30/04/03

Se desidero un'acqua d'Europa, è la pozzanghera
nera e gelida, quando, nell'ora del crepuscolo,
un bimbo malinconico abbandona, in ginocchio,
un battello leggero come farfalla a maggio.


Rimbaud - Il battello ebbro


 


Rimbaud -Deliri II. Alchimia del verbo -da Una stagione all'inferno

Divenni un'opera favolosa: vidi che tutti gli esseri hanno un destino di felicità: l'azione non è la vita, ma un modo di sprecare una qualche forza, uno snervarsi. La morale è la fiacchezza del cervello.
A ogni essere, mi sembravano dovute molte altre vite. Quel signore non sa ciò fa: è un angelo. Questa famiglia è una covata di cani. Di fronte a molti uomini, parlai ad alta voce con un istante di una delle loro altre vite. - Fu così che amai un porco.
Nessuno dei sofismi della follia, - la follia da manicomio, - fu da me dimenticato: potrei ripeterli tutti, detengo il sistema.
La mia salute fu minacciata. Giungeva il terrore. Sprofondavo in sonni di giorni e giorni, e, alzato, continuavo i sogni più tristi. Ero maturo per il trapasso, e lungo una via di rischi la mia debolezza mi conduceva ai confini del mondo e della Cimmeria, patria d'ombra e dei gorghi.
Fui costretto a viaggiare, distrarre gli incantesimi adunati nel mio cervello. Sul mare, che amavo come se avesse dovuto lavarmi da un'immondezza, vedevo levarsi la croce consolatrice. Ero stato dannato dall'arcobaleno. La Felicità era la mia fatalità, il mio rimorso, il mio verme: la mia vita sarebbe stata sempre troppo immensa per dedicarsi alla forza e alla bellezza.
La Felicità! Il suo dente, dolce da morire, mi avvertiva al canto del gallo, - ad matutinum, al Christus venit, - nelle città più oscure...

29/04/03

Boe: Bar Boe! Pronto, chi parla? -


Bart: Pronto? Vorrei parlare con Cool, di nome fa Lou -


Boe: Aspetta che vedo... Lou Cool, Lou Cool?! C'è uno al telefono che vuole Lou Cool! -


Boe: Stammi a sentire, piccolo vomito schifoso, un giorno di questi ti acchiappo e ti incido il mio nome sulla schiena con una piccozza!


(ormai il delirio...)

Parlano di me sul forum della casa editrice Fernandel


Giornata fiacca, la febbre si è stabilizzata. Calo 2 antibiotici al giorno e quasi quasi m'attacco alla tv e mi lascio scivolare sino alla camera 237 dell'Overlook Hotel. Letto il numero 200 di Dylan Dog, ridicolo! Si poteva evitare, i disegni di BB sono fantastici e i colori sono magici ma la sceneggiatura sembra una puntata di una telenovela, il figlio dell'ispettore Bloch, un drogato geloso dell'affetto del vecchio per Dylan, il campanello e il galeone venduti da Hamlin! L'unica cosa bella è Groucho, pimpante ed effervescente che dorme dentro un baule!


Assioma di Ducharme:
Se osservi abbastanza attentamente il tuo problema ti accorgerai di essere parte del problema.


From Guido "Ti spedisco alcuni bei versi su cui riflettere,


I had a false belief

I thought I came here to stay

we're all just visiting

all just breaking like waves

The oceans made me

but who came up with love?


Push me, Pull me, or Put me out


ma non ti dico chi è l'autore, se t'interessa prova a scoprirlo da solo o mettilo come verso della settimana"

28/04/03

"Non è morto ciò che in eterno può attendere"
(Abdul Alhazred)


 

                             NARRATOR (con't)
                             Then, it dropped into darkness.

                             The great machine knew that this
                             tiny scout was reporting back to
                             its parent; but it was too simple,
                             too primative a device to detect
                             the forces that were gathering
                             round it now.

                             Then the pod came, carrying
                             life. The great machine searched
                             its memories.

                             The logic circuits made their
                             decision when the pod had fallen
                             beyond the last faint glow of the
                             reflected Saturnian light.

                             In a moment of time, too short to
                             be measured, space turned and
                             twisted upon itself.

12/9/65                                                    d8
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                          END OF SCREENPLAY
                            END OF FILE


La sceneggiatura è quella scritta da Stanley Kubrick e Arthur C. Clarke, firmata il 9 dicembre 1965, non corrisponde ai dialoghi del film. Questa stesura prevedeva ancora la voce del narratore.


(dall'Archivio Kubrick) 

27/04/03

Senza spiegare nulla, senza dirti dove, ci sarà sempre un mare, che ti chiamerà.


~~~~~~

- Ogni tanto mi chiedo cosa mai stiamo aspettando.
Silenzio
- Che sia troppo tardi, madame ... 


Oceano Mare, Alessandro Baricco


 

26/04/03

Bagheria, il mondo non finisce in provincia del nulla


Li ho rivisti tutti, come in quella poesia di Nazim Hikmet, li ho rivisti tutti: erano lì gli amici di ieri. Li ho visti aiutato dal vino ma li ho visti e io scivolavo, scivolavo pensando ai bonobo.
Mi dici che non riesco a sbottonarmi mai, che altrimenti sarei un ottimo santone e un pessimo scrittore.
So scrivere, pensare, aspettare e pedalare. Forse ieri avrei detto che era abbastanza...
Amo le parole e amo i verbi.
Ero strafatto di avverbi e aggettivi, poi ho smesso. Perché le frasi si sposano bene solo con personaggi che vivono sul bordo bianco che lacera l'unità delle vignette, personaggi e azioni schizzate dai verbi.
Amo la filosofia, non so dove ma un giorno ho letto una frase-faro: pericolosi e indispensabili i fari, abbagliano noi, zanzare squillanti che ronziamo nelle orecchie del mondo, col fascino dei loro 10000 watt.
Filosofeggio "per andare al mercato e vedere di quante cose riesco a fare a meno". In questo però resta il dubbio altaniano: vorrei sapere chi è il mandante di tutte le cazzate che faccio.
Pedalo ancora nel fiotto dei ricordi, mi vedo disteso su una balena a parlare dei trucchi di Super Mario, lì, sulla schiena della balena che sbuffa su di me impallindando i ricordi che il mare dei Sargassi lascia in balia delle avances delle anguille.


pensato di traverso su un rutto del Centro Sociale (Montagnola occupata)


 

Scrivi, ti prego. Due righe sole, almeno, anche se l'animo è sconvolto e i nervi non tengono più. Ma ogni giorno. A denti stretti , magari delle cretinate senza senso, ma scrivi. Lo scrivere è una delle più ridicole e patetiche nostre illusioni. Crediamo di fare cosa importante tracciando delle contorte linee nere sopra la carta bianca.[...]
Scrivi, scrivi. Alla fine, fra tonnellate di carta da buttare via, una riga si potrà salvare. (Forse).


da Dino Buzzati, "Siamo spiacenti di"

24/04/03

Un nuovo blog, il blog di Veronica... la mia polizzziotta preferita... Ne riporto un pezzettino:


Britomarti dalla scogliera ci si buttò per sfuggire al proprio destino. non so se fosse quella di Gabicce, ma era sicuramente a strapiombo sul mare. E un giorno Britomarti si è ritrovata con Saffo a parlare della loro morte, comune per il modo, ma diversa per il significato. Le due donne, ora morte discutono del loro destino e della loro scelta che le fa sentire lontane da ogni desiderio ma col ricordo vivo di ciò che è stato. Ma Britomarti non può capire le scelte di Saffo, è una ninfa e quindi appartiene all'Olimpo, non riesce a capire i desideri di Saffo "Non sono mai stata felice, Britomarti. Il desiderio non è canto, il desiderio schianta e brucia, come il serpe, come il vento" (C.Pavese, schiuma d'onda, da I Dialoghi con Leucò). Entrambe dalla scogliera hanno buttato, assieme al loro corpo, giù il destino per non rivederlo più risalire.

Il cilicio dei cloni e le tette saturniste


Dopo aver barbaramente copiato i link di Time, chiedo pubblicamente scusa. Dimesso il cilicio ho trovato il tempo di attivare il blog del saturnismo. Si parla di tette. In modo molto saturnista.

23/04/03

Dalla lettera del 27/01/04 ad Oscar Pollak


Ma é bene se la coscienza riceve larghe ferite perché in tal modo diventa più sensibile a ogni morso. Bisognerebbe leggere, credo, soltanto libri che mordono e pungono.
Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? Affinché ci renda felici, come scrivi tu? Dio mio, felici saremmo anche se non avessimo libri, e i libri che ci rendono felici potremmo eventualmente scriverli noi. Ma abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che ci era più caro di noi stessi, come se fossimo respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro dev'essere la scure per il mare gelato dentro di noi.


Franz Kafka

Come una luce che si accende con un guizzo, le imposte di una finestra lassù si spalancarono, un uomo debole e sottile in quel punto alto e lontano si chinò d’un colpo molto in avanti e stese le braccia ancor più davanti a sé. Chi era? Un amico? Un brav’uomo? Uno che provava compassione? Uno che voleva aiutare? Era uno solo? Erano tutti? C’era ancora un aiuto possibile? C’erano delle obiezioni che erano state dimenticate? Ce n’erano certamente. La logica, è vero, è incrollabile, ma non si oppone a un uomo che vuole vivere. Dov’era il giudice che non aveva mai visto? Dov’era l’alto tribunale al quale non era mai arrivato? Sollevò le mani distendendo tutte le dita.


Ma uno dei signori mise le mani sul collo di K., mentre l’altro gli immergeva il coltello nel cuore e lo girava due volte. Con gli occhi che si spegnevano K. vide ancora come, vicini al suo volto, i due signori guancia a guancia contemplavano l’esito. "Come un cane!" disse, era come se la vergogna dovesse sopravvivergli.


(la fine de Il processo)

LEGGE DI HOLMES E' bene ricordarsi che l'intero universo, con una sola irrilevante eccezione, è composto di altri


LEGGE DI DUNN Una pianificazione attenta non potrà mai sostituire una bella botta di culo


OSSERVAZIONE DI YASENEK Il bacio è una maniera di avvicinare due persone a tal punto che non vedono più niente di male l'uno nell'altra


Da La legge di Murphy del 2000

I diritti del lettore (e ringrazio sedicinove per avermi ricordato Pennac)


1. Il diritto di non leggere
2. Il diritto di saltare le pagine
3. Il diritto di non finire un libro
4. Il diritto di rileggere
5. Il diritto di leggere qualsiasi cosa
6. Il diritto al bovarismo (malattia testualmente contagiosa)
7. Il diritto di leggere ovunque
8. Il diritto di spizzicare
9. Il diritto di leggere a voce alta
10. Il diritto di tacere
 
(da: Daniel Pennac, Come un romanzo. Milano, Feltrinelli, 1993, p. 116)

22/04/03

Altre 50 pagine e finisco I Fratelli Karamazov. L'avevo letto smozzicandolo a 15 anni, non volevo crederci ma ci sono libri che vanno affrontati con maggiore consapevolezza. Leggere è un'esperienza totale, necessita di preparazione, non è mai stato un hobby 'leggero'. Mi scompiscio dalle risate quando intervistano qualche raperonzolo tisicosculettante che sorride dicendo : io amo leggere. Sciacquatevi la bocca, le parole sono pericolose, le parole aiutano ma chiedono il loro tributo. Da sempre. Leggete un romanzo con rispetto: qualcuno ha sudato sangue per partorirlo, voi dovete sudare per arrivare all'ultima pagina. Ne vale la pena.


 

Paolo Papotti  è un bravissimo scrittore e un carissimo amico, come d'altronde lo sono Stas' e Andrea Monda. Che dire? Aggiungete Rai Libro ai vostri preferiti

Giuseppe Fava fu ucciso dalla mafia il 5 gennaio 1984, dopo un anno di inchieste, di battaglie, di denunce.


 Per non dimenticare


 

da "I Siciliani", Giuseppe Fava,  marzo 1983

La mafia nasce, cioè concettualmente si forma in Sicilia, una grande isola per tremila anni violentata da decine di invasioni diverse e che, nonostante guerre, rivolte, ribellioni, splendori e grandezze, battaglie e rivoluzioni tutte tese a conquistare una dignità di nazione, non è mai praticamente riuscita a essere uno Stato. Lo Stato erano gli altri. Lo Stato erano i conquistatori. Lo Stato che amministra, garantisce, impone, costruisce, preleva, insegna, percepisce, fa le leggi, esercita giustizia, questo Stato erano gli altri, cioè i nemici. Per tremila anni lo Stato in Sicilia è stato nemico, cioè una entità quasi sempre assente e che si appalesava soltanto per infliggere danno: le tasse, decime, gli arruolamenti, le confische. Né l'unità d'Italia ha dato questa certezza dello Stato presente e amico, semmai per successivi abbandoni e continue delusioni ha reso più amara questa solitudine. Gli avvenimenti politici per i quali in questi ultimi quarant'anni la capitale Palermo è stata soltanto colonia del potere romano, il fallimento della Cassa per il Mezzogiorno, il bluff delle grandi opere pubbliche mai realizzate, la collusione sempre più spavalda fra vertici di violenza e rappresentanti politici che hanno saccheggiato, diviso, lottizzato, devastato, spartito potere ed economia, e infine la crisi paurosa della giustizia [continua]

da "I Siciliani", Giuseppe Fava, 1983

Voglio fare un discorso corretto e sereno sui siciliani, premettendo naturalmente che io sono perfettamente siciliano. Un discorso sulla stupidità dei siciliani. Noi affermiamo spesso di essere straordinariamente intelligenti, quanto meno di avere più fantasia e piacere di vivere, rispetto a qualsiasi altro popolo della terra. Non è vero! La storia è là a dimostrarlo. Da migliaia di anni siamo semplicemente terra di conquista, gli altri arrivano, saccheggiano, stuprano, costruiscono qualche monumento, ci insegnano qualcosa, e se ne vanno. Noi ci appropriamo di una parte di quella civiltà, a volte diventiamo anche i custodi del tempio, in attesa che arrivi un'altra ondata saccheggiatrice. Siamo quasi sempre colonia per incapacità di essere veramente popolo. Presi i siciliani ad uno ad uno, può anche accadere che taluno riesca ad esprimere (nella poesia, nel delitto, nella finanza, nell'arte) attimi di ineguagliabile talento. Sono quelli che ci fottono, che ci danno l'impressione, spesso la certezza, di essere i migliori. Nella realtà, presi tutti insieme, siamo quasi sempre un popolo imbecille. [continua]









O Capitano! Mio Capitano!             
 
O Capitano! Mio Capitano! il nostro duro viaggio è finito,
la nave ha scapolato ogni tempesta, il premio che cercavamo ottenuto,
il porto è vicino, sento le campane, la gente esulta,
mentre gli occhi seguono la solida chiglia, il vascello severo e audace:
ma, o cuore, cuore, cuore!
gocce rosse di sangue
dove sul ponte il mio Capitano
giace caduto freddo morto.


O Capitano! Mio Capitano! alzati a sentire le campane;
alzati - per te la bandiera è gettata - per te la tromba suona,
per te i fiori, i nastri, le ghirlande - per te le rive di folla
per te urlano, in massa, oscillanti, i volti accesi verso di te;
ecco Capitano! Padre caro!
Questo mio braccio sotto la nuca!
E' un sogno che sulla tolda
sei caduto freddo, morto.


Il mio Capitano non risponde, esangui e immobili le sue labbra,
non sente il mio braccio, non ha battiti, volontà,
la nave è all'ancora sana e salva, il viaggio finito,
dal duro viaggio la nave vincitrice torna, raggiunta la meta;
esultate rive, suonate campane!
Ma io con passo funebre
cammino sul ponte dove il Capitano
giace freddo, morto.
 


 

(W. Whitman)

21/04/03

Quanto conta un buon incipit? Abbastanza. Forse anche di più.


Due siti succosi sulle prime roventi righe: Incipitario e un blog ad hoc

Gocce di vita (tonino pintacuda)  


Mi piacerebbe ricordarci tutti come dentro una foto. Sfidando il mondo, noi sempre lì. Stefano era malinconico. Ormai i dicotomici furori s'erano placati. Tutti se ne sbattevano, si lasciavano vivere negli ultimi giorni di quello strano giugno. Fumavano con distacco, maledicendo l'avvicinarsi dell'esame di stato. Tutti lì, a ronfare sul banco di formica con la testa piena di sogni in bikini. Erano cambiati, sicuro, erano cresciuti tutti. Stefano aveva detto pure addio a Stephen King, s'era letto Cuori in Atlantide e aveva smesso. Ora leggeva i classici, uno dopo l'altro, pagina dopo pagina nella sua testa si affollavano Hesse, Vittorini, Kafka, Golding, Beckett, Garcia Marquez. Tutti lì a cercarsi il loro spazio in quel cervello più che confuso. [continua]

Bar Sport (Stefano Benni)
Al bar Sport non si mangia quasi mai. C'è una bacheca con delle paste, ma è puramente coreografica. Sono paste ornamentali, spesso veri e propri pezzi d'artigianato. Sono lì da anni, tanto che i clienti abituali, ormai le conoscono una per una. Entrando dicono: "La meringa è un po' sciupata, oggi. Sarà il caldo". Oppure: "È ora di dar la polvere al krapfen". Solo, qualche volta, il cliente occasionale osa avvicinarsi al sacrario. Una volta, ad esempio, entrò un rappresentante di Milano. Aprì la bacheca e si mise in bocca una pastona bianca e nera, con sopra una spruzzata di quella bellissima granella in duralluminio che sola contraddistingue la pasta veramente cattiva. Subito nel bar si sparse la voce: "Hanno mangiato la Luisona!". La Luisona era la decana delle paste, e si trovava nella bacheca dal 1959.
La lingua salvata (Elias Canetti) 
Il mio più lontano ricordo è intinto di rosso. In braccio a una ragazza esco da una porta, davanti a me il pavimento è rosso e sulla sinistra scende una scala pure rossa. Di fronte a noi, sul nostro stesso piano, si apre una porta e ne esce un uomo sorridente che mi si fa incontro con aria gentile. Mi viene molto vicino, si ferma e mi dice: "Mostrami la lingua!". Io tiro fuori la lingua, lui affonda una mano in tasca, ne estrae un coltellino a serramanico, lo apre e con la lama mi sfiora la lingua. Dice: "Adesso gli tagliamo la lingua". Io non oso ritirarla, l'uomo si fa sempre più vicino, ora toccherà la lingua con la lama. All'ultimo momento ritira la lama e dice: "Oggi no, domani". Richiude il coltellino con un colpo secco e se lo ficca in tasca
Lo straniero (Albert Camus)
Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall'ospizio: "Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti." Questo non dice nulla: è stato forse ieri.
L'ospizio dei vecchi è a Marengo, a ottanta chilometri da Algeri. Prenderò l'autobus delle due e arriverò ancora nel pomeriggio. Così potrò vegliarla e essere di ritorno domani sera. Ho chiesto due giorni di libertà al principale e con una scusa simile non poteva dirmi di no. Ma non aveva l'aria contenta. Gli ho persino detto: "Non è colpa mia." Lui non mi ha risposto. Allora ho pensato che non avrei dovuto dirglielo.

Io sono il treno. Vi sento seduti su di me e vi vedo mentre mi entrate nella pancia. Adolescenti assoluti, donne incazzate, uomini con la faccia storta sulla Gazzetta dello Sport. Siete qui. Avete gli occhi incrostati di sonno.
Io sono il treno. Devo solo portarvi a destinazione. I binari mi grattano le ruote e arrivati nelle stazioni vi lascio andare per le vostre strade. Va così il mondo. Non mastico pensieri troppo profondi e mi spaventa chi lo fa. Voi non perdete tempo, scendete subito, come se vi facesse schifo restare anche un altro minuto dentro di me.
Io sono il treno, sui miei sedili si incrociano migliaia di vite, vedete il cielo nei miei finestrini e sono io che vi cullo sino alla vostra stazione. Pagate il biglietto, svelti, inizia un altro viaggio. Porterò voi e i vostri pensieri sulla rotta degli aquiloni.
Io sono il treno e voi siete i miei figli. Sento paure, angosce, felicità rare e sempre stanchezza. Pagate il biglietto, obliteratelo e rispettate le giacche verdi. Non cercate specchi vuoti, il vuoto è nei vostri occhi.
Io sono il treno. Io vi conosco.Io vi amo.Io sono voi. Voi siete miei.


(l'altro giorno, appuntata sul retro del programma di Storia della filosofia medievale)

e i pensieri sbiadiscono, il passato è meglio lasciarlo lì.


A che serve ricordare? Ogni parola,


ogni azione vista e rivista alla moviola


e io che volevo scrivere, scrivere e magari sceneggiare qualche buon film. film zeppi di dialoghi dannatamente buoni con conflitti generazionali e scazzottate, amori impossibili e il mare il mare solo il mare e Quel pugno, quei discorsi umidi di martini da Mario e le dita di Lisa macchiate dal sangue del fico e mi sta guardando. e che le dico? Sono stato io a creare la Grande Dicotomia... e manco sapevo bene che cazzo avevo in testa e quel tema libero che avevo riempito con spiedini di pensieri con la stilografica che mi macchiava la mano quella mano e quel pugno e quei pensieri che battevano veloci sulla strada SE FOSSERO I POETI E I FILOSOFI A GOVERNARE... avevo macinato parole su parole manco l'avevo riletto e la prof entusiasta l'aveva portato in trionfo quelle gocce di follia mi sembravano così reali così giuste e Paolino mi guardava mi guardava strano dopo quel pugno e mi teneva la mano e m'accarezzava il mento prima d'addormentarsi e veniva a farsi mettere le scarpe da me e le mie scarpe erano infangate e pioveva e io amavo la pioggia e correvo senza ombrelli e il sangue scivolava senza far rumore e la neve aspettava orme di passi diceva Garvajal e tubetti d'attack nuove rotture e la Grande dicotomia non sarebbe mai stata sanata e Platone m'aveva messo quella pulce e io cercavo di non pensarci ma vedevo mio padre e la sua cazzuola e la sua pancia tirata su a birre e insulti e gli occhi dietro la paura di qualche altro pugno e poi avevo fatto il borsone e alla stazione mio padre non c'era e poi l'eliminazione e la mia divisa immacolata e quei due serpeti che continuavano a mordersi la coda e soltanto pazzi come noi potevano crederci e ci stavamo riuscendo e c'avevano acclamato scegliendo tra noi e la morte e ora vorrei morire amando Lisa lasciandole la sua purezza ritrovata e continua a guardarmi con quel sangue di fico che le sgocciola sulle labbra e la bacio e per un pò non penso che a lei e ai suoi occhi e ai fantasmi delle sue cicatrici e Sylvya Plath mi sorride con quel suo cappello di paglia e il vecchio Ernest aveva lasciato che i pescicani divorassero la vittoria di Santiago e l'aveva lasciato lì in mezzo al mare ci son camin che fumano e i capelli di Lisa neri come i suoi occhi neri come quello che c'aspetta e il mio indice sinistro ormnai è cibo per vermi e non scrivo più e la morte avrà i suoi occhi e morirò guardandola pensando alla luna gitana che sorride da troppi secoli e i tori a Pamplona continuano a correre per la gioia nostra e di Ernest e quel colpo di fucile gli aveva cancellato il sorriso e la faccia e addio al mondo e alle armi e la luna gitana sempre lì.

Un cancello cigola, nessuno li segue.


Alessandro sbuccia per Lisa un fico d'india, uno di quelli rossi e polposi. Le mani ricordano la lezione del padre, lo tiene dai lati, incide la scorza spinata all'estremità e con un taglio preciso gl'apre la pancia. Gliel'aveva insegnato secoli prima e lui aveva seguito con attenzione quelle mani, quelle grandi mani callose, mani da muratore. Pensava a quel lontano dicembre.


...Era arrivato primo al traguardo, aveva sorpassato tutti e ora si aspettava onori e gloria. I Beatles dallo stereo cantavano Obladì Obladà e lui Fischiettava ma quella canzoncina spensierata stavolta non riesce a farlo sorridere e Il busto di gesso di Kafka lo guarda dalla sua postazione lì, accanto al telefono, quel faccione bianco vorrebbe qualche delucidazione ma La sua scrivania è invasa da foglietti appiccicati su qualsiasi cosa e tutti quei libri formano una specie di scaletta verso il poster dell'urlo che riempie la parete più luminosa. La sua macchina da scrivere, la vecchia olivetti 98 con nastro bicolore è affamata, vorrebbe addentare qualche nuovo foglio bianco, sbranarlo con i suoi tasti grippati ma non ha voglia di scrivere, non è il momento. Si alza dal letto e guarda lo specchio, la sua faccia, poche strisce di pelle sgombre da capelli e barba. Il resto è un ammasso informe di gel, peli e capelli sotto il cappello di lana con i colori della Giamaica. Non ha fame non ha sonno. Il quadro di Gesù e i pargoli gli è sempre piaciuto, forse non condivide la gerarchia della Chiesa ma Cristo gli ha fatto sempre simpatia, hanno perfino lo stesso look. ha pensato abbastanza, qualche pagina l'ha meditata. Scende le scale con la coscienza a posto. La sacra famiglia è tutta in salotto, stanno montando il presepe e Qualche anno prima gli piaceva partecipare a quel rito immutabile, sempre la stessa struttura, la stessa angolazione della capanna, gli stessi ciuffi di muschio sintetico, le stesse pecorelle. Tutto come sempre, il pater familias che sistema le lucine, la sorella che bada a Paolino, la mater con quello sguardo sintetico come il muschio. vuole bene a tutti ma il suo preferito resta Paolino. Ha smesso d'andare in chiesa quando ha visto gli occhi a mandorla del pupetto e in testa quel dottore che fa la faccia impassibile e quella condanna: TRISOMIA 21 "Nemmeno si saluta più? Si mangia e si dorme, meglio del Ritz!" suo padre bloccato al mitico tempo in cui ai genitori si dava del lei, rispetto e silenzio. Il binomio perfetto, il dialogo serve solo a far venire su capelloni buoni solo a leggere libri. "Io non so che fare con te, le ho provate tutte. Guarda quelle foto, eri così saggio!" la discussione si scalda, la signora ha smesso di pensare al suo grande problema di Paolino e ora sventaglia i suoi argomenti migliori. E quell'indice accusatore termina con un'unghia laccata di un rosso pompeiano, la stessa tonalità del rossetto. La traiettoria è chiara, tra le tante foto che fanno bella mostra sul pianoforte, lui a sei anni, con in faccia il il migliore sorriso del repertorio sotto i capelli a caschetto e i suoi primi occhiali con la montatura in plastica. definire saggio un bambino di sei anni solo perché riesce a scrivere parole come sciabordio, becchettio e acquedotto all'esame di primina niente di più. E lui non replica, preferisce evitare discussioni che servono solo a far piangere Paolino. Paolino che parla come un megafono della stazione di Palermo , Paolino che sa capire le persone. E Selene, sedici anni pronti a dare il loro contributo alla discussione. "Guardalo, papi, con quel cappello sempre buono a criticare. forse frequenta brutte compagnie... sembra un tossico" e lei, la dolce sorellina, tutta casa e chiesa che gira l'angolo, sale sulla Z3 di quel pervertito che cerca di plagiarla E i capelli pettinati da chirichetta diventano la chioma dell'ultimo dei Mohicani, e la discussione scivola verso Marco, il ragazzo di Selene e lui Può finalmente uscire senza affogare nelle paranoie medio-borghesi della sacra famiglia. Il presepe s'è fermato, Selene ha ancora in mano l'angioletto che annuncia la grande notizia ai pastori semiaddormentati; Paolino sta facendo belare le pecorelle facendole uscire dal recinto che le teneva prigioniere. Ride di gusto, spensierato, nemmeno sa che la mammina che adora lo veda come un inghippo, un errore tecnico. e lui saluta tutti per l'ultima volta e un cerino accende una sigaretta al mentolo. Fuori piove e la pioggia gli piace. Preferisce camminare lontano da quella gabbia che sente sempre più stretta. Cammina svelto, senza ombrello col cappuccio della giacca a vento sul cappello di lana, solo venti minuti alle otto. Dovevano rovesciare il mondo e poteva andare solo da Mario. Entra, la giacca nell'appendipanni e va nella zona biliardo. Ci sono già tutti e la Grande Dicotomia era appena iniziata e poi quel pugno. Lui aveva colpito suo padre e con quello aveva messo fine a ogni cosa S'era scordato dei fichi d'india e i filosofi avevano rovesciato il mondo.

20/04/03

nuova, inquietante grafica per il blog: da sx a dx... IT, Homer, un teschio, la foto della carta d'identità, il diavolo senza mutande di Mucca e Pollo, Trinity, Morpheus e Neo, ElTofo e Sisifo. Bella combriccola... /risoluzione consigliata 1024 X 768.

S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia


L’angoscia è la possibilità della libertà; soltanto quest’angoscia ha, mediante la fede, la capacità di formare assolutamente, in quanto distrugge tutte le finitezze scoprendo tutte le loro illusioni. E nessun grande inquisitore tien pronte torture cosí terribili come l’angoscia; nessuna spia sa attaccare con tanta astuzia la persona sospetta, proprio nel momento in cui è piú debole, né sa preparare cosí bene i lacci per accalappiarla come sa l’angoscia; nessun giudice, per sottile che sia, sa esaminare cosí a fondo l’accusato come l’angoscia che non se lo lascia mai sfuggire, né nel divertimento, né nel chiasso, né sotto il lavoro, né di giorno, né di notte.


Colui ch’è formato dall’angoscia, è formato mediante possibilità; e soltanto chi è formato dalla possibilità, è formato secondo la sua infinità. Perciò la possibilità è la piú pesante di tutte le categorie. (...)

I. Kant, Critica della ragion pratica, Conclusione


Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire al pianeta (un semplice punto nell’Universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme ai fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito.

(STROZZARICORDI - toninopintacuda)


Slaccia quella cintura. La spia s'è spenta e il comandante e l'equipaggio ringraziano.
Tieniti solo quel nome e tutti i ricordi che strozza. Vent'anni dopo torni a casa, avevi detto al mare che non saresti più tornato ma lascia perdere le vecchie promesse nell'abbraccio di tua madre e nella stitica mano di suo marito.
Ti dicono tutti di non farlo ma già lo sai che quella foto tornerà, tutte le notti ti ripeterà dagli angoli che non sei riuscito ad aiutarlo.
Diglielo.
Diglielo ai suoi genitori che avevi solo vent'anni e c'erano ancora i Beatles, tutti e quattro a cantare che all you need is love, tattararaaa... Hai perso la grinta, l'hai persa in troppi bar a vomitare in quei cessi e Kafka alla fine ce la farà a mangiare come un uomo, si toglierà la bombetta e suo padre sarà finalmente felice.
Sarai fiero pure tu, papà, che le basette e la barba sono state scopate via dal barbiere. Pure tu, mamma, sarai fiera ma questo cemento m'aspetta da troppo tempo.
Il vento mi soffia sul borsone e quello lì vende ancora le castagne calde calde e racconta ancora com'era buona la cioccolata degli alleati alla fine del 43. Il presente non esiste che appena parlo il futuro è già passato e quante schedine strappate e sbagliate solo per tre X. L'indice esita su quel dannato campanello bitonale con i suoi din don sempre uguali e magari ce la faccio a dire che Gianluca è morto. La voce è mia a in testa ancora Kafka con la sua faccia storta sotto la bombetta per le vie di Praga con troppi sogni tormentati da cui svegliarsi sulle zampine di Gregor.
Gianluca è morto e io odiavo il suo lampadario a forma di Snoopy, ci sbattevo sempre la testa quando salivo sulla sedia per prendere i giornaletti da quattro Pater Noster e due Ave Maria.
Sapevano già, i suoi genitori sapevano tutto. Lo capivi solo ora che gli scheletri stanno sempre in buona compagnia, fai quel gioco, rinsegui i pensieri al contrario e non capisci ancora che quel taglio a Y ce l'hai pure tu, nel petto, che tutte quelle corse sulla vespa non le metteranno nella formalina, tra cuore e cervello solo lo Spaventapasseri e l'uomo di latta sapevano scegliere ma nessun sentiero dorato da seguire e nessun pensiero felice per volare su Bagheria.
Gli aquiloni si sono impiccati sulle antenne e non puoi liberarli.
Ti resta solo polvere nell'imbottitura di velluto, solo sangue sui bisturi che sgocciola nel buco del tavolo d'acciaio.
Solo sangue sui bisturi. Scivola via.
Dal taglio a Y.
Dal biglietto obliterato sui sassi d'Itaca.


«il mio viaggio a Buenos Aires lo faccio in compagnia di un angelo. Ho bevuto un bel po’ e mangiato tantissimo. Come dicono i vecchi emigranti ai nuovi:- devi mangiare molto se vuoi essere forte qui in America. – Penso abbiano ragione.
Qui in America devi essere forte, non puoi permetterti di essere come in Italia.»


terzo messaggio da Eltofo in Argentina (il resto sul suo blog)

Ricordo: la maestra arpia dell'asilo che mi strappa Skeletor e lo scaglia su un armadio alto quanto il gigante di Pollicino/ Ricordo: i puzzle dell'asilo e la ragazzina dai capelli gialli/ Ricordo: i pensierini, dieci per ogni parola/Ricordo: mia sorella che snocciola filastrocche giocando a pallavolo col muro/Ricordo: Uan e la caciotta fetecchia che non finisce nella secchia perché piace pure alla vecchia/Ricordo: Odi et amo, la strada del cimitero, la giacca di pelle, ricordo il primo bacio con la lingua e troppi pensieri in testa e il profumo caldo e le mani sui capelli.../Ricordo: i viaggi con l'oratorio e le pomiciate da Palermo a Bologna, andata e ritorno/Ricordo: la prima volta che ho sfilato uno slip e il cervello fuso e ricordi e istinto  e fretta e calma e tutto quell'odore "che non va più via"/Ricordo: l'odore di tutte le donne che ho amato/Ricordo: le sigarette in bagno e la campanella delle 14,10/Ricordo: la bicicletta in discesa sulle curve della litoranea/Ricordo: il fandango che balla il cuore nel primo esame universitario/Ricordo: l'emozione del primo trenta sul libretto/Ricordo: la caldarella e la cazzuola e il finto dialetto siciliano svenduto in cantiere/Ricordo: la voce del prof. e il primo 10 in pagella/Ricordo: le notti insonni a non riuscire a credere di stare con lei/Ricordo: la sala d'attesa del veterinario con tutti i cani del mondo venuti lì a pisciare/Ricordo: la Renò 4 verde pisello/Ricordo: quando qualcuna ti chiama "il mio ragazzo": bella definizione, pesante, rivoltante, fuggi, scappa che è meglio così perchè il primo bacio è bello, svegliarsi abbracciati è stupendo ma poi cominciano le stronzate e tu sei fottuto, distrutto, rotto che manco tutti i tubetti attack del mondo riescono a rimetterti insieme


Ogni tanto il passato va ricordato...

5 anni dopo


La descrizione di un attimo. La ascolto mentre scrivo. Eh, già, la descrizione di un attimo è stata la prima cosa pensata nel rivederti. E tutta l'allegra combriccola col cervello ancora più trifolato, molta più barba, meno illusioni e più disamori nelle dita.
Ma quale attimo mi hai ricordato?
Troppi e tutti assieme. L'altra notte ti pensavo, capita spesso quando l'unica voce nella notte è quella dello scaldabagno. Ci sono notti che il letto a due piazze è troppo grande, anche per i ricordi. Il presente non esisteva.  C'ero io e c'eri tu, ci bastava. E pensavo che magari potevo diventare Qualcuno e  avere almeno tre cani e sei gatti e vedere crescere loro e noi su una spiaggia greca, sì una casa in Grecia, a respirare la stessa aria di Platone, di Socrate, di Omero... Vivevo di immagini e di tramonti starnutiti sulla terra solo per noi.
Sì, l'altra notte era troppo vuoto il letto. Mi perdo ancora a Palermo e voglio girare il mondo con l'infinito che mi mastica il futuro. Non leggo più tanti libri, ne leggo abbastanza per riempire un'altra riga del libretto universitario, mancano una manciata di materie e poi sarò pronto per la depressione da disoccupato. Bacerò un'altra donna  e cercherò ancora i tuoi occhi, avrò abbastanza da dire?
Amo le canzoni dei Beatles solo se le cantano i Beatles, amo quella sfumatura di occhi solo nei tuoi occhi.

19/04/03

"L'infinito, forse è nella mente di ognuno di noi"


Dylan Dog


(ricordiamoci che il 29 aprile esce il numero 200)

Picture yourself on a train in a station,
With plasticine porters with looking glass ties,
Suddenly someone is there at the turnstyle,
The girl with the kaleidoscope eyes.


the Beatles, Lucy in the Sky with Diamonds


(omaggio sincero alle potenzialità dell'LSD) L'inizio è una goccia caduta su un dito. 1943, mattina del 16 aprile, proprio come oggi. A Basilea un chimico svizzero, Albert Hofmann, nel laboratorio della casa farmaceutica Sandoz, sperimentava con l'ergot, un fungo parassita della segale, alla ricerca di un nuovo farmaco. Pensava a un cardiotonico, scoprì l'Lsd. La droga che ha cambiato la cultura Usa degli anni '60 e '70. La goccia di dietilammide dell'acido lisergico appena sintetizzata (Lsd è il suo acronimo dal tedesco) cadde sul dito e lo scienziato venne catapultato in una dimensione che una ventina d'anni più tardi si sarebbe trasformata in meta e manifesto della rivoluzione psichedelica. [ab]Divenni improvvisamente sensibile, il mondo esterno si trasformava come in un sogno. Se tenevo gli occhi chiusi mi attraversava un flusso di immagini fantastiche[bb]. Quello che vide Hofmann per caso, da quel giorno molti l'avrebbero cercato per gonfiare la propria creatività, dimenticare la realtà e ricordare i sogni. Sessant'anni dopo, l'Lsd ha una lunga storia da raccontare, una storia in bilico fra incoraggiamenti e repressione, verità e miti, come i francobolli allucinogeni, che sembrano sempre sul mercato, ma è difficile che ci sia notizia di un sequestro.
[ Lsd, 60 anni di leggenda droga tra arte e spionaggio ]

 Scherza? Io scrivo per gli altri. Sono balle quando qualcuno dice che lo scrittore scrive per se stesso. Quelli che tengono le loro opere nel cassetto non vedono l'ora di essere pubblicati postumi...


(Tiziano Sclavi, un'intervista)

Il treno sui binari sdentati l'ha lasciato alla stazione.
Scende e s'accende una sigaretta, la scaglierà sul secondo marciapiede
e la calpesterà. Lo fa sempre.
Si guarda la faccia nel riflesso della vetrina,
la vede troppo bianca tra le cosce di due mancihini nudi.
Cammina e la borsa di pelle gli cigola a ogni passo.
Pensa che tutto si può aggiustare, basta non risparmiare sulla colla.
Lui l'ha fatto una volta e s'è ritrovato in mano un anello in più e una fidanzata in meno.

18/04/03

« [...] vediamo chi è stato che ha sognato tutto. È una questione seria [...] Vedi, o sono stato io, o è stato il Re Rosso. Egli era parte del mio sogno, naturalmente... ma io ero parte del suo sogno, anche. È stato il Re Rosso?[...] »


(Attraverso lo specchio)

DELLA MORTE (nazim hikmet, 1946)

 
Entrate, amici miei, accomodatevi
siate i benvenuti
mi date molta gioia.
Lo so, siete entrati per la finestra della mia cella
mentre dormivo.
Non avete rovesciato la brocca
nè la scatola rossa delle medicine.
I visi nella luce delle stelle
state mano in mano al mio capezzale.
 
Com'è strano
vi credevo morti
e siccome non credo nè in Dio nè all'aldilà
mi rammaricavo di non aver potuto
offrirvi ancora un pizzico di tabacco.
 
Com'è strano
vi credevo morti
e voi siete venuti per la finestra della mia cella
entrate, amici miei, sedetevi
siate i benvenuti
mi date molta gioia.
 
Hascìm, figlio di Osmàn,
perchè mi guardi a quel modo?
Hascìm figlio di Osmàn
è strano
non eri morto, fratello,
a Istanbul, nel porto
caricando il carbone su una nave straniera?
Eri caduto col secchio in fondo alla stiva
la gru ti ha tirato su
e prima di andare a riposare
definitivamente
il tuo sangue rosso aveva lavato
la tua testa nera.
Chi sa quanto avevi sofferto.
 
Non restate in piedi, sedetevi.
Vi credevo morti.
Siete entrati per la finestra della mia cella
i visi nella luce delle stelle
siate i benvenuti
mi date molta gioia.
 
Yakùp, del villaggio di Kayalar
salve, caro compagno,
non eri morto anche tu?
Non eri andato nel cimitero senz'alberi
lasciando ai tuoi bambini la malaria e la fame?
Faceva terribilmente caldo, quel giorno
e allora, non eri morto?
 
E tu, Ahmet Gemìl, lo scrittore?
Ho visto coi miei occhi
la tua bara scendere nella fossa.
Credo anche di ricordarmi
che la tua bara fosse un po' corta per la tua statura.
 
Lascia stare, Gemìl
vedo che ce l'hai sempre, la vecchia abitudine
ma è una bottiglia di medicina, non di rakì.
Ne bevevi tanto
per poter guadagnare cinquanta piastre al giorno
e dimenticare il mondo nella tua solitudine.
 
Vi credevo morti, amici miei
state al mio capezzale la mano in mano
sedete, amici miei, accomodatevi.
Benvenuti, mi date molta gioia.
 
La morte è giusta, dice un poeta persiano,
ha la stessa maestà colpendo il povero e lo scià.
Hascìm, perchè ti stupisci?
Non hai mai sentito parlare di uno scià
morto in una stiva con un secchio di carbone?
La morte è giusta, dice un poeta persiano.
 
Yakùp
mi piaci quando ridi, caro compagno
non ti ho mai visto ridere così
quando eri vivo ...
Ma lasciatemi finire
la morte è giusta dice un poeta persiano ...
 
Lascia quella bottiglia, Ahmer Gemìl,
non t'arrabbiare, so quel che vuol dire
affinchè la morte sia giusta
bisogna che la vita sia giusta.
 
Il poeta persiano ...
Amici miei, perchè mi lasciate solo?
 
Dove andate?

 

17/04/03

(aveva ragione Vanadia: ti eri preparata per l'Università)(sempre dei Tre Allegri Ragazzi Morti)


((IL PRINCIPE IN BICICLETTA [la canzone della cameriera]))

sarà che sei da troppo in piedi
dietro un banco che non sa
che ti eri preparata per l'università


quell'idiota che ti guarda
ha capito troppo già
quel che vuole evidentemente è ciò che non avrà


ma se vuoi farlo adesso
in qualunque posto sia
anche se non ti vuol bene pretendi almeno che ci sia


a cavallo di una bici il tuo principe verrà
e se qualcos'altro vuoi
lui te lo darà


quell'idiota che ti guarda
ha bevuto troppo già
quel che vuole evidentemente è ciò che non avrà


ma se vuoi farlo adesso
con qualunque idiota sia
anche se non ti vuol bene pretendi almeno che ci sia


a cavallo di una bici il tuo principe verrà
e se qualcos'altro vuoi
lui te lo darà


sarà che lavori troppo
e che sorridi a tutti ma
non t'ho mai vista così bella e così comica

premessa: amo i gatti, forse c'entra o forse no, solo che mi sono preso un mega cazziatone dalla mia 'più amica' per aver messo qui il racconto di Poe (naturalmente lei non l'aveva semplicemente riconosciuto (troppo martini?), per farmi perdonare metto su un racconto mio abbastanza malinconico e un fiore del male ad hoc... 


Il gatto (baudelaire)  


Vieni sul mio cuore innamorato, mio bel gatto: 
trattieni gli artigli della zampa,
e lasciami sprofondare nei tuoi occhi belli 
misti d'agata e metallo.


Come s'inebria di piacere la mia mano 
palpando il tuo elettrico corpo
con le dita che tranquille ti accarezzano 
la testa e il dorso elastico!


E penso alla mia donna, a quel suo sguardo 
come il tuo, amabile bestia,
freddo e profondo che taglia e fende come freccia,


e a quell'aria, a quel profumo
che pericoloso fluttua sul suo corpo 
dai piedi su fino alla testa!


Ho messo via…



 Mozziconi spolpati di passato gli scheggiavano gli occhi e Ulisse continuava a pestare sull'acceleratore. Sentiva qualcosa gracchiare sotto il cofano ma non era il momento di fermarsi, continuava a correre verso Palermo senza badare ai colpi d'abbaglianti che lo scongiuravano di lasciare la corsia di sorpasso. La vedeva con un pezzetto di specchio retrovisore, la vedeva sprofondare nelle molle sgangherate del sedile, piangeva.
 Un altro Ulisse stava per morire, se lo sentiva. Stavolta sarebbe affogato. Inghiottiva saliva amara di tabacco e lacrime che non sapeva ricacciare dentro. Era finita, quell'estate troppo breve era finita, la loro storia l'aveva uccisa. Non sapeva come comportarsi, stringeva tra le mani il volante, immaginandosi di stringere il collo di quel bastardo che aveva sparato sperma sulle sloggi della sua Stefania. Sapeva tutto, la sua corsa verso la Morte non era stata inutile, appena aveva posteggiato Stefania gli aveva sputato addosso la sua condanna. I suoi occhi di cielo brillavano di luna e paura, vomitavano lacrime.


Erano scesi, lui non sapeva nemmeno dove cazzo erano finiti, aveva lasciato Viale Regione Siciliana e ora non riusciva ad orientarsi, s'era acceso una camel 100's e sulle distorsioni delle casse della Renò lei aveva iniziato a parlare.
 Anche lei s'era accesa una sigaretta, una Merit le stava attaccata a quelle labbra così piccole sporche di rossetto. S'era fasciata in un piccolo vestitino nero e si aggrappava alla borsetta come se quella imitazione Onix fosse 'na specie di talismano. Fumava a piccole boccate e parlava piano tra le lacrime e gli strani ghirigori del fumo, ogni tanto si fermava come per riprendersi la sua vita, si fermava guardava la luna e guardava Ulisse, lo guardava scazzottare il tetto della Renò, lo guardava morire.
Cinque anni per costruire la loro storia e solo due settimane dalla nonna per uccidere la loro storia.


Lei fumava e insieme al fumo le uscivano cose che non pensava. Ulisse avrebbe preferito piantarsi scaglie di ferro tra le unghia.
-Non puoi essere il padre che non ho avuto, non puoi essere il mio angelo custode! Non potrai essere sempre dietro di me per correggermi, tra poco me ne vado e non ti resteranno altro che i tuoi romanzi, usa pure questa notte per riempire qualche pagina! -


E lui era rimasto lì, muto. 
Non se la sentiva di muoversi, guardava i granchietti che s'arrampicavano coraggiosi sugli scogli, il mare gli cantava la sua vecchia canzone e le sigarette erano pure finite. A quelle piccole assassine bianche e arancione poteva rinunciare.
Si ricordava solo spezzoni montati male di quella notte di luna, la corsa con la Renò, gli abbaglianti, il buio che era dentro e fuori di lui, le sue Merit e quelle terribili parole che s'erano appiccicate come calamari, strette al cervello e al cuore con i loro tentacolini di rabbia e rancore. Non si sarebbero spiccicate tanto presto. Erano le quattro, le quattro e la luna d'agosto sembrava parlargli, gli parlava del suo passato, glielo gridava nelle orecchie. Il futuro era un sussurro di ninna nanna, quella notte sarebbe finita presto.


 Una bottiglia di birra becchettava sui tappetini, l'afferrò sopra l'etichetta e la scagliò lontano. Si fermò un breve istante sul pelo dell'acqua, il mare sembrò assaggiarla, poi la tirò a fondo. La stessa cosa avrebbe fatto volentieri con il ricordo di Stefania, l'avrebbe strappato via e tirato lontano, su un'altra galassia.
Non aveva sentieri dorati da seguire, voleva solo vivere assassinando il giorno e il suo passato. Sapeva che non sarebbe stato facile, lo sapeva lui e lo sapeva anche il mare.


E la luna era sempre sopra di lui, lucida di pianto.


***


La Renò era posteggiata vicino la spiaggia, Bob Dylan continuare a chiedersi quante strade dovrà percorrere un uomo. Se lo chiedeva anche Ulisse. Era ancora lì, i granchietti non c'erano più, era restato solo lui, il mare e la luna.
Era davvero successo: la loro storia, la loro estate, la sua stabilità emotiva erano naufragate come quella bottiglia di birra. Non riusciva a fare la stessa cosa con Stefania, la voleva rivedere, spiegarle che non gliene fregava nulla, avrebbero potuto superare tutti quei problemi insieme.


   Lasciava galleggiare i suoi pensieri come polipi bolliti. Seguivano proprio la forma di un polipo: la testa era l'idea fissa a cui s'attaccava tutto il resto, tentacoli contorti che stringevano anche il suo domani. Stava ricordando il suo tema, era un bel pezzo. Con quelle quattro colonne s'era beccato la menzione. Appena aveva visto l'urlo di Munch gli era venuta voglia d'intervistarlo. E l'aveva fatto. Era entrato nel quadro e passeggiando lungo il ponte della vita aveva incontrato il protagonista del processo kafkiano e Godot. La frase che gli piaceva di più la faceva dire a Joseph K.:
- Non pensare è il sogno di tutti. Guarda il mare. Che ci aspetta dall'altra parte? Basterebbe che tutti si fermassero un solo minuto. Solo sessanta secondi per ascoltare la voce del mare. -
Credeva a quello che scriveva, per questo gli riusciva così bene riempire fogli. Alla fine del tema restava solo sul ponte a vedere tutti i suoi perché affondare sotto quel cielo di fuoco, restava lì e si tappava le orecchie per non sentire quell'urlo senza tempo.
Ora sentiva solo l'urlo del suo cuore.


Mancava poco e il sole avrebbe ucciso quella notte, Ulisse voleva morire. Lo sentiva dentro, la morte però non poteva essere la soluzione, non era la risposta che Bob Dylan cercava nel vento.


Salì sullo scoglio più alto; tante volte era venuto lì con Stefania. Non aveva voglia di pregare, non l'aveva mai fatto sul serio, lo faceva solo perché sua madre era contenta così. In bocca si sentiva il sapore dei piccoli capezzoli di Stefania, non guardava giù, cercava solo di sentire la voce del mare e per la prima volta la sentì sul serio, era come se l'era immaginata, uno sciabordio lontano come un mugolio di piacere, una voce calda, materna. Era una voce di placenta, non assomigliava a quello che si sente dentro una conchiglia.
Quella voce l'aveva risvegliato.


Le scarpe le lasciò sullo scoglio, le lasciò lì doveva aveva lasciato il vecchio Ulisse e si buttò piegando leggermente le ginocchia. L'impatto con l'acqua gli schiaffeggiò la faccia, sputò via una bella scatarrata e si ritrovò a sorridere. Era fradicio e continuava a ridere sputacchiando acqua salata. Rideva mentre il sole sbadigliava nel cielo rosso. 

15/04/03

The Black Cat (1842-1843)


Per il più folle e insieme più semplice racconto che mi accingo a scrivere, non mi aspetto né sollecito credito alcuno. Sarei matto ad aspettarmelo in un caso in cui i miei stessi sensi respingono quanto hanno direttamente sperimentato. Matto non sono e certamente non sto sognando, ma domani morirò e oggi voglio liberarmi l'anima. Il mio scopo immediato è quello di esporre al mondo pianamente e succintamente una serie di semplici eventi domestici, senza commentarli. Le loro conseguenze mi hanno terrorizzato, torturato, distrutto, ma non tenterò di spiegarli. Per me hanno significato nient'altro che orrore, ma per molti sembreranno meno terribili che barocchi. Si potrà, forse, trovare qualche intelletto che ridurrà il mio fantasma ad un luogo comune - qualche intelletto più calmo, più logico e molto meno eccitabile del mio che possa cogliere nelle circostanze che io evoco con timore, nient'altro che una normale successione di cause ed effetti naturalissimi.
Fin dall'infanzia ero noto per la docilità e l'umanità del mio carattere. Ero così tenero di cuore da diventare quasi lo zimbello dei compagni. Ero particolarmente affezionato agli animali e i miei genitori mi concedevano di tenere una grande quantità di animaletti domestici. Con essi passavo gran parte del mio tempo e niente mi rendeva più felice del nutrire e carezzare le bestiole. Questa mia tendenza crebbe con gli anni ed anche quando divenni adulto trassi da essi il massimo diletto. Tutti coloro che hanno provato affetto per un cane fedele e intelligente comprenderanno facilmente la natura e l'intensità del piacere che se ne può trarre. C'è qualcosa, nell'amore disinteressato e capace di sacrifici di una bestiola, che va direttamente al cuore di chi ha avuto frequenti occasioni di mettere alla prova la gretta amicizia e l'evanescente fedeltà del semplice Uomo.
Mi sposai presto e fui felice di trovare in mia moglie una disposizione analoga alla mia. Avendo notato la mia passione per gli animali domestici, non tralasciò occasione per procurarmene delle specie più gradevoli. Avevamo uccelli, pesci rossi, un grazioso cane, dei conigli, una scimmietta ed un gatto.
Quest'ultimo era un animale grande e molto bello, tutto nero, e intelligente al massimo grado. Parlando della sua intelligenza mia moglie, non aliena da una certa superstizione, faceva frequenti allusioni all'antica credenza popolare che vedeva i gatti neri come delle streghe travestite. Non che fosse una cosa seria per lei; del resto io ne parlo solo perché proprio ora me ne sono ricordato.
Plutone - questo è il nome del gatto - era il mio animale preferito ed il mio compagno di giochi. Solo io gli davo da mangiare, mi aspettava quando tornavo a casa e a fatica potevo impedire che mi seguisse nella strada.
La nostra amicizia durò così per molti anni, durante i quali il mio carattere ed i miei modi, per l'azione di una diabolica intemperanza, subirono (arrossisco nel dirlo) una radicale trasformazione in peggio. Divenni giorno dopo giorno più strambo, irritabile, meno rispettoso dei sentimenti altrui. Mi permisi di usare un linguaggio irriguardoso con mia moglie; alla fine arrivai con lei alla violenza. Le mie bestiole sentirono senz'altro il cambiamento dei miei modi. Non solo li trascuravo, ma li maltrattavo. Per Plutone, tuttavia, avevo ancora un certo riguardo che mi impediva di maltrattarlo, mentre non mi facevo scrupolo di maltrattare i conigli, la scimmietta e perfino il cane, quando per caso o per affetto attraversava la mia strada. Ma il mio malessere cresceva - che razza di malattia è l'Alcool! - ed alla fine anche Plutone, ora divenuto vecchio e conseguentemente un po' più irritabile - persino Plutone, cominciò a provare gli effetti del peggioramento del mio carattere.
Una notte, tornando a casa ubriaco fradicio, da uno dei miei soliti giri per le bettole della città, mi sembrò che il gatto evitasse la mia presenza. Lo afferrai e quello, impaurito dalla mia violenza, mi fece con i denti una piccola ferita sulla mano. La furia di un demonio si impossessò di me rendendomi irriconoscibile perfino a me stesso. Mi sembrò che la mia anima originale fosse volata via dal mio corpo ed una cattiveria feroce, alimentata dal gin, invase tutte le fibre del mio corpo. Presi dalla tasca un temperino, lo aprii, strinsi la povera bestiola alla gola e deliberatamente gli cavai un occhio dall'orbita! Arrossisco, brucio, rabbrividisco nello scrivere di questa dannata atrocità.
Quando mi tornò la ragione al mattino - sbolliti nel sonno i fumi dell'orgia notturna - provai un senso per metà di orrore e per metà di rimorso per il crimine che avevo commesso; ma fu solo un sentimento superficiale ed equivoco, l'anima non ne fu toccata. Mi tuffai di nuovo negli eccessi ed affogai nel vino tutti i ricordi del fatto.
Frattanto il gatto lentamente si era ripreso; l'orbita vuota dell'occhio aveva un aspetto pauroso, ma sembrava che egli non sentisse più dolore. Girava come sempre per casa ma, come era facile attendersi, filava via atterrito appena mi avvicinavo. Mi era rimasto abbastanza del mio vecchio cuore da provare un certo dolore per l'evidente antipatia da parte della creatura che una volta mi aveva amato. Questo sentimento si trasformò presto in irritazione ed infine, come un irrevocabile ribaltamento, comparve lo spirito della PERVERSITÀ. Di questo spirito la filosofia non tiene conto; ma io non sono tanto sicuro dell'esistenza della mia anima, quanto lo sono del fatto che questa forma di malvagità perversa è uno degli impulsi primordiali del cuore umano - una di quelle inscindibili facoltà primarie, o sentimenti, che governano il carattere dell'Uomo. Chi non si è trovato centinaia di volte a compiere un'azione vile o stupida, per nessuna altra ragione di quella che non doveva farlo? Non abbiamo forse una perpetua inclinazione a violare, a dispetto dei nostri migliori intendimenti, quella che è la Legge, soltanto perché comprendiamo che di questa si tratta? Questo spirito di perversità causò la mia completa rovina. Fu questa insondabile propensione dell'anima a torturare se stessa - a fare violenza alla propria natura - a compiere il male per il piacere di farlo - che mi spinse a continuare e portare a termine l'offesa che avevo inflitto all'inoffensiva bestiola. Una mattina, a sangue freddo, feci scorrere un cappio intorno al suo collo e l'impiccai al ramo di un albero; l'impiccai mentre le lacrime mi cadevano dagli occhi ed il più atroce rimorso tormentava il mio cuore. L'impiccai perché sapevo che mi aveva amato e perché non mi aveva dato alcun motivo di sentirmi offeso - l'impiccai perché sapevo che così facendo commettevo un peccato - un peccato mortale che avrebbe messo in pericolo la mia anima immortale così da porla se ciò fosse possibile al di fuori persino dalla portata della infinita misericordia del Dio Più Misericordioso e Terribile.
Nella notte che seguì al giorno in cui avevo compiuto quella crudele azione, fui svegliato dal grido "Al fuoco". Le cortine del mio letto erano in fiamme, l'intera casa bruciava. Con grande difficoltà mia moglie, una serva ed io stesso riuscimmo a sfuggire all'incendio. La distruzione fu così completa che tutto il mio patrimonio venne divorato dalle fiamme e da allora mi ritrovai ridotto alla disperazione.
Non ho la debolezza di cercare di stabilire un nesso di causa ed effetto, tra il disastro e le atrocità commesse, ma sto descrivendo una sequela di fatti e non voglio tralasciare alcun legame tra di loro. Il giorno successivo all'incendio andai a vedere le rovine. Le pareti, con una sola eccezione, erano crollate. L'eccezione era costituita da una parete divisoria, posta all'incirca al centro della casa, contro la quale prima dell'incendio era stata appoggiata la testa del mio letto. L'intonaco aveva qui resistito, in larga misura, all'azione del fuoco - un fatto che attribuii alla circostanza che era stato rifatto da poco. Di fronte a questa parete si era radunata una densa folla e molte persone sembrava stessero esaminando con grande attenzione una particolare zona di essa. Le parole "Strano!" "Singolare!" ed altre espressioni simili eccitarono la mia curiosità. Mi avvicinai e vidi, come scolpita in bassorilievo sulla parete bianca la figura di un gigantesco gatto. L'immagine era di una esattezza sorprendente. Attorno al collo dell'animale c'era una corda.
Quando vidi la prima volta questa apparizione - non posso classificarla diversamente - la mia meraviglia e il mio terrore furono enormi; ma successivamente la riflessione mi venne in aiuto. Ricordai che il gatto era stato impiccato in un giardino adiacente alla casa. Dopo l'allarme per l'incendio, quel giardino si era immediatamente riempito di folla - qualcuno doveva aver staccato l'animale dall'albero e averlo lanciato, attraverso una finestra aperta, dentro la mia camera. Questo gesto era stato compiuto probabilmente con l'intento di svegliarmi. La caduta delle altre pareti aveva compresso la vittima della mia crudeltà dentro l'intonaco ancora fresco, la cui calce con le fiamme e l'ammoniaca della carcassa, aveva poi composto l'immagine come la vedevo.
Sebbene io spiegassi così alla mia ragione, se non completamente alla coscienza, l'evento che ho illustrato, esso non mancò di impressionare profondamente la mia fantasia. Per mesi non riuscii a liberarmi del fantasma del gatto e durante tale periodo affiorò nel mio animo un mezzo sentimento che sembrava ma non era rimorso. Arrivai a dolermi a tal punto della perdita dell'animale da mettermi a cercare, nei ritrovi malfamati che ora frequentavo abitualmente, un'altra bestiola della stessa specie ed in qualche modo simile all'aspetto, in grado di prenderne il posto.
Una notte, mentre giacevo in una taverna più che malfamata, mezzo intontito, la mia attenzione fa attratta all'improvviso da qualcosa di nero che riposava sulla sommità di una delle enormi botti di gin e di rum, che costituivano l'arredamento principale del locale. Stavo guardando da molto tempo e, con mia sorpresa, non riusciva a capire di che cosa si trattasse. Mi avvicinai a toccarlo con una mano. Si trattava di un gattone nero, della stessa taglia di Plutone, somigliante a lui sotto ogni aspetto, ad eccezione di uno. Plutone non aveva un solo pelo bianco in tutto il mantello, mentre questo gatto aveva una macchia bianca di contorno indefinito che gli copriva quasi interamente il petto.
Appena lo ebbi toccato, si alzò immediatamente, fece le fusa, si strofinò alla mia mano, felice del mio interessamento. Era proprio la creatura che stavo cercando, quindi proposi al padrone del locale di comprarlo: ma questi non ne rivendicò il possesso - non lo conosceva affatto - non l'aveva mai visto prima. Continuai ad accarezzarlo e quando mi apprestai a tornare a casa, l'animale mostrò l'intenzione di accompagnarmi. Glielo permisi ed ogni tanto lungo la via mi fermavo per accarezzarlo. Quando giunse a casa si trovò subito a suo agio e divenne immediatamente il beniamino di mia moglie.
Da parte mia, invece, sentii subito sorgere dentro di me una cupa antipatia per l'animale. Era proprio il contrario di quello che avevo previsto, ma - non so come e perché - la sua evidente predilezione per me, mi procurava piuttosto fastidio e disgusto. Poi, piano piano, l'avversione ed il fastidio sfociarono nell'amarezza dell'odio. Evitavo l'animale, ma un certo senso di vergogna e il ricordo del mio precedente atto di crudeltà, mi impedivano di maltrattarlo. Per molte settimane non lo picchiai né gli usai altre forme di violenza, ma, gradualmente, arrivai a guardarlo con insopprimibile ripugnanza e a sfuggire la sua odiosa presenza come la peste.
Quello che, senza dubbio, aumentò il mio odio per la bestia, fu la scoperta, fatta il mattino dopo il suo arrivo in casa, che anche lui era privo di un occhio come Plutone. Questa circostanza lo rese, invece, più caro a mia moglie, che, come ho già detto, possedeva in alto grado quell'umanità di sentimenti che una volta erano una mia peculiare caratteristica nonché la fonte dei miei più semplici e più puri piaceri.
Ma la predilezione del gatto nei miei confronti sembrava crescere con la mia avversione. Seguiva ogni mio passo con una tenacia che è difficile far comprendere al lettore. Quando sedevo, si accucciava sotto la mia sedia o si metteva tra i piedi a rischio di farmi cadere o piantava i suoi lunghi aguzzi artigli nelle mie vesti per arrampicarmisi fino al petto. Mi veniva allora voglia di distruggerlo con un colpo, ma mi tratteneva dal farlo il ricordo del mio precedente delitto e ancor più - lasciatemelo confessare - il cieco terrore che mi ispirava la bestia.
Non era esattamente un terrore fisico, anche se ho difficoltà a definirlo diversamente. Quasi mi vergogno a confessare - sì anche in questa cella di delinquenti, quasi mi vergogno a confessare - che il terrore e l'orrore che l'animale mi ispirava è stato alimentato da una specie di chimera tra le più difficili da concepire. Mia moglie aveva richiamato la mia attenzione, più di una volta, sulla conformazione della macchia bianca, della quale vi ho parlato, e che costituiva la sola visibile differenza tra questa strana bestia e quella che io avevo distrutto. Il lettore ricorderà che questa macchia era sì grande, ma aveva originariamente contorni indefiniti. Ora a grado a grado, quasi impercettibilmente, anche se la mia ragione si sforzava di respingere la cosa come assolutamente fantastica, la macchia aveva finito per assumere una forma ben precisa e distinta. Essa era la precisa rappresentazione di un oggetto che rabbrividisco solo a nominare - e per questo soprattutto, avevo ripugnanza e paura del mostro, del quale avrei voluto liberarmi se ne avessi avuto il coraggio - era adesso, dico, l'immagine di una cosa orribile, spaventosa, la FORCA - oh! la lugubre, terribile macchina dell'Orrore e del Crimine, dell'Agonia e della Morte!
E ora io ero veramente misero al di là della peggiore miseria dell'Umanità. Una bestia bruta - quella della quale avevo sprezzantemente distrutto il compagno - una bestia bruta causava a me - a me, uomo creato a immagine e somiglianza d'Iddio - un così insopportabile dolore! Ahimè! Né di giorno, né di notte ebbi più il conforto del riposo! Durante il giorno la creatura non mi lasciava solo un istante, e durante la notte, ad ogni ora, mi destavo da sogni di inesprimibile orrore, per trovarmi il fiato caldo della cosa sul volto ed il suo enorme peso - come di un fantasma notturno incarnato che non ero in grado di scrollare via - eternamente incombente sul cuore.
Sotto la pressione di tali tormenti, quel poco di buono che c'era ancora in me scomparve del tutto. Pensieri malvagi, i più neri e i più malvagi dei pensieri, divennero i miei soli padroni. La rudezza abituale del mio carattere divenne odio per tutte le cose, per tutta l'umanità, così che degli improvvisi, frequenti e incontrollabili scoppi di una furia alla quale ciecamente mi abbandonavo, divenne vittima sempre più frequentemente, ahimè!, la mia povera moglie, che, paziente, sopportava tutto senza lamenti.
Un giorno ella mi accompagnò, per una qualche faccenda domestica da sbrigare, nella cantina del vecchio edificio nel quale la nostra povertà ci costringeva ad abitare ed il gatto, seguendomi giù per la scala, mi fece quasi ruzzolare a capofitto, irritandomi fino all'esasperazione. Afferrata un'ascia, dimenticando, nella mia furia, la paura infantile che aveva sempre trattenuto la mia mano, vibrai all'animale un colpo che, se fosse disceso su di lui come volevo, sarebbe risultato mortale. Ma il colpo venne fermato dalla mano di mia moglie. Il suo intervento mi trascinò in una furia ancora più demoniaca; svincolai il braccio dalla sua stretta e le affondai la scure nel cervello. Ella cadde senza vita sul posto senza emettere un lamento.
Compiuto l'orrendo delitto, mi accinsi con grande determinazione al compito di nascondere il corpo. Sapevo di non poterlo rimuovere dall'edificio, né di giorno né di notte, senza correre il rischio di essere scorto dai vicini. Mi vennero in mente tanti progetti. Per un momento pensai di tagliare il corpo in tanti pezzi e di distruggerlo con il fuoco, poi di scavare una fossa nel pavimento e seppellirvelo, e ancora di gettarlo nel pozzo del cortile - di chiuderlo in una cassa, camuffandola come se contenesse della merce e incaricando poi un facchino di portarla via. Infine scelsi quello che mi sembrò l'espediente migliore tra tutti quelli pensati. Decisi di murare il cadavere in una parete della cantina, come si legge facessero i monaci del Medio-Evo con le loro vittime.
La cantina sembrava particolarmente adatta a tale scopo. Le sue pareti erano state costruite alla buona e intonacate da poco con una malta grossolana che non si era indurita per effetto dell'umidità dell'ambiente. Inoltre in una delle pareti c'era una sporgenza dovuta forse a un falso caminetto o focolare, che era poi stato riempito e reso somigliante al resto della cantina. Non avevo dubbi di poter estrarre facilmente i mattoni, inserire il cadavere, e murare di nuovo in modo che nessuno potesse mai scoprire qualcosa di sospetto. Non avevo sbagliato i calcoli. Rimossi con una leva i mattoni, deposi poi con cura il corpo puntellandolo contro la parete interna e con poca fatica ricostruii la struttura del muro tale e quale era prima. Mi procurai calce e sabbia e con ogni possibile precauzione preparai un intonaco che non poteva assolutamente essere distinto dal vecchio e lo distesi con ogni cura sulla nuova parete di mattoni. Alla fine fui molto soddisfatto del lavoro. Tutto quadrava, la parete non presentava la minima traccia di manomissione. Asportai con la massima attenzione tutti i detriti dal pavimento e mi guardai intorno trionfante, dicendomi: "Qui almeno il mio lavoro non è stato inutile".
Il mio successivo atto fu quello di ricercare la bestia che era stata causa di tanto grave sciagura, perché avevo deciso di metterla a morte. Se ci fossi riuscito in quel momento, non vi sarebbe stato alcun dubbio sulla sua sorte; e invece l'astuto animale, allarmato dalla violenza della mia collera, evitò di comparirmi davanti. E' impossibile descrivere il profondo senso di sollievo che mi pervase per l'assenza della odiata creatura. Non si fece vivo neanche durante la notte e quindi almeno per una volta, da quando si era introdotto in casa mia, dormii profondamente e tranquillamente; sì, dormii perfino col peso del delitto sulla coscienza!
Passarono il secondo e il terzo giorno senza che il mio tormentatore tornasse. Respiravo di nuovo come un uomo libero. Il mostro, terrorizzato, era fuggito via per sempre e non lo avrei più visto! La mia felicità era al culmine! La colpa del mio tenebroso misfatto non mi turbava più di tanto. Mi avevano rivolto domande alle quali avevo risposto con disinvoltura. Perfino le indagini avviate, non avevano dato alcun esito ed io guardavo ormai con sicurezza alla mia futura felicità.
Il quarto giorno dopo l'assassinio, una squadra della polizia irruppe inaspettatamente nella mia casa per eseguire una rigorosa ispezione. Ci nonostante mi sentivo sicuro del nascondiglio scelto e non mostrai il benché minimo imbarazzo. Gli agenti chiesero che li accompagnassi nella loro ispezione, che non lasciò inesplorato né un angolo né un cantuccio. Alla fine discesero per la terza o la quarta volta nella cantina. Non un muscolo mi tremò; il mio cuore batteva calmo come quello di chi dorme innocente. Passeggiavo su e giù per la cantina, le braccia incrociate sul petto, aggirandomi qua e là. I poliziotti si mostravano del tutto soddisfatti e si preparavano ad andarsene. La gioia che mi riempiva il cuore era troppo intensa perché potessi trattenermela dentro. Bruciavo dal desiderio di dire qualcosa, di trionfare, ed anche di rendere ancora più marcata la loro convinzione della mia innocenza.
"Signori", dissi alla fine mentre la squadra saliva le scale, "sono lieto di aver dileguato i vostri sospetti. Vi auguro buona salute ed un po' più di cortesia. Tra l'altro, signori, questa - questa è proprio una casa ben costruita". In preda alla voglia matta di dir qualcosa, non mi rendevo conto di quanto andavo blaterando... "Posso dire che questa è una casa costruita in modo eccellente. Queste pareti - ve ne andate, Signori? - queste pareti sono costruite solidamente". E qui, in un eccesso di spavalderia, colpii pesantemente con un bastone che avevo in mano proprio il tratto di muro dietro il quale era celato il cadavere della sposa del mio cuore.
Possa mai Iddio proteggermi e liberarmi dalla zanna dell'arcidiavolo! - non si era ancora spenta l'eco del mio colpo di bastone, che una voce rispose dall'interno della tomba! - con un lamento, dapprima smorzato e rotto, come il pianto di un bambino, salito poi rapidamente ad un lungo, intenso, continuo urlo, assolutamente inumano, bestiale, - un ululato - un grido sconvolgente, per metà di orrore per metà di trionfo, quale avrebbe potuto venire solo dall'inferno, unitamente dalle gole dei dannati nella loro agonia e dei demoni esultanti nella dannazione.
Di quello che mi passò per la testa, sarebbe assurdo parlare. Sentendomi svenire, mi appoggiai alla parete opposta. Per un attimo i poliziotti rimasero immobili, in preda ad una sorta di irrazionale terrore. Subito dopo una dozzina di robuste braccia presero a demolire la parete, che cadde tutta insieme. Il cadavere, in avanzato stato di decomposizione, intriso di sangue rappreso, stava eretto davanti agli occhi degli spettatori. Sulla sua testa, con la rossa bocca spalancata, con l'unico occhio di fuoco, stava l'orrenda bestia la cui astuzia mi aveva portato al delitto e la cui voce rivelatrice mi aveva consegnato al boia. Avevo murato il mostro dentro la tomba.


Edgar Allan Poe



Forse qualcuno si chiede dove trovo 'ste immagini per lo sfondo: semplice, le faccio io. Con una ho pure partecipato alla biennale di Arte contemporanea di Porto Ercole. Se qualcuno vuole vedere le altre, basta cliccare qui.


Forse un giorno vi parlerò del saturnismo... chissà... forse non sarebbe molto saturnista.

IL GUARDIANO DEL PONTE


 


L’ho proprio davanti. Ci separa solo una tela.
Forse soffre d’anoressia, qualche chiletto in più non gli farebbe male. Accarezzo la tela, i colori tornano densi, liquidi. M’immergo nel fuoco del cielo. Le narici si riempiono di colore e gli occhi aperti su quel lontano, ignoto mondo. Ricordi di tempere e pennelli…
-Quasi tutti vengono per vomitarmi valanghe d’angoscia, ogni giorno. Sono più di cent’anni… Appiccicato qui, senza girarmi mai, senza poter vedere il mare!-
Gli allungo un’aulin, se la merita. Io m’accendo una chesterfield.
Camminiamo tanto sotto un cielo inquietante. Un corteo funebre? Sono finito in un altro quadro! (ANGOSCIA di Munch – N.d.R.).
Guardo la gente a lutto, guardo Lui. Saranno suoi parenti.
-Chi è morto?- lo domando una volta sola.
Non risponde, si rimette nella sua posizione di sempre. Si ritappa le orecchie e inizia il suo lamento funebre.
Lui ha le risposte? Forse la risposta è proprio il suo urlo.
-Chi è morto?- insisto.
Vedo che sta per rimettersi ad ululare, gli afferro le mani.
Il corteo è ormai lontano. Non me n’ero accorto: due uomini stanno zitti e guardano il mare.
-Chi sono?- Lui s’è calmato.
- Josef K.? Godot?- le mani sudano e gli occhiali scendono sulla punta del naso.
Non so che dire, la testa mi pulsa.
Cerco aiuto nel mare. Inutile. Non riesco ad accendermi nemmeno una sigaretta.
Aspetto.
Aspetto che qualcuno stracci ‘sto silenzio.
Godot apre bocca, deve andarsene. Non può restare, l’aspettano.
- Vladimiro ed Estragone m’aspettano da tanto. Ogni volta inciampo in un contrattempo che m’impedisce di raggiungerli…-
Ora siamo in tre.
-Chi è morto?- chiudo gli occhi, il corteo, gli occhi spiritati della bambina, il cilindro dell’uomo in nero.
Josef mi risponde.
-Ne sono morti tanti. Tutti prima o poi devono passare da questo ponte. Ci passeremo anche noi. Tanti ne sono passati e tanti ancora ne passeranno. È come la mia condanna, senza nessun motivo…
Tutti passeranno sotto i suoi occhi, Lui è il guardiano del ponte. Non gli resta che urlare un urlo senza tempo… Tutti, stroncati da quella maledetta alienazione.
Molti non se n’accorgono nemmeno, se ne vanno in punta di piedi, col capo chino. Così, come hanno vissuto. È facile dimenticare. È facile vivere da alienati. Nessuno si ribella perché l’alienazione è alla base della società- si ferma per un istante, un solo istante senza fine. - Non pensare è il sogno di tutti. Guarda il mare. Che ci aspetta dall’altra parte? Basterebbe che tutti si fermassero un solo minuto. Solo sessanta secondi per ascoltare la voce del mare. -
Ora siamo soli. Solo io e Lui.
Non ho nemmeno salutato Josef, nemmeno il tempo per fargli gli auguri per il suo processo…
Tutte le domande che m’ero preparato s’accartocciano sotto qual cielo di velluto. Lui ricomincia il suo rituale. In quel suono, in quel lamento tutto il male di vivere.
Ora so perché cerca di tapparsi le orecchie; quell’unica nota è insopportabile.
Non riesco, devo tapparmi anch’io le orecchie.
Ora lo so…


 (toninopintacuda, 2000 - tema della maturità)


 

13/04/03

 Ulisse si svegliò dal sogno che qualcun altro aveva sognato per lui.  Zittì la sveglia che incominciava a riempirlo d'insulti dallo zoo di 105. Si guardò nello specchio e si trovò cambiato; aveva la stessa faccia da minchione, gli stessi capelli che s'arricciavano sopra i dorsali.  Tutto come prima, il pizzetto che il padre definiva da caprone aveva bisogno di un'aggiustatina, ma sopra il naso c'era un nuovo sguardo, una nuova consapevolezza; non sapeva da dove l'aveva presa e non gl'importava poi tanto.  Mentre beveva latte inzuppando qualche fetta biscottata colorata di marmellata e di qualche capello non stava pensando le solite paranoie che lo assalivano alle sette e trentacinque del mattino e lo lasciavano solo quando era troppo stanco per continuare a leggere il gioco delle perle di vetro di Herman Hesse.  Sembrava un cambiamento da niente ma per lui era una novità spiazzante.  Non aveva nemmeno nessuna voglia di azzannare con la sua ironia la sacra famiglia che già aveva raggiunto i rispettivi post di lavoro.   Aveva voglia di una canzone che gli rigirava tra i riccioli.  Voglia smaniosa di Bob Dylan.Si fece portare dai suo piedi ne la sua stanza e non fece caso che era senza ciabatte e senza calzettoni di spugna.  Era scalzo. Prese il cd e si sentì come doveva sentirsi quella ragazza che aveva perso tutto e si lasciava rotolare senza seguire nessuna direzione. Ricordava uno strano incontro con un musicista che gli aveva regalato un cd che non si ricordava di aver mai ascoltato.  Forse se l'era immaginato o era successo qualcosa, un piccolo sisma emozionale che l'aveva fatto cambiare così tanto in così poco tempo. Leggiucchiava l'editoriale dell'Unità e gli venne voglia di dare una potata al capello rivoluzionario.  Si vestì e i jeans gli davano fastidio, si mise un vecchio paio di pantaloni di velluto nero che non si metteva da qualche annetto e che s'era perfino scordato di aver messo a stagionare nel  buio dell'armadio.  Guardò la riproduzione dell'urlo di Munch che teneva sopra il capezzale accanto a Gesù circondato da una decina di bambini.  Guardò quel quadro come se lo guardasse per la prima volta, quello scheletrino urlante col cranio calvo sembrava un vecchio amico che non aveva mai conosciuto.
Sui pantaloni abbinò una giacca grigia del pater familias, stava proprio bene.  Aveva pure voglia di togliersi quel pizzetto da Confucio.  Si accorse d'essere scalzo solo quando scese dalla macchina davanti al negozio del barbiere.  Se n'accorse solo lui, non sono molte le persone che guardano in basso. Forse solo Forrest Gump. Si fece fare un bel taglio a base di gel e di uno strano sistema di sfumature.Il barbiere calvo che conosceva da quando era piccolo lo riconobbe solo dopo aver riempito il pavimento di marmo dei suoi capelli e del suo pizzetto.  Camminò sui suoi capelli sentendoli morbidi sotto la suola del piede nudo.  Uscì dal negozio del barbiere sorridendo.  Avrebbe continuato a macchiare fogli con i tasti della sua olivetti 98.  Alla fine in quella montagna di fogli avrebbe trovato qualcosa di buono. Non l'avrebbe mai saputo se non scriveva.
Lisa e Ulisse continuarono a punzecchiarsi, si perdevano e si ritrovavano di continuo.  IL resto doveva ancora essere vissuto.  Tutto il resto è la vita capita a volte che Ulisse si ricordi di J.C. forse qualche volta lo incontrerà ma una sola cosa c'è ancora da dire.  Ulisse si mise a collezionare scolapasta e certe giornate cammina scalzo alla ricerca della sua strada che lo porti a diventare un uomo…


forse un giorno la troverà…