigliato, nachos... Cristo, quell'uomo era senza fondo, eppure la sua musica è sublime. Neanche sua moglie Cosima scherzava, ma lei almeno faceva jogging tutti i giorni. In una scena tratta dal ciclo del Ring, Sigfrido decide di andare a cena fuori con le fanciulle del Reno ed eroicamente si fa fuori un bue, due dozzine di pernici, svariate forme di formaggio e quindici boccali di birra. Poi arriva il conto e lui scopre di essere al verde. Il punto è che nella vita hai diritto a un contorno di insalata russa o di patate, e la scelta sei costretto a farla nella terrificante consapevolezza che non solo il tuo tempo sulla terra è limitato, ma che quasi tutte le cucine chiudono alle dieci. Per Schopenhauer, la catastrofe esistenziale non consisteva tanto nel mangiare quanto nel consumare merendine. Schopenhauer condannava l'abitudine di sgranocchiare senza motivo noccioline e patatine mentre si faceva qualcos'altro.

Una volta che si cede ad una merendina, sostiene Schopenhauer, la volontà umana non può più resistere alla tentazione, e il risultato è un universo cosparso di briciole. Poco azzeccata anche la tesi di Kant, convinto che se tutti ordinassero la stessa cosa, il mondo funzionerebbe secondo morale. Ma c'è un problema che Kant non aveva previsto: se tutti ordinano lo stesso piatto, finisce che in cucina si bisticciano per decidere a chi va l'ultimo branzino. “Fai la tua ordinazione come se valesse per ogni essere umano sulla terra”, consiglia Kant. Già, ma se il tizio accanto non mangia guacamole? Naturalmente non esistono cibi morali: a meno che di non contare anche le uova à la coque.

Riassumendo: a parte le mie Frittelle al di là del bene e del male e il mio condimento per insalate volontà di potenza, fra tutte le grandi ricette che hanno cambiato il pensiero occidentale, quella del pasticcio di pollo di Hegel è stata la prima a riciclare gli avanzi con significative implicazioni politiche. Il fritto di gamberi e verdure di Spinoza può essere apprezzato tanto dagli atei quanto dagli agnostici, mentre una ricetta poco nota di Hobbes, le costolette di bimbo alla brace, resta ancora oggi un rebus intellettuale. Il bello della dieta Nietzsche è che i chili, una volta persi, non tornano più, a differenza di quanto accade con il Tractatus sugli amidi di Kant.





Prima colazione




- succo d'arancia

- 2 fettine di bacon

- profiteroles

- vongole giganti al forno

- pane tostato

- tisana di erbe

Il succo dell'arancia è l'essenza stessa dell'arancia resa manifesta, e con questo voglio dire che è la sua vera natura, ciò che gli conferisce la sua “aranceità” e gli impedisce di sapere di salmone al vapore oppure, che so, di animelle fritte. Nei devoti, l'idea di fare colazione con qualsiasi altra cosa che non siano i cereali suscita timore e tremore, ma con la morte di Dio tutto è permesso, e si possono mangiare a piacimento profiteroles, vongole e perfino ali di pollo.





Pranzo



1 piatto di spaghetti al pomodoro e basilico

pane bianco-

patate schiacciate

sacher torte

I forti mangeranno sempre cibi nutrienti, ben conditi con salse pesanti, mentre i deboli spilluzzicano germe di grano e tofu, convinti che le loro sofferenze gli varranno una ricompensa nell'aldilà, dove fanno furore le costolette di abbacchio a scottadito. Ma se l'aldilà è, come io sostengo, un eterno ritorno di questa vita, allora i mansueti dovranno cibarsi eternamente di pietanze a basso contenuto di carboidrati e di pollo spellato alla piastra.





Cena

- bistecca o salsicce

- patate novelle al forno

- aragosta Thermidor

- gelato con panna montata o millefoglie

Questo sì che è un pasto da Superuomo. Coloro che sono tormentati dall'angoscia per i trigliceridi e le transaminasi mangino pure secondo le raccomandazioni del pastore o del dietologo: il Superuomo sa che la carne venata di grasso e i formaggi cremosi con dessert abbondanti e.... ah, sì, anche i fritti a volontà sarebbero cose che mangerebbe anche Dioniso, se non fosse per quel suo problema di reflusso gastroesofageo.





Aforismi

- L'epistemologia svuota di senso ogni dieta. Se non esiste nulla fuori dalla mia mente, non solo posso ordinare qualsiasi cosa, ma il servizio sarà impeccabile.

- L'uomo è l'unica creatura che non lascia la mancia al cameriere.

Originalmente pubblicato sul New Yorker

07/10/06

Cronaca del Matto Affogato

di Roberto Alajmo

(fonte Rosalio.it)



Ora io non so se ho aperto un vaso di pandora da cui si scatenerà un sabba di minchiate internettiane o se, più probabilmente, rimarrò in attesa di qualche post che non arriva, come uno scrittore rimasto solo in libreria, seduto dietro a una scrivania, in mezzo a due pile di libri da autografare che nessuno è interessato a comprare. L’immagine-incubo di chiunque abbia mai pubblicato un romanzo.



Il fatto è che da ieri sul mio blog si trova il primo capitolo del nuovo romanzo (link diretto, pdf 81 Kb). Il romanzo che ho cominciato da qualche mese e sto ancora scrivendo. L’idea è quella di offrire il corpo del mio libro in pasto ai lettori e fare una sorta di editing pubblico, sulla scorta delle osservazioni che chiunque lascerà fra i commenti. Non ci sono censure: valgono anche gli insulti.



Il romanzo si intitola (per il momento) “Cronaca del Matto Affogato”. C’entra il gioco degli scacchi, ma non è fondamentale; piuttosto c’entra Palermo. Il protagonista è, credo, un carattere palermitano dalle molte incarnazioni, il cui prototipo è Cagliostro. L’avventuriero che tende a vivere al di sopra delle sue possibilità. Il primo capitolo è un primissimo piano sui suoi pensieri: si capisce che si trova di fronte a un pubblico e si capisce che quel pubblico si aspetta di vederlo morire in maniera spettacolare. Resta da stabilire come c’è arrivato, fino a quel punto, e come riuscirà a cavarsela.



Malgrado una certa cattiva fama, se fatto bene l’editing è un lavoro cruciale, per uno scrittore. È il momento in cui lui stesso si rende conto di ciò che ha scritto. Risultato possibile solo se altri occhi, oltre ai suoi, si posano sul mucchietto di parole che ha messo assieme. Riflettendoci, davvero: non so se questa di mettere il romanzo a repentaglio sul web sia una buona idea. Però sul momento mi è parsa originale, e l’ho fatto. Se andrà male sarò sempre in tempo a toglierlo. Staremo a vedere. Anche su questo, si accettano suggerimenti.

06/10/06

I cortoracconti di Sonja

Sonja

di Barbara Ottaviani




Stanotte Paolo e gli altri sono tornati giù ai viali.

Volevano rivederla Sonja.

Io preferisco tornarci da solo.

O forse non tornarci più.

Ripenso che mi è piaciuto, e questa voglia di tornare mi imbarazza.

Sonja è un’idea bellissima ma sconveniente.

L’ho pure sognata, dopo.

Mi veniva incontro statuaria, la pelle di cera, nuda, senza sesso e mi confondeva.

Ma anche nel sogno glielo lascio fare.

Si abbassa su di me, mi sbottona i pantaloni e comincia a farlo come mai nessuna, con impegno e devozione.

E mentre lo fa, vedo il suo profilo ambiguo tradito dal sopracciglio poco curato per essere quello di una donna.

Il resto non lo vedo, ma quello che sento mi basta ad immaginare la sua vita, dubbia come la sua sessualità.

E allora devo mettermi a pensare che sia Annuccia a farlo.

Ma il mio cazzo cresce, cresce e gira così bene dentro quella bocca e Annuccia non è così brava, e io non voglio più pensare chi sia Sonja.

Sonja, adesso, è una bocca enorme che si prende cura di me,e non ho più pensieri, solo un susseguirsi di macchie colorate

dentro una vertigine che mi risucchia.

Non so quanto duro, ma mi sembra interminabile.

Tanto tempo, troppo, da sentire l’urgenza di liberarmene.

Mi fermo al primo lampione.

Scende sorridendo Sonja e sotto la luce impietosa dei neon riaffiora certa la sua sessualità.

Lo lascio là, in attesa del prossimo giro.

Mi allontano velocemente, ma non posso fare a meno di spiare dallo specchietto retrovisore.

Voglio guardarlo ancora, così, a distanza.

E ho di nuovo voglia di essere dentro la sua bocca.




Se vi è piaciuto questo cortoracconto,



NAVARRA EDITORE


APPUNTAMENTO CON “I CORTORACCONTI DI SONJA”




Appuntamento per la presentazione del libro “I Cortoracconti di Sonja” di Barbara Ottaviani.




Venerdì 13 ottobre alle ore 18.00 presso il Kalhesa (Foro Italico, Palermo)

Presentazione pubblica del libro.

Ad affiancare l’autrice saranno Nuccio Vara (giornalista) e Lia Iacoponelli (psichiatra).

Ad alcune attrici sarà affidato il compito di leggere alcuni dei racconti.




Il libro si presenta come una novità nel panorama editoriale siciliano. Lo strumento usato dalla scrittrice è quello dei racconti brevi, con un linguaggio duro ed asciutto. “Se gli eventi accaduti sono crudi, feroci, l’unico modo – sostiene la Ottaviani – per rappresentarli è usare un linguaggio che gli assomigli”.

E’ un libro-provocazione quello della scrittrice palermitana. Il suo amore per la scrittura, la musica, le moto ed il suo lavoro di medico trovano una sintesi nelle ottanta pagine del libro.

“I lettori più indicati – continua la Ottaviani – non sono coloro avvezzi a scandalizzarsi e a negare l’esistenza di una realtà diversa dalla loro”.

Un libro che farà discutere e che esce fuori dallo schema di una editoria tradizionale. Vi è il linguaggio dei blog e molte contaminazioni culturali.

Un clic ci seppellirà

Molti blogger hanno aggiunto sulle loro pagine la pubblicità AdWords di Google. Scommetto che la crescita bradipica del vostro account  vi avrà lasciato senza parole. Per rimediare avete forzato la mano  - confessatelo pure che tanto Google ha dei algoritmi antifrode quasi insuperabili - dicendo agli amici di modem di cliccare e ricliccare sui banner.

Se l'avete fatto vi arriverà l' e-mail che leggete di seguito.

La lascio qui e la faccio commentare da un articolo comparso ieri sul Manifesto.

(Onestà mi impone di dirvi che ci sono cascato anch'io e la lettera col pin m'è arrivata lo stesso giorno che m'hanno cacciato dal programma, perdendo così i miei 57 dollari...)

(Qualcosa mi dice che forse identica sorte ha avuto Marco, altrimenti perché dopo un pezzo bello come il suo "in bocca al lucro" ha tolto il codice degli annunci?)




Gentile cliente,

Abbiamo riscontrato che sono stati generati clic e/o impressioni non validi sugli annunci Google pubblicati nei suoi siti. Pertanto abbiamo disattivato il suo account AdSense di Google. La preghiamo di comprendere che questa decisione si è resa necessaria per proteggere gli interessi degli inserzionisti AdWords.



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Qualora Google decida di esaminare il suo ricorso, faremo del nostro meglio per informarla in tempi rapidi e intraprenderemo le azioni che riterremo necessarie. Una volta presa una decisione in merito al suo ricorso, ulteriori ricorsi o la ripresentazione del ricorso non verranno presi in considerazione.



Cordiali saluti,



Il team AdSense di Google






da Il Manifesto del 5 ottobre 2006



Prendi i clic e scappa

La crescita dell'advertising online rischia di crollare sotto il peso delle truffe operate da piccoli siti fasulli che riescono a farsi pagare dai motori per i clic che convogliano verso gli inserzionisti

di Constance Fells



Dilaga la pubblicità internet, segnalando negli Stati Uniti una crescita del 37 per cento nella prima metà dell'anno e arrivando dunque a 7,0 miliardi di dollari. Ci sono i banner, rettangoli colorati da cliccare per saltare sul sito dell'inserzionista, ci sono gli interstiziali, pagine che si inseriscono tra un clic e l'altro, obbligandovi a vedere una pubblicità non voluta. Ci sono le finestre a pop-up, che si aprono senza che l'abbiate chiesto e ci sono delle animazioni colorate che in maniera ancora più implacabile si sovrappongono alle pagine, impedendone la lettura. In tutti questi casi la pubblicità conferma la sua vocazione a imporsi invadente.



Ma il settore della pubblicità online che più sta guadagnando è un altro. Sono quegli «avvisi» che tengono conto del contesto di lettura dell'utente e sono fatte di sole tre righe di testo con un link, senza tanti frizzi. Si provi per esempio a battere nel motore di ricerca Google la sigla «dvd». In risposta Google vi fornirà nella colonna grande i suoi risultati, ordinati secondo il suo criterio di rilevanza, ma in quella di destra, più stretta e separata, proporrà dei «collegamenti sponsorizzati», del tipo: «Comprare DVD / Molti articoli - prezzi bassi. Shopping online facile e sicuro / www.eBay.it» e altri dello stesso genere. Se voi cliccate su uno di questi, verrete trasportati al sito relativo e per ogni clic ricevuto l'inserzionista pagherà una qualche somma, concordata in precedenza con Google, Yahoo! o altri siti. Lo si chiama Ppc, ovvero pay per click.

La differenza è sostanziale: nei giornali e nelle tv l'inserzionista paga in base alla tiratura o all'audience ma non può essere certo che i potenziali clienti abbiano davvero guardato quella pagina colorata o quello spot, e meno che mai che ne siano discese emozioni o voglia di saperne di più. Il clic in arrivo attraverso un altro sito (Click-through) è meglio perché dice all'inserzionista che qualcuno è effettivamente andato sul suo sito. Lui stesso poi, con i suoi software, verificherà quanto a lungo c'è stato e anche se si è trasformato in un acquirente. Memorizzando i suoi dati si potrà anche verificare se quella persona nei giorni successivi è tornata spontaneamente in visita.

La seconda differenza è che questo «cliccare attraverso» è più efficace perché sul web, a differenza che davanti alla televisione, le persone spesso ci vanno per cercare qualcosa, per esempio informazioni di viaggio o di prodotto. Dunque quel potenziale cliente non ha bisogno di essere disturbato, e semmai è contento se qualcuno gli segnala i venditori di Dvd o di pentole.



Tutto bene allora? Proprio per niente, a leggere il voluminoso dossier con cui Business Week, rivista economica americana tra le più influenti, ha scavato in quel fenomeno inquietante (www.businessweek.com/magazine/content/06_40/b4003001.htm), di cui gli addetti ai lavori parlano almeno da due anni, ma per lo più in maniera imbarazzata. Si chiama «Frode dei clic» (click fraud), e sfrutta proprio il meccanismo del pay per click. Lo fa in questo modo: un'azienda affida a Google o altri la sua pubblicità, ma, per accrescere la sua visibilità, eventualmente accetta che essa venga smistata (parcheggiata) anche in altri siti «affiliati» a Google. Se il clic arriva da uno di questi, Google dividerà con il sito affiliato che ha generato la cliccata il compenso che riceve dall'inserzionista. Può trattarsi di pochi centesimi di dollaro o anche di diversi dollari, ma quello che conta sono i volumi.



I siti affiliati di primo livello sono autorizzati a loro volta a disseminare le pubblicità in altri siti figli, in una catena in cui tutti guadagnano qualcosa in percentuale e a pagare è sempre l'inserzionista. Sarebbe un meccanismo virtuoso, una piramide dove tutti contribuiscono alle cliccate, ma succede che i gestori di alcuni di questi siti reclutino un certo numero di amici e conoscenti, o anche di sconosciuti, perché vadano sul loro sito e lì clicchino le pubblicità. Anche questi amici verranno ripagati qualche centesimo e per questa attività è stata inventata la sigla PTR, ossia «pay to read», pagato per leggere (ma soprattutto per cliccare, ovvero Ptc). Esistono siti appositi che reclutano i cliccatori e alcuni di loro riescono a guadagnare alcune centinaia di dollari al mese. Altri usano dei software che cliccano da soli e in automatico sui siti indicati e questi vengono chiamati clickbot, robot da clic. I grandi motori di ricerca assicurano che stanno tenendo sotto controllo il fenomeno e di aver attivato degli speciali software per scoprire le truffe.

I più pessimisti valutano tuttavia che anche il 30 per cento del traffico di clic sia fasullo, altri lo stimano attorno al 10, ma in ogni caso il fenomeno è vistoso e la guerra tra guardie e ladri continua. Potrebbe derivarne anche il crollo di questo mercato e alcuni inserzionisti ormai chiedono di pagare solo se il cliccatore ha comprato qualcosa e non già per uno che clicca, sta lì pochi secondi e poi se ne va via. Siti citati:



www.eBay.it

www.businessweek.com

www.well.com

www.funzionepubblica.it

publicaccess.nih.gov

www.dcprinciples.org

www.alpsp.org/publications

SCRITTURA CREATIVA ED «ESERCIZI SPIRITUALI»

di ANTONIO SPADARO S.I.

© La Civiltà Cattolica 2006 IV 20-33 quaderno 3751



Gli scaffali delle librerie sono ricchi di manuali di scrittura creativa(1). Cominciano ad apparire anche raccolte di testimonianze di scrittori o antologie di loro saggi e diari utili per coloro che intendono imparare a scrivere poesia o un racconto o un romanzo. La domanda che poniamo al lettore all’inizio di queste pagine è la seguente: gli scrittori mistici possono essere assunti, proprio per il loro stile, il loro linguaggio, come guida all’espressione creativa per poeti e narratori?



Ogni spiritualità cristiana non è soltanto un modo di pregare, ma anche un modo di vedere la realtà e di essere al mondo: essa dà «forma» a una vita umana e le conferisce una particolare sensibilità, che si proietta anche in un certo stile di vita. In concreto, chi si riconosce in una via spirituale (benedettina, carmelitana, ignaziana…) non solo vive la sua fede, ma anche la propria esperienza di vita alla luce di un carisma particolare, coinvolgendo anche gli aspetti ordinari dell’esistenza. Sulla base di questa semplice considerazione, in un nostro precedente articolo avevamo affermato che esistono spiritualità cristiane che hanno una ricaduta specifica anche a livello della lettura di un testo letterario(2). In particolare, abbiamo già illustrato il modo peculiare di «lettura letteraria» generato della spiritualità degli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola.



Esperienza mistica ed espressione creativa



In queste pagine ci soffermeremo sull’esperienza di scrittura che ha generato gli Esercizi ignaziani, chiedendoci se essa possa dare indicazioni utili a uno scrittore. Cercheremo così di segnalare alcuni spunti interessanti per coloro che desiderano imparare a esprimersi in maniera creativa, consapevoli del fatto che «il divino soffio dello Spirito creatore s’incontra con il genio dell’uomo e ne stimola la capacità creativa»(3).



Grandi autori spirituali sono stati anche grandi scrittori, ad esempio gli innografi cristiani(4). Come non pensare poi alla scrittura di Caterina da Siena, di Giovanni della Croce e Teresa d’Avila, mistici ampiamente studiati anche come scrittori. Scoprire poi le assonanze e le affinità fra i grandi mistici e gli scrittori sarebbe un lavoro complesso quanto affascinante. Qui però occorre notare la differenza semplice e radicale tra il mistico e il poeta. Il carattere proprio dell’esperienza poetica è di essere comunicabile. Non si è poeti soltanto per se stessi, ma per un lettore, esplicito o implicito. Il poeta ha il dono di rendere le parole capaci di una comunicazione che ci fa accedere alla sua esperienza. Del mistico invece si deve dire ciò che il grande filologo padre Giovanni Pozzi scrisse di Maria Maddalena de’ Pazzi: «Il suo parlare ignora l’interlocutore umano; parlando ad alta voce, lei non trasmette minimamente informazioni per ascoltatori né immediati né mediati. Perciò il lettore, leggendo le sue pagine, deve sapere che Maria Maddalena non si rivolge mai a lui»(5). A sua volta Giovanni Getto così commenta la scrittura di Caterina da Siena: «Essa conserva nei momenti più ispirati tutta la forza nativa con cui si genera. Un suggestivo senso di movimento viene prodotto da alcuni bellissimi anacoluti, nei quali lo spezzarsi della costruzione contribuisce a creare un’atmosfera vibrata, che è autentica immagine dell’appassionata meditazione della santa»(6). Ma gli esempi sono numerosi, e lo studio della scrittura delle mistiche e dei mistici è ormai molto diffuso(7).



Eppure si intuisce una strada: quella che considera questa scrittura «selvaggia» come guida alla scrittura creativa. Persino Veronica Giuliani — scarsamente alfabetizzata, che scrive perché costretta, e a cui si vieta di rileggere ciò che ha scritto — stimola alla riflessione. La sua competenza linguistica coincide quasi con la pura oralità: ortografia sballata, mancanza di punteggiatura, incapacità di dividere le parole, brachilogie sintattiche, anacoluti...(8). Veronica si rende conto che l’«amore operante in un’anima, opera cose che fanno impazzire. Queste pazzie raccontare non si possono; tuttociò che dico parmi che mi faccia affatto ammutolire. Niente dico di quel che provo; tacendo dirò tutto; dicendo non dico niente»(9). Non è questa una travolgente esperienza di scrittura, sebbene sotto la cifra dell’oralità?



In alcuni casi conosciamo bene le relazioni profonde tra scrittori e mistici: tra Petrarca e Agostino (si pensi al Secretum[10]) o tra Federigo Tozzi e Caterina da Siena, e persino lo spunto che Teresa d’Avila diede a Raymond Carter(11). Non si contano le versioni musicali e le composizioni ispirate dai versi di Giovanni della Croce. Teniamo sullo sfondo l’amplissimo tema dei rapporti tra scrittura biblica e letteratura, sui quali la bibliografia è ampia(12). All’interno di questo compito, dunque, si potrebbe provare a comprendere se e come gli scrittori mistici possano essere assunti, proprio per il loro stile, il loro linguaggio e soprattutto per il loro specifico approccio all’esperienza dello scrivere, come guida all’espressione creativa per poeti e narratori.



Qui cercheremo di comprendere quale tipo di esperienza creativa possa essere generata dagli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Lodola(13). Procederemo descrivendo il carattere peculiare del testo degli Esercizi e l’esperienza ignaziana di scrittura, cioè l’«attività creatrice che diede vita a quei foglietti che a poco a poco si organizzeranno in “documenti ed esercizi”»(14).



Un testo a raccordi



Innanzitutto occorre precisare che siamo di fronte a un testo di spiritualità alquanto singolare, in quanto esso non prevede la lettura continua. Gli Esercizi sono una guida all’esperienza spirituale, utile innanzitutto a colui che aiuta e accompagna una persona che intende compiere un itinerario interiore alla scoperta della volontà di Dio sulla propria vita. Non un insieme di elevazioni a firma dell’autore, dunque: in brevi ma dense note gli Esercizi indicano un itinerario spirituale, che è stato vissuto da chi li ha scritti. Essi però non risolvono in se stessi l’esperienza spirituale e, perciò, non intendono affatto dire tutto. Non sono il racconto dell’esperienza del santo. Anzi, non sono affatto una «narrazione», né una espressione lirica, ma una «guida», che prevede un interlocutore: innanzitutto chi dà gli esercizi e chi li riceve.



L’interlocuzione degli Esercizi, in realtà, è molto complessa e avviene a parecchi livelli. Lo ha compreso molto bene il semiologo francese Roland Barthes(15). Al di là di alcune prese di posizione che rivelano una incomprensione del significato dell’esperienza spirituale, Barthes invita correttamente a scorgere nel testo degli Esercizi quattro tipi di «testo» o, potremmo dire meglio, di rapporto comunicativo. Li illustriamo in estrema sintesi. Il testo scritto da Ignazio è destinato a chi dà gli esercizi, alla guida. È questo il primo «testo». La guida poi elabora un suo testo che rivolge all’esercitante in un rapporto diretto e adattato alla peculiare personalità dell’altro: è il secondo «testo». A sua volta poi l’esercitante nel suo esercizio spirituale si rivolge a Dio nel linguaggio della preghiera, che costituisce il terzo «testo». Ignazio paragona questo rapporto di comunicazione linguistica a quello che intercorre tra due amici, o tra un servo e il suo padrone: así como un amigo habla a otro, o un siervo a su señor (cfr Es, n. 54). Infine c’è un quarto «testo», ben più difficile da isolare: qui è Dio che risponde all’esercitante o che lo mueve y atrae, cioè lo stimola e lo attrae a sé (Es, n. 175)(16).



Come si nota già da questa descrizione estremamente sintetica dei quattro «testi», gli Esercizi sono una struttura di interlocuzione a raccordi, in cui ogni «attore» riceve e trasmette(17). In questo senso si distinguono nettamente dalle pagine di Caterina da Siena, Veronica Giuliani, Maria Maddalena de’ Pazzi o di Giovanni della Croce. Non sono la narrazione di un’esperienza, ma uno stimolo perchè essa sia vissuta dall’esercitante.



Ogni livello di testo degli Esercizi genera linguaggio creativo. Noi ci soffermeremo principalmente sul primo, cioè quello che è scritto da Ignazio, perché qui egli rivela la sua personale esperienza di scrittura. Il secondo testo genera dialogo, il terzo preghiera, il quarto ispirazione. In particolare il terzo testo è centrato sulla creatività dell’esercitante, cioè del lettore, che è sempre anche un attore(18).



Il linguaggio dell’esperienza



Soffermiamoci sul primo testo con un esempio: quando è il momento di contemplare un mistero della vita di Gesù (i re magi, la conversione della Maddalena, i misteri compiuti sulla croce, le singole apparizioni dopo la resurrezione…), Ignazio non si ferma a raccontare la scena con la ricchezza delle immagini e del linguaggio. Al contrario, sintetizza quel mistero in poche battute, cioè in tre «punti», che ne rivelano la densità e aprono lo spirito alla visione personale. Sono i punti che colui che dà gli esercizi offrirà all’esercitante, a cui spetta — come ben ha intuito Italo Calvino — il compito di «dipingere lui stesso sulle pareti della sua mente degli affreschi gremiti di figure, partendo dalle sollecitazioni che la sua immaginazione visiva riesce a estrarre da un enunciato teologico o da un laconico versetto dei Vangeli»(19). La scrittura di Ignazio non tende a esaurire. Essa è affilata, precisa, ma secca, asciutta, capace più di evocare che di definire ed esaurire la possibilità di immaginare.



Il fine degli Esercizi non è di produrre una conoscenza più esatta della storia di Gesù, ma il coinvolgimento pieno dell’esercitante in quella storia. Molto dunque dev’essere lasciato a ciò che se puede meditar piamente (Es, n. 54), cioè alla libera ricostruzione. Ignazio prevede la libertà creativa di vedere, ad esempio, se la via da Nazareth a Betlemme sia «pianeggiante o se attraversa valli o alture», e se «il luogo o grotta della natività […] sia grande o piccolo, basso o alto» (Es, n. 112). Ciò che a Ignazio interessa è il narrar fielmente la historia in modo che la persona che contempla tenga presente el fundamento verdadero de la historia (Es, n. 2). Il facile spagnolo di queste affermazioni fa comprendere come la fedeltà alla storia non si opponga affatto alla meditazione «pia», e dunque libera di ricostruire creativamente. Anzi, ne è il suo necessario presupposto.



Lo aveva compreso perfettamente la scrittrice Marguerite Yourcenar, la quale nel suo taccuino di appunti scriveva, a proposito del suo capolavoro Memorie di Adriano ambientato nel II secolo d.C.: «Le regole del gioco: imparare tutto, leggere tutto, informarsi di tutto e, al tempo stesso, applicare al proprio fine gli esercizi di Ignazio di Loyola»(20). Questo metodo si condensa nell’espressione: como si presente me hallase, cioè «come se mi trovassi lì presente» (Es, n. 114). E infatti prosegue la Yourcenar: «Perseguire l’attualità dei fatti, cercare di rendere a quei volti la loro mobilità, l’agilità della cosa viva. […] eliminare finché è possibile tutte le idee, i sentimenti che si sono accumulati, strato su strato, tra quegli esseri e noi»(21). Il linguaggio della narrativa è, in questo senso, il linguaggio dell’esperienza.



Il testo è una porta di ingresso



Gli Esercizi ignaziani dunque possono suggerire una forma di scrittura dove l’espressione è essenziale, a tratti anche scabra, minimalista o, meglio, precisa. La precisione ignaziana elimina ogni situazione astratta, rarefatta o sentimentale. Ciò che va meditato deve essere visto, sentito, toccato, anche se con i sensi spirituali e con l’immaginazione. Il mistero non è mai evanescente, ma sempre storico e concreto. Ha commentato in maniera pertinente Italo Calvino: «L’idea che il Dio di Mosè non tollerasse d’essere rappresentato in immagine sembra non sfiorare mai Ignacio de Loyola. Al contrario, si direbbe che egli rivendichi per ogni cristiano la grandiosa dote visionaria di Dante e di Michelangelo – senza neppure il freno che Dante si sente in dovere di mettere alla propria immaginazione figurale di fronte alle supreme visioni celesti del Paradiso»(22).



Il sentimento legato alla rappresentazione dei misteri di Gesù non è mai espresso. Ignazio usa il sentimento in maniera straordinariamente parca ed essenziale. Il dolore per Gesù crocifisso non va descritto, né dev’essere esaurito dalla prosa dello scrittore. Occorre invece presentare e descrivere il mistero storico, cioè il fatto, perché il sentimento nasca nel cuore dell’esercitante: «Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al punto giusto», aveva scritto Maupassant. La scrittura ignaziana mette in fila le parole giuste, le immagini precise, ma anche la punteggiatura più efficace e adeguata.



Il testo dunque è una porta di ingresso nella storia narrata. Sovraccaricare il lettore di dettagli significherebbe esaurire lo spazio della sua immaginazione, limitarlo. Il coinvolgimento è la condizione perché la lettura si faccia esperienza e metta in gioco «le facoltà immaginative e percettive del lettore, al fine di fargli aggiustare e differenziare la sua messa a fuoco»(23). È necessario uno spazio vuoto, che il lettore cerca di riempire per una buona continuazione della lettura. Questi spazi vuoti, il non detto, le lacune, le reticenze dunque ostacolano la continuazione e, nello stesso tempo, stimolano il processo di costruzione delle immagini. I testi letterari non possono avere la determinatezza degli oggetti reali e, anzi, è proprio tale indeterminatezza che consente al testo di comunicare col lettore.



Ignazio di Loyola ha scritto un testo per leggere il quale occorre in realtà «esercitarsi». Per questo il suo autore spiega il titolo stabilendo un parallelo con gli esercizi fisici. Egli precisa: «Come il passeggiare, il camminare e il correre sono esercizi corporali, analogamente si chiamano esercizi spirituali i vari modi di preparare e disporre l’anima…» (Es, n. 1). Ogni lettura così può diventare una performance. Ignazio non descrive l’esperienza degli Esercizi, ma la introduce, la orienta, la stimola, ne suggerisce le condizioni.



Scrittura e biografia



Ignazio scrive secondo criteri precisi. La scrittura degli Esercizi non è narrativa, ampia, fluviale; non è neanche lirica o ermetica. L’origine è carismatica e, dunque, biografica: il testo è la traduzione in metodo del suo cammino spirituale. Tra testo e biografia, in realtà, c’è un rapporto stretto. Tuttavia non è la sua pura e semplice trascrizione narrativa. Ignazio accettò — e non senza resistenze e con molte interruzioni — di raccontare la sua vita in terza persona, ma non di scriverla di proprio pugno(24). A trascrivere il suo racconto fu un compagno gesuita portoghese, Luis Gonçalves da Câmara. Per questo l’Autobiografia ignaziana è uno strumento molto importante per comprendere gli Esercizi Spirituali. Essa narra il pellegrinaggio spirituale di Ignazio dalla conversione a una crescente purificazione e unione con Dio in termini di preghiera e di servizio.



Sin dall’inizio, l’esperienza della scrittura ebbe per lui un ruolo importante. Durante la convalescenza successiva al ferimento avvenuto nel corso della battaglia di Pamplona, egli si trovò casualmente a leggere libri spirituali: di libri di altro genere in quella casa non ce n’erano. Poiché nella lettura di questi libri provava molto gusto, «gli venne l’idea di stralciare alcuni passi più significativi della vita di Cristo e dei santi. Perciò […] si mise a compilare con molta diligenza un libro. Esso arrivò a occupare quasi 300 fogli, in quarto, completamente scritti. Scriveva le parole di Gesù in rosso, quelle di nostra Signora in azzurro, su carta lucida a righe, con elegante scrittura, mettendo a profitto la sua grafia molto bella. Impiegava il suo tempo in parte a scrivere, in parte a pregare»(25). Ignazio dunque scrive perché ricopia frasi che lo colpiscono.



La crescita spirituale successiva a questi inizi si riflette nelle settimane degli Esercizi. Ignazio non dice nulla circa le tappe della loro redazione. Alla fine del suo racconto autobiografico, rispondendo a una domanda del p. Gonçalves da Câmara, disse che «gli Essercitii non gli haveva fatti tutti in una volta, senonché alcune cose che lui osservava nell’anima sua et le trovava utili, gli pareva che potrebbero anche essere utili ad altri, et così le metteva in scritto, verbi gratia, dello examinar la conscientia con quel modo delle linee, etc. Le electioni spetialmente mi disse che le haveva cavate da quella varietà di spirito et pensieri, che haveva quando era in Loyola, quando stava anchora malo della gamba»(26). Così abbiamo una conferma del fatto che lo scrivere è maturato a partire dall’accadere e motivato dal desiderio di giovare.



L’importanza dell’osservazione



Il primo elemento è dunque l’«osservare» ciò che accade. Nel suo uso parco e circostanziato della parola scritta, Ignazio attribuisce all’osservazione un ruolo fondamentale. Egli raccomanda di annotare sempre le parti che si avvertono come più importanti nelle contemplazioni, cioè quelle nelle quali si comprende qualcosa o si hanno reazioni affettive di consolazione o desolazione (cfr Es, n. 118). Il suo Diario Spirituale rappresenta un documento esemplare, che consente di constatare come Ignazio scrivesse ogni giorno quello che osservava accadere in lui. La scrittura ignaziana nasce dall’esperienza capace di coinvolgere mente (conocimiento) e affettività (consolación, desolación), non da elucubrazioni teoriche o da pure ipotesi. Non risponde a una combinatoria astratta, ma a una sorta di reportage che prevede sempre un quaderno di appunti nel quale annotare siempre algunas partes más principales (Es, n. 118).



Per questo motivo, gli Esercizi hanno generato molta scrittura: ogni esercitante ha avuto nei secoli fino ad oggi il proprio quaderno di appunti. È un’atteggiamento che nello scrittore diventa decisivo. In alcuni casi gli appunti sono vere e proprie opere originali. È il caso, ad esempio, degli appunti del poeta Gerard Manley Hopkins(27), dei testi raccolti nell’antologia Hearts on Fire(28) o dello splendido volume Thirty Days del poeta e critico letterario statunitense Paul Mariani(29). Ma questi sono soltanto alcuni esempi.



Ignazio dunque insegna che si scrive perchè si osserva interiormente qualcosa, perchè ci si è trovati in una condizione che ha aperto gli occhi, che ha fatto vedere meglio la vita, il mondo, un oggetto, la realtà(30). Soprattutto perché la fantasia permette a chi scrive di stabilire con la propria esperienza un rapporto più intenso, a tal punto da osservare o da provare sentimenti o avere pensieri anche non comuni, ordinari e ovvi(31).



Il criterio dell’«utilità»



L’accentuazione sull’osservazione è importante, ma non sufficiente nella prospettiva ignaziana. Ignazio scrive gli Esercizi non per puro diletto personale, ma per riavviare l’esperienza propria o altrui. Scrivere è frutto dell’esperienza filtrata dall’«utilità», perché è trampolino di lancio per un’ulteriore esperienza, quella dell’esercitante. Ignazio non annota tutto, ma soltanto le cose che trovava utili e gli pareva che potessero essere utili anche ad altri(32). Ovviamente l’appello all’«utilità» può lasciare interdetto chi intende scrivere in maniera libera e creativa. Come può una simile esperienza di scrittura «utilitaristica» aiutare o ispirare uno scrittore? In realtà, la domanda potrebbe essere il frutto di un fraintendimento. Infatti va tenuto presente che, nel momento in cui scrive, Ignazio si pone in un orizzonte di comunicazione. Se il testo non comunica, è «inutile». Ignazio ha davanti a sé un lettore, almeno implicito. L’appello all’utilità ha il significato preciso di puntare l’attenzione su una persona che sta al di là del libro. Scrivere non è, in questo senso, un atto narcisistico di pura espressione di sé. È un atto comunicativo rivolto ad altri.



Anzi Ignazio, in quanto autore, sparisce dal suo testo(33). Si nasconde fino all’estremo quasi paradossale: quando egli parla in prima persona negli Esercizi, il soggetto non è lui! Il pronome «io», prima persona singolare, è di ordine didattico e favorisce una identificazione personalizzata con il testo, abolendo la distanza della terza persona (cfr Es, n. 58)(34). L’«io» è lo stesso esercitante, il lettore. Così, mentre molti testi mistici si servono della poesia, il testo degli Esercizi mira all’economia linguistica, alla sobrietà di espressione, per stabilire una distanza dell’autore e una «deriva» del testo, che appunto è lasciato in balìa, se così possiamo dire, dell’esercitante e al suo personale rapporto col Signore, all’interno del quale si compie la scelta degli «esercizi» da fare. In questo orizzonte «altruistico» è il senso dell’utilità del testo.



Quindi scrivere ignazianamente non è pura espressione o esibizione di sé. Il narcisismo sembra non avere il minimo spazio, e non c’è niente di più distante da questa scrittura dell’esibizionismo. Scrivere significa selezionare qualcosa tra l’esperienza e le tante cose da dire. Tagliare, selezionare, essenzializzare, ridurre all’osso non è un vuoto esercizio stilistico, ma un’arte comunicativa. È un lavoro di scavo, dunque. Infatti, il vocabolo che Ignazio usa per le sue parole è il participio «cavate»(35). Esso sembra implicare un lavoro profondo di delucidazione e formulazione, che ricorda gli intensi versi di Giuseppe Ungaretti: Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso (Commiato).



L’uso ignaziano della parola




Ignazio conserva sempre l’attitudine alla concisione: parla poco, e la sua parola è nuda e chiara. Non ama le esagerazioni, per cui la sua lingua è molto parca in aggettivi e superlativi. Nota con semplicità, senza orpelli, consiglia in modo diretto. Pensa molto a ciò che dice e come lo dice e a chi. Non è mai stato un predicatore, ma proprio con la parola ha realizzato le sue conquiste decisive: la conversazione è la sua arte, non certo un artificio umanistico, nè, tanto meno, esibizione. Egli corregge senza sosta i suoi scritti e li lima per bene. Ciò comporta una lettura lenta e calma per cogliere i particolari, che egli espresse mediante la cesellatura di ogni frase. È significativo il fatto che di lui non abbiamo nessun brano di oratoria o di catechesi. Egli è maestro del dialogo interpersonale, nella comunicazione profonda, non in quella esteriore o di circostanza(36).



Tutto ciò denota una cura massima della parola, di ogni singola parola, e dell’espressione. Quando espone l’esame generale di coscienza, egli consiglia di pesare il valore della parola e conoscere la sua direzione (Es, nn. 38-41). L’equilibrio nell’uso della parola è un indice della conversione e dell’orientamento del cuore e del pensiero. L’esercitante deve «chiedere conto all’anima […] delle parole» (Es, n. 43). Ignazio detesta la palabra ociosa (Es, n. 40), cioè quella inutile e vuota che non serve a niente e non è «utile» a nessuno.



Nell’itinerario spirituale proposto dagli Esercizi, uno dei modi di pregare «consiste nel contemplare il significato di ogni parola della preghiera» (Es, n. 249). Ogni parola va pesata, e il suo significato è chiamato ad allargarsi come i cerchi concentrici prodotti da una pietra che cade nell’acqua. Ignazio prevede «occhi chiusi o fissi in un punto, senza girarli qua e là»; poi chiede di pronunciare una sola parola della preghiera (ad esempio, «Padre» nella preghiera del «Padre nostro»). Così chiede a chi si esercita spiritualmente di riflettere «su questa parola per tutto il tempo che, nelle considerazioni pertinenti a tale parola, troverà significati, paragoni, gusti e consolazioni» (Es, n. 252).



La sua è una sorta di ermeneutica di assonanze interiori che non tollera tempi rigidi né eccessiva quantità di parole: in «una o due parole» soltanto si può trovare «molta materia di meditazione, insieme a gusto e consolazione» (Es, n. 254). Infatti «non il molto sapere sazia e soddisfa (harta y satisface) l’anima, ma il sentire e gustare (sentir y gustar) le cose internamente» (Es, n. 2). Si può dunque restare fermi su una sola parola della preghiera anche per tutto il tempo dell’esercizio. Nel «terzo modo di pregare» Ignazio propone la ripetizione di una singola parola al ritmo del movimento respiratorio «in modo tale che una singola parola venga detta tra un respiro e l’altro» (Es, n. 258). Chiunque scriva un’opera di qualche valore letterario trova in queste indicazioni sul valore di ogni singola parola una guida sicura all’espressione concisa, essenziale, ma insieme anche capace di dare «respiro». È questa la vera parola poetica, precisa, puntuale e pregna di significati e suggestioni.



Gli Esercizi come manuale di espressione creativa




Gli Esercizi Spirituali non sono propriamente né un testo poetico né un testo narrativo, né un saggio, né un diario. Essi sono una guida, un vero e proprio manuale di espressione creativa tra l’esercitante e Dio. Negli Esercizi la contemplazione non è utile solamente a raggiungere una pura passività: all’esercitante serve per imparare a parlare con Dio, a inventare un linguaggio di interlocuzione. La contemplazione produce linguaggio.



Questa palestra di creatività non può che plasmare tutta l’esistenza dell’essere umano, non semplicemente la sua preghiera, i suoi momenti di orazione. L’esercizio spirituale, se ben inteso e vissuto, offre un allenamento che irrobustisce la capacità espressiva e comunicativa dell’uomo in ogni ambito della sua esperienza di vita. Riprova di tale connessione è il fatto che, viceversa, si moltiplicano i manuali di scrittura creativa che fanno spesso riferimento — in un modo o nell’altro, in maniera pertinente o ambigua — alla dimensione «spirituale»(37), proponendo la crescita nella capacità di scrivere in parallelo a un progresso nella vita interiore(38). Ciò non significa, ovviamente, che colui che compie il cammino proposto dagli Esercizi diventi come per incanto anche scrittore (o musicista o pittore…). Significa se mai che egli vive un’esperienza che gli dà modo y orden (Es, n. 2), cioè un metodo di espressione spirituale che fa intimamente appello alle sue più profonde risorse creative. La principale è l’apertura radicale all’evento dell’ispirazione, intesa come qualcosa che lo raggiunge dall’esterno, da un «altro».



Ma questo manuale non assomiglia a un orario ferroviario. Se mai, se vogliamo rimanere nel paragone manualistico, potrebbe essere più vicino a un ricettario di cucina quale l’Artusi(39). In realtà, come ha riconosciuto il poeta Giovanni Giudici, traduttore degli Esercizi, questo libretto ha un «fascino, malgrado tutto, letterario» e lo si può considerare e tradurre come un «testo poetico»(40). Sono, infatti, frutto di una peculiare esperienza spirituale e creativa di ispirazione. Afferma Giudici, forte della sua affinità con il linguaggio poetico, che essi sono «un’opera che, nata in una sfera istituzionale assolutamente estranea alla letteratura, in forza della passione da cui fu ispirata partecipa dei più alti valori di letterarietà. Il suo stile povero diventa perciò […] “grande stile”; le sue incongruenze sintattiche diventano procedimenti di “lingua poetica”; le sue trasandatezze, i suoi ad sensum ed anche certe apparenti ambiguità agiscono come elementi di seduzione: proprio perchè su ogni altra preoccupazione e su ogni altro intento prevale appunto l’urgenza delle cose da dire, anzi da fare»(41).



Stile sobrio, cura peculiare dell’osservazione, spiccata capacità di valorizzare ogni singola parola, intensità comunicativa rendono la scrittura di Ignazio di Loyola un contributo importante per coloro che sentono il desiderio di imparare a mettere per iscritto qualcosa della loro «varietà di spirito et pensieri».







1 Per «scrittura creativa» si intende quella che non ha solamente lo scopo di comunicare informazioni in maniera efficace e funzionale (una relazione, uno scritto accademico, una ricetta medica…), ma ha anche una funzione espressiva e una forte connotazione estetica. È un altro modo per parlare di «scrittura letteraria».



2 A. SPADARO, «La lettura come immersione interattiva. Tra “Esercizi Spirituali” e “Realtà Virtuale”», in Civ. Catt. 2004 II 37-49. Cfr L. COCO (ed.), L’atto del leggere. Il mondo dei libri e l’esperienza della lettura nelle parole dei Padri della Chiesa, Magnano (Bi), Qiqajon, 2004.



3 GIOVANNI PAOLO II, Lettera agli artisti, n. 15.



4 Pensiamo alle opere di grandi teologi che componevano inni, come Prudenzio, Efrem il Siro, Gregorio Nazianzeno, Ambrogio di Milano, Paolino da Nola, Andrea di Creta, Romano il Melode, Venanzio Fortunato, Adamo di San Vittore, ma anche Bonaventura e Tommaso d’Aquino. L’elenco è vastissimo.



5 G. POZZI, «Introduzione», in M. M. DE’ PAZZI, Le parole dell’estasi, Milano, Adelphi, 1984, 26.



6 G. GETTO, Letteratura religiosa del Trecento, Firenze, Sansoni, 1967, 196 s.



7 Per una prima introduzione al linguaggio dei mistici cfr M. BALDINI, Il linguaggio dei mistici, Brescia, Queriniana, 19902.



8 Cfr G. POZZI, «Il “parere” autobiografico di Veronica Giuliani», in Strumenti critici II (1987) n. 2, 178.



9 Citato in M. BALDINI, Il linguaggio dei mistici, cit., 70.



10 Il Secretum è un trattato in latino in tre libri composto dal Petrarca tra il 1342 e il 1343, ma ritoccato successivamente. Ogni libro corrisponde alle tre giornate di discussione che il poeta immagina di sostenere con sant’Agostino alla presenza muta di una figura di donna, che è la Verità. È una sorta di testamento spirituale.



11 Cfr l’antologia di testi cateriniani curata da Tozzi: CATERINA DA SIENA, Le cose più belle [1918], Firenze, Le Lettere, 1996; R. CARVER, «Meditazione su una frase di santa Teresa», in Id., Il mestiere di scrivere. Esercizi, lezioni, saggi di scrittura creativa, Torino, Einaudi, 1997.



12 A parte il fondamentale N. FRYE, Il grande codice. La Bibbia e la letteratura, Torino, Einaudi, 1986, consigliamo: R. ALTER, L’arte della narrativa biblica, Brescia, Queriniana, 1990.



13 Un’intuizione sul rapporto tra Esercizi Spirituali e scrittura creativa l’abbiamo trovata in G. MOZZI, Parole private dette in pubblico. Conversazioni e racconti sullo scrivere, Roma - Napoli, Theoria, 1997.



14 M. GIULIANI, «Lo scritto e il silenzio. All’origine degli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola», in Ignazio di Loyola e gli Esercizi Spirituali, supplemento a Notizie dei Gesuiti d’Italia 25 (1992) n. 6, 57.



15 Cfr R. BARTHES, Sade, Fourier, Loyola. La scrittura come eccesso, Torino, Einaudi, 1977.



16 I rapporti però, a ben guardare, sono più dei quattro descritti da Barthes. Esiste un rapporto tra l’esercitante e il direttore, cioè il reciproco del secondo rapporto. Non si può tacere il rapporto reciproco anche tra il direttore e Dio: si tratta di un rapporto sfumato, appena accennato tra le righe da Ignazio, e più in termini negativi di «lasciar fare» più che di «fare». Potremmo ricordare anche una rete di rapporti che sono documentati, ad esempio, dai Direttorî, costituiti da coloro che danno gli Esercizi: colui che li dà deve innanzitutto averli ricevuti e praticati. E, infine, notiamo che non bisogna dimenticare un altro «testo», cioè quello che Dio rivolge a Ignazio, il quale descrive nell’Autobiografia con una breve frase la modalità di questo rapporto: «Dio si comportava con lui come fa un maestro di scuola con un bambino: gli insegnava» (Autobiografia, n. 27).



17 Questa comunicazione non è scontata: l’esercitante non sa nulla in anticipo sulle esperienze che gli verranno proposte, come il lettore di un romanzo che vive la suspense propria della trama. Neanche il rapporto tra Dio e l’esercitante può essere prevedibile.



18 Ci siamo già occupati di questo «testo» in un nostro precedente articolo: «La lettura come immersione interattiva»…, cit.



19 I. CALVINO, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Mondadori, 1993, 96 s.



20 M. YOURCENAR, Memorie di Adriano, Torino, Einaudi, 1988, 289.



21 Ivi.



22 I. CALVINO, Lezioni americane…, cit., 95.



23 W. ISER, L’atto della lettura. Una teoria della risposta estetica, Bologna, il Mulino, 1987, 26.



24 In realtà sembra che egli abbia raccontato non tanto i suoi successi quanto le proprie debolezze e la forza della presenza del Signore nella sua vita.



25 Ignazio di Loyola, s., Autobiografia, n. 11.



26 Ivi, n. 99 (corsivo nostro). Qui citiamo il testo originale che è in italiano dell’epoca. Infatti, come scrive il p. Gonçalves, trovandosi a Genova e non avendo più a disposizione un amanuense spagnolo, egli dettò in italiano gli appunti che aveva portato con sé da Roma. Era il dicembre 1555.



27 Cfr C. DEVLIN, The Sermons and Devotional Writings of Gerard Manley Hopkins, London, Oxford University Press, 1967. I testi sono tradotti parzialmente in L. DEL ZANNA (ed.), Gli Esercizi spirituali di S. Ignazio commentati dal poeta Gerard Manley Hopkins, S.J. (1844-1889), Firenze, Mir, 2000.



28 Cfr M. HARTER (ed.), Hearts on Fire. Praying with Jesuits, Chicago, Loyola Press, 20052.



29 Cfr P. MARIANI, Thirty Days on Retreat with the Exercises of St. Ignatius, New York, Viking Compass, 2002.



30 Consigliamo la lettura del racconto di C. S. Lewis dal titolo «L’uomo nato cieco», in Prima che faccia notte. Racconti e scritti inediti, Milano, Rizzoli, 2005, 29-44.



31 Cfr il nostro «La fantasia: evasione o visione?», in Civ. Catt. 2005 II 28-39.



32 Il criterio dell’utilità è stato ben esposto in M. GIULIANI, «Lo scritto e il silenzio», cit.



33 Lo ha ben illustrato P.-H. Kolvenbach nel suo «Gli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio. Il messaggio spirituale attraverso le particolarità linguistiche», in Civ. Catt. 1997 I 351-364.



34 Cfr ivi, 352 s.



35 Ignazio di Loyola, s., Autobiografia, n. 99.



36 Cfr I. TELLECHEA IDIGORAS, Ignazio di Loyola solo e a piedi, Roma, Borla, 1990, 407-410.



37 All’aggettivo, specialmente in area anglofona, si dà una valenza ben più ampia rispetto a quella a cui siamo abituati. Esso corrisponde a una sorta di generica ricerca di senso.



38 Cfr, ad esempio, N. GOLDBERG, Scrivere zen. Manuale di scrittura creativa, Roma, Ubaldini, 1987. Cfr anche J. CAMERON, La via dell’artista. Come ascoltare e far crescere l’artista che è in noi, Milano, Longanesi, 1992. L’autrice ha scritto numerosi titoli di grande successo sull’argomento. È interessante notare che proprio The Artist’s Way compone un itinerario articolato in «settimane» come quello degli Esercizi ignaziani.



39 Pellegrino Artusi (1820-1911) fu gastronomo e scrittore. Compose in stile brioso un libro di culinaria di grande successo dal titolo La scienza in cucina o l’arte di mangiar bene, oggi conosciuto col solo cognome del suo autore.



40 G. GIUDICI, «“Gli Esercizi spirituali” come testo poetico», in IGNACIO DE LOYOLA, Esercizi spirituali, Milano, Mondadori, 1984, 7.



41 Ivi, 15. L’unica parola che giudichiamo errata nell’affermazione di Giudici è «seduzione». In nessun modo e a nessun titolo la si può attribuire al testo ignaziano, che è «eccessivo» (cioè eccede, porta fuori di sé, come abbiamo visto) e per natura sua mai, appunto, seduttivo (nel senso che tende a centrare l’attenzione su di sé).



© La Civiltà Cattolica 2006 IV 20-33 quaderno 3751