1. Auschwitz rappresenta una crasi. Una rottura, una falla della storia. Il campo di concentramento con il suo armamento mortuario, che lo accompagna, è l’immagine ridotta a zero della storia di questo novecento. Un’icona univoca, si potrebbe obiettare, ma di certo quella che maggiormente rappresenta il ‘male’, lo scandalo che gli uomini hanno dovuto soffrire. Primo Levi, come sempre preciso e misurato nelle parole, non ha dubbi quando deve far risaltare su tutto una parte di quella terribile vicissitudine che gli toccò vivere. In Se questo è un uomo, nel capitolo centrale de I sommersi e salvati, scriveva: “Se potessi racchiudere in un immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero”. Il ritratto ci è stato consegnato, tocca a noi provare a sopportarne la vista senza rimanere pietrificati.
Lo sterminio degli ebrei (ma anche quello degli omosessuali, dei Testimoni di Geova, dei cristiani, dei politici), senza contare l’eliminazione scientemente condotta nei confronti di anziani e bambini handicappati, pone ai cosiddetti spiriti religiosi una serie di angosciose domande, le quali non sempre riescono a ricevere una risposta. Questioni, che il più delle volte, anzi, rimangono tragicamente inevase. Tragicamente, perché l’uomo di fede non è un essere storico, che studia e si accontenta della spiegazione razionale dei fatti, i quali – fatta salva l’eccezione di alcuni negazionisti – dovrebbero essere stati appurati come realtà e ricostruiti nella loro quasi interezza. Il credente non si ferma alla buccia della storia, ma vuole capirne e comprenderne gli abissi. La nostra condizione umana è quella di esseri sopravvissuti ad Auschwitz e allo sterminio. Ognuno di noi, anche chi non ha mai vissuto quegli orrori, li possiede in sé ed è chiamato a farsi delle domande, prima ancora di formulare delle risposte. Pertanto, la scelta di interrogarci su Dio e il Male, sulla sofferenza e la sua possibile redenzione, partendo da Primo Levi, è come tutte le possibilità opinabile, ma ci sembra che l’autore torinese – senza spreco di parole e con essenzialità – abbia chiarito i termini della questione.
2. Cosa ha rappresentato la “soluzione finale”? L’immagine che ci si para davanti è quella di un iter di morte. Sergio Quinzio è forse l’autore che con più lucidità ha messo in evidenza questo passaggio; in un suo libro Il silenzio di Dio egli ha declinato le coordinate di inizio e di fine di questo percorso: dal Pantocrator ad Auschwitz o, detto altrimenti, la non avvenuta redenzione del mondo da parte di Dio. E’ questo fallimento radicale, perché inficia quel sentimento forte di un Dio onnipotente, attivo e vincitore. L’Agnello si è immolato, ma il pungiglione della morte è ancora presente: la morte non è stata vinta, ma anzi ha trovato il suo trionfo, perché in Auschwitz “normale è la morte”. L’aforisma di Adorno, in Minima Moralia, è la freccia scoccata a bersaglio nella descrizione del sottofondo concentrazionario. Sempre Primo Levi mette in evidenza come la morte, nel campo di concentramento, fosse triviale e burocratica. L’uomo viene privato anche dal suo essere mortale, viene svuotato, ridotto a pura larva di carne, tale che “si esita a chiamar morte la loro morte”. La questione della dignità umana è legata intimamente al problema della presenza del male della storia.
Auschwitz non fu soltanto la più mostruosa macchina eliminatoria che l’uomo abbia potuto concepire, fu anche un’applicazione scientifica di uno svuotamento. L’uomo venne reso sterile, carname da macello, pura forza lavoro. I deportati, in questo caso sia i sopravvissuti sia i sommersi, hanno fatto del male un’esperienza radicale, quasi assoluta. Se la concezione del Male post Auschwitz non può essere la stessa, neanche le risposte, che la filosofia e la teologia hanno fornito al tema, rimangono simili. Il primo effetto dei campi di concentramento è l’isterilirsi delle teodicee e di tutti quei sistemi, che cercano in qualche modo di giustificare la presenza della sofferenza e della morte nella storia, di cui ognuno di noi è partecipe. Quel tipo di risposta non vale, non regge contro l’urto e l’oltraggio subito.
Ciò significa mettere in discussione il nostro modo di vivere e di intendere Dio (per questo tema, consiglio Quale Dio di Paolo De Benedetti), la Shoah e l’interrogarsi intorno ad essa sono divenuti il nocciolo di una nuova ricerca del pensiero e della fede. Le risposte a questo problema temerario (Paryson) non sono mai univoche o concilianti, perché come abbiamo detto poco innanzi a venir messa in crisi è l’idea di una storia redenta e di un universo teso al bene. L’orizzonte mortale e la caligine tenebrosa, emessa dai forni crematori, stanno a dimostrarci l’esatto contrario: questo non è il migliore dei mondi possibili, il male patito da innumerevoli innocenti non è servito, non è andato a fin di bene. La radicalità della vicenda sterminio è totale, perché quello vissuto dal deportato è un Male assoluto (nel senso etimologico di slegato) dalla storia e dalla vita di ogni giorno. Come ha messo in evidenza Paul Ricoeur, la nostra mente può arrivare concepire una sofferenza, che possa risultare comprensibile, ma è l’eccesso di questa, che rende un mistero di iniquità il Male. “Perché tanta sofferenza in eccesso rispetto alla capacità di sopportazione dei semplici mortali?”. Questa è la domanda, da questa non si può e non si deve evadere. L’eccesso di sofferenza, e non la sofferenza in sé, è la materia che rende lo sterminio un unicum storico e filosofico e questo ciò che Levi e gli altri testimoni ci raccontano nelle loro pagine. A dettarci i giusti tempi è sempre l’autore torinese, che ne Il pugno di Renzo, un saggio contenuto nella raccolta L’altrui mestiere, formula le seguenti domande: “Perché gli innocenti? Perché i bambini? Perché la provvidenza si ferma davanti alla malvagità umana e al dolore del mondo?”.
3. Il problema della sofferenza del giusto è un tema strettamente biblico. La storia di Giobbe, una vicenda terribile ed enigmatica, è quella che maggiormente viene evocata, ma la parola di Dio è sin dal principio, storia di giusti morenti e di empi che prosperano. Già la Genesi con il racconto dell’uccisione di Abele ci esprime questo sgomento nei confronti della morte senza un perché di un giusto e della sua sofferenza senza significato. Pensiamo poi a certe pagine del Qoelet e quelle di Giobbe o al servus patiens di Isaia, che prefigura – per i cattolici – il Cristo della Passione e i martiri dell’Apocalisse. La parola di Dio è quindi narrazione di questo scandalo, quello dell’inerme che soffre sino alla morte “e alla morte di croce”, che neanche l’amen apocalittico (Sergio Givone ne La storia del Nulla) sembra scongiurare o mitigare. Il giusto è l’uomo annichilito, colui che suo malgrado soffre un dolore che non ha limite, è l’essere umano “degradato ad animale da esperimento”. Con queste parole Levi descrive Giobbe e la sua storia, che non casualmente egli pone all’origine delle proprie radici di uomo. Se l’offesa è ciò che caratterizza l’uomo, in cui archetipo è il personaggio biblico, così l’umiliazione sarà la caratteristica del linguaggio degli ebrei piemontesi, una sorta di dialetto dove non esistevano termini ‘buoni’, ma soltanto termini negativi, come l’autore torinese racconta in Argon, dove mette a nudo un’altra propaggine del suo Io. L’uomo, quindi, è “dal principio” umiliato e offeso. L’immagine di Giobbe ritorna più volte anche nei conversari e nelle interviste che l’autore torinese rilascia. “Giobbe – sostiene lo scrittore in un’intervista con Daniela Amsallem – non accetta la sofferenza, e arriva fino a… a negare Dio”. Giobbe come prototipo dell’uomo che soffre, ma come può essere definita la sostanza del dolore di un giusto? La sua è una sofferenza inutile, a descrivercela con precisione è Pareyson nel suo libro su Dostoevskij. Il filosofo torinese mette in evidenza come l’autore russo innovi la tradizione portando al centro della sua riflessione il tema della “dolenza” senza scopo. Pareyson circoscrive questo satus della vita umana: “E’ una sofferenza per così dire senza soggetto: chi ne fa la triste esperienza, è incapace di resisterle o di reagirvi. Chi la vive è il mero oggetto d’un destino non meno crudele e ingiusto che capriccioso e arbitrario: ridotto allo stato di puro paziente, non può ottenere il nome di eroe, perché non agisce, ma quello di martire, perché appunto patisce”. Nell’idea della sofferenza inutile ritorna prepotente l’immagine di un surplus di dolore, che rende l’esperienza insopportabile. Anche per il male fisico è possibile, secondo Levi, trovare un limite: “E’ ammissibile soffrire (e far soffrire) solo a compenso di una maggior sofferenza evitata a sé o agli altri”. C’è di più, l’istinto dell’uomo, il suo imperativo categorico, è quello di “diminuire per quanto può la tremenda mole di questa ‘sostanza’ che inquina ogni vita, il dolore in tutte le sue forme”. Questo è il compito di ogni morale laica o religiosa che sia (un tema questo che affronteremo più da vicino nelle pagine seguenti). Sta di fatto che l’esperienza concentrazionaria è l’inverso. Il totalmente capovolto. Ne I sommersi e i salvati, Levi dedica un capitolo alla violenza inutile (una risposta indiretta alla machiavellica violenza utile de Il Principe?). L’argomento di quelle pagine è uno scandaglio, senza pregiudizi, nel mondo del lager, una ricerca che mette in evidenza come le vessazioni inflitte nei lager erano gratuite e come la morte di bambini, di vecchi fosse parte di un disegno terribile, ma anche “antieconomico”. Perché infatti - si chiede Levi – anche i vecchi e i malati venivano trasportati nel lager? Non sarebbe stato più logico farli morire nelle loro case? Invece tutti hanno vissuto “l’agonia della tradotta”, tanto che “si è indotti a pensare che, nel Terzo Reich, la scelta migliore, la scelta imposta dall’alto, fosse quella che comportava la massima afflizione, il massimo spreco di sofferenza fisica e morale. Il nemico non doveva soltanto morire, ma morire con tormento”. Pareyson, lo abbiamo già detto, definisce come prototipo della sofferenza inutile il martire, il teste muto di una sofferenza, Levi non lo definisce, ma ce lo descrive. Potrebbero essere molti gli esempi, ma basta la parabola di morte di Emilia, che lo scrittore torinese consegna alla pagine di Se questo è un uomo. Incastonata dalla parola “morte”, che apre questo breve bozzetto di poche righe e che lo chiude ciclicamente, ci viene narrata al fine di una bimba, compagna di viaggio dell’autore, i cui genitori durante il viaggio infernale verso la tenebra di Auschwitz avevano cercato di dare sollievo facendole un piccolo bagnetto, un gesto di pietà (e di civiltà), che però non la risparmia. Infatti appena giunta nel campo di concentramento, Emilia muore senza dire una parola, senza proferire verbo. Di lei non rimane vestigia o orma se non il suo copro cadavere sulla piattaforma del binario. Questa non è l’unica morte innocente che Levi dissemina nelle sue pagine. Pensiamo a Hurbinek. La sua storia è raccontata ne La Tregua ed è quella di un bambino da “nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz”. La sua esistenza è un’ostinata sofferenza (aveva tre anni e forse non aveva mai visto un albero), che si articola in quello sforzo di dire una parola, ma “nulla resta di lui”. Hurbinek, il figlio della tenebra del Lager, morì “libero, ma non redento”.
Perché il male? Ritorna questa domanda. Perché il male dei bambini? Ancora una volta Levi arriva al punto centrale. Può esistere un mondo redento dal male nel quale i bambini continuino a soffrire le pene più atroci? Lo scrittore torinese nel suo interrogare arriva a formulare le stesse domande che Ivan Karamazov pone a suoi fratello Alesia. Nel dialogo, tra i due fratelli, il primo sostiene l’impossibilità aprioristica di far coniugare l’immagine della sofferenza come redenzione del peccato e quella della morte dell’inerme innocente, rigettando l’idea di un paradiso in cui la madre abbraccerà il carnefice che fece straziare suo figlio. L’offesa è per sempre, l’oltraggio subito non si cancella, le agonie patite sono tali, che non si può immaginare un universo e un paradiso dove tutto si tenga. L’indelebile dolore del lager conduce Levi al medesimo ragionamento: i bambini muoiono quindi non c’è Dio ovvero (per lo scrittore torinese in un’intervista a Ferdinando Camon) “C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio”. Sempre secondo Pareyson nel discorso che formula Ivan Karamazov e che sotto certi aspetti viene ripreso dallo scrittore torinese, si fanno largo due critiche “fondamentali”: il fallimento della creazione e lo scacco della redenzione. Anche in Levi sotterranea, c’è l’idea di un Dio debole e sconfitto, fallito. A crollare sotto i colpi del lager è in primo luogo il concetto di Provvidenza, così come noi la concepiamo, ovvero come certezza di un piano di Dio, di una sua presenza fattiva nella storia, così da armonizzare la sofferenza patita e il bene ricavato.
4. Levi è forse, in maniera del tutto inconsapevole, uno dei critici più feroci del concetto di Provvidenza; lo ammette lui stesso nella sua intervista con Daniela Amsallem, quando rispondendo alla domanda, se la colpa fosse dell’uomo o di Dio, chiosa: “E’ colpa dell’uomo! Ma lei mi coglie [ride] in fallo. Io sono un incredulo, non credo in Dio, non ho mai creduto prima, tantomeno dopo Auschwitz. C’è anche una traccia in Se questo è un uomo, cioè ho scritto che penso che dopo Auschwitz nessuno abbia il diritto di parlare di Provvidenza”. Il luogo del racconto in cui Levi evidenzia questa disfatta della Provvidenza è la preghiera di Khun. Lo raccontiamo brevemente: è appena passata la selezione, che ha premiato alcuni e punito altri. Si mangia la zuppa in un silenzio pesante e sempre in quella tragica assenza di rumori ci si mette a dormire, gli occupanti della baracca odono un mormorio: “Il vecchio Kuhun prega, ad alta voce, con il berretto in testa e dondolando il busto con violenza. Khun ringrazia Dio perché non è stato scelto. Khun è un insensato. Non vede nella cuccetta accanto Beppo il greco che ha vent’anni, e dopodomani andrà al gas. (…). Non capisce Khun che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla che sia in potere dell’uomo di fare potrà risanare mai più. Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Khun”. In un questo passo, la Provvidenza è svuotata di ogni suo significato, mortificata e ridotta a pura salmolodia vacua di una marionetta, ma quale Dio può permettere che avvenga una tale ingiustizia? Come si può vedere nella selezione la mano, anche flebile, di Dio e del Suo progetto di salvezza, che contempla al suo interno un’enormità di sofferenze nei confronti degli inermi? Una preghiera ad un Dio siffatto diviene abominio e orrore, tanto che lo stesso Creatore dovrebbe rifiutarla. Il male dopo Auschwitz annulla qualsiasi immagine provvidenziale: la preghiera è insensata perché significa gioire che qualcuno è morto al nostro posto. E’ questa l’ombra di Caino, che Levi descrive ne I sommersi e i salvati, il dubbio di aver soppiantato qualcuno, di essere vissuto, usurpando il posto a qualcuno che lo meritava di più. Ed è questa una sensazione, come lo stesso autore sottolinea, che non riguarda solo i deportati, ma tutti gli esseri umani, divenendo una sorta di categoria esistenziale della nostra condizione umana. Il tema è temerario e procede più per interrogativi che per affermazioni certe. E’ possibile che Dio abbia deciso, ab principio, che Khun dovesse essere salvo, contrariamente a Emilia o Hurbinek, che sembrano nati con l’unico scopo di morire? Detto altrimenti: la sofferenza altrui vale come espiazione e possibilità della propria salvezza? E’ giusto che la morte di qualcuno sia la mia vita? Sono queste le questioni che stanno alla radice dell’ultimo libro leviano, un sigillo di grande scrittura e di profondità di pensiero. L’autore torinese racconta in quelle pagine di un dialogo con un amico credente, in queste l’uomo di fede sostiene a proposito della scampata morte dell’ex deportato che “il suo essere sopravvissuto non poteva essere opera del caso, (…), bensì della Provvidenza”. Un’immagine che all’autore parve mostruosa, in quanto a sopravvivere nel lager non erano i migliori, che “sono morti tutti”. Levi è sopravvissuto e in più, come dice lui stesso, ha goduto della salvezza oltreché di una vita lunga e felice soltanto per raccontare: non c’è proporzione tra il privilegio e il risultato. Vivere in vece di un giusto solo per poter raccontare. Una dismisura che urla contro il cielo. La critica al concetto provvidenziale è assoluta, ma rimane da rispondere al problema di perché il Male e come fare per porre un argine a questo strabordare di malizia e di torto.
5. Di fronte al Male e questa sua assolutezza e radicalità, la sensazione è quella di blocco, di trovarsi di fronte ad un assurdo, ad un buco nero (un luogo caro alla geografia leviana), che ci risucchia senza la minima possibilità di risposta, senza l’occasione di organizzare o trovare un via di fuga. Una lezione di tenebra, che ci insegna la morte che siamo e che diventeremo. Una situazione disperante, ma Levi non sarebbe quell’uomo del consiglio, che tutti riconoscono, se la sua scrittura si esaurisse senza un tentativo di risposta. Una risposta duplice, che si articola da un lato dal punto di vista morale e dall’altro più strettamente teologico. D’altronde ci sembra chiaro: due sono le domande fondamentali che gli scrittori dell’universo concentrazionario si sono posti; c’è chi si è chiesto “dov’era Dio” e chi “dov’era l’uomo”. Le due opzioni come vedremo si compenetrano tra di loro.
Robert Gordon, uno dei critici più acuti di Primo Levi e del suo pensiero, non esita a parlare di “etica” nei confronti dell’opera dello scrittore torinese. Etica, perché c’è nelle sue pagine il tentativo costante di trovare il segreto del vivere bene, del vivere meglio. Nelle pagine leviane si parte dallo scandaglio di una situazione di sofferenza, che giunge sino alla prostrazione, per poi allargare il discorso sulla condizione umana nel senso più ampio del termine. In questo senso l’autore di Se questo è un uomo è simile al Montaigne dei Saggi e, se vogliamo seguire il consiglio di Daniela Amsallem, al Pascal dei Pensieri. Al centro l’uomo con le sue miserie e grandezze, con il suo tragico destino morituro, sullo sfondo la possibilità di diminuire questa sostanza dolorosa, che inficia la vita di ognuno. Esiste, quindi, una possibilità di porre un argine al Male? Non solo a quello di Auschwitz, ma al Male come sofferenza assoluta e ingiusta, sedimentata nel corso dei secoli nella storia del genere umano. La risposta di Levi è positiva, ma non per questo è facile e conciliante. Di fronte all’incombere del Male e del dolore che non ha misura e non ammette salvezza, l’uomo di Levi costruisce, “fa”, crea, aguzza il proprio ingegno. La risposta alla sofferenza assoluta si configura per lo scrittore torinese come un’etica del fare. L’esempio più lampante di questo atteggiamento è presente in Se non ora quando?. In questo romanzo (sarà anche per quel sostrato manzoniano che gli viene riconosciuto) più che in ogni altro suo libro, Levi chiama Dio a giudizio. Il protagonista, Mendel l’orologiaio, è più volte sorpreso a domandare a Dio il perché delle sofferenze, che i protagonisti subiscono in questa loro odissea. E le domande sono quelle solite, che come un filo rosso inseguono tutta l’opera dello scrittore. Perché la morte degli innocenti, perché mentre gli inermi venivano uccisi nelle fosse Dio rimaneva al di là delle nubi? Perché non interveniva per salvare il suo popolo? Tutti interrogativi angoscianti che Mendel-Levi rivolge a Kadosh Barakù, “il Santo Benedetto Egli sia”, come ogni pio ebreo osservante chiama Dio. Ma è sull’atteggiamento successivo alle domande, che dobbiamo focalizzare la nostra attenzione. Il protagonista non attende risposta, perché sa che il cielo è vuoto o quanto meno assente. Proprio la storia di questo romanzo, quella di una pattuglia di partigiani ebrei che combattono, uccidono, vincono e risultano sconfitti, è la parabola di chi ha posto la domanda, ma non ha speranza che giunga la risposta. La risposta al Male è morale, ovvero quella di erigere una siepe intorno alla Legge, un’etica del lavoro ben fatto e del “buon senso” (riprendendo una definizione di Robert Gordon), che al domandare inane e intuile preferisce fare. Si può leggere in questo un ricordo – forse – di quella che comunemente viene chiamata “ortoprassi ebraica” ovvero di chi sostiene, con la Bibbia, “tutto ciò che il Signore a parlato eseguiremo ed ascolteremo”. E’ questa una situazione assurda, perché è impossibile svolgere un compito senza prima averlo udito. Ed proprio in questo paradosso che risiede l’unica possibilità “umana” di riparare il Male, che per sua natura è irreparabile. Forse ora si coglie meglio, lo sfondo epico delle battaglie che Faussone ne La chiave a stella intraprende contro ponti e gru traballanti: sono una lotta contro la sofferenza, contro “la malizia e il torto” di cui la storia è impregnata. Si faccia attenzione, questa non è una morale ottimista, perché “fare” significa esporsi alla fallibilità dell’opera, esponendosi ai rischi del crollo, perché il ponte che l’etica leviana edifica “non è come gli altri ponti,/ che reggono le nevicate per secoli/ (…)./ Questo è un ponte diverso/(…)/ è sordamente vivo/ e non ha pace mai,/ forse perché dal cavo del suo pilastro/filtra un veleno/ un malefizio vecchio che non descrivo”. E’ tutta in questi versi l’inquietudine di Primo Levi, un’angoscia formulata da chi conosce il veleno di cui è impregnato l’uomo e il mondo. Auschwitz è un’enormità tale da mettere in crisi Dio stesso, non più il Signore degli eserciti che vince sugli egiziani, ma un Dio debole, scisso e lacero. Con quest’ultima riflessione si entra di prepotenza nel campo delle congetture e delle personali interpretazioni. Come abbiamo detto, il problema dell’uomo e quello di Dio si incrociano nell’opera di chiunque racconti dell’universo concentrazionario. Nelle pagine leviane assistiamo molto spesso a descrizioni di una natura più che ostile indifferente, che – secondo Paola Valabrega – corrispondono alla metafora del “Sonno dell’Onnipotente”. Un’espressione sconcertante, ma che simboleggia quello che comunemente viene definito il silenzio di Dio. Lo abbiamo già notato, nei libri di Levi Dio non risponde e tace di un silenzio che sa di impotenza o, peggio, di indifferenza. Tace come chi non c’è: questa può essere la prima ipotesi, quella più razionale, più logica. Ma forse dietro questo mutismo si nascondano altre verità: “Forse il silenzio di Dio, che è così terribile per l’uomo gettato nel baratro della sua angoscia, non è di chi tace perché non c’è o di chi tace perché abbandona, ma di chi tace perché piange e tace appunto per piangere”. Forse il sonno dell’Onnipotente è l’icona di un Dio debole e sconfitto, di un Dio che non è onnipotenza, ma fragilità, sofferenza e compassione. Se vogliamo un Dio dimesso, abbassato, un suo resto. L’immagine è quella di un Dio che vede le sue creature morire e, impotente, piange. Un Dio in esilio, così come ci suggerisce lo stesso Levi nel racconto Lilit. Dove si racconta, che la Shekinà, la presenza di Dio stesso nel creato, dopo la diaspora degli ebrei se ne va in esilio con gli ebrei, abbandonando Dio a se stesso. Così anche ella “si è fatta schiava” e “sta intorno a noi in questo esilio dentro l’esilio, in questa casa del fango e del dolore”. Se non può esistere una vera redenzione, se non quella che mantenga la memoria dell’offesa subita, è questa di Levi l’immagine di Dio, di un Dio nel fango e nel dolore, di un “Dio-con-noi” così come lo hanno annunciato i profeti.
Un Dio battuto e lacero è questa l’icona che Levi, laico, consegna alle nostre domande; è una teodicea paradossale perché senza dio e redatta da un non credente.