31/01/06

oberato ma non troppo (2)

Metodologia della storiografia estetica [23 gennaio] > 30 e lode,

Psicologia delle arti  [30 gennaio] >  30/30

Psicologia  [31 gennaio] > 30 e lode

.:.

Iconologia e Iconografia [10 febbraio - mattina] > 30 e lode

Informatica dell’arte [10 febbraio - pomeriggio] > 30 e lode

Filosofia dell’arte [15 febbraio]

Laboratorio Arte e Filosofia [15 febbraio]

e nella prestigiosa guida alla Scrittura creativa  Annamaria Manna ha segnalato il nuovo numero di BombaSicilia

che fine ha fatto vibrisse?

Da qualche giorno a chi cerca di leggere l'amato bollettino fondato da giulio mozzi appare questo messaggio:




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Apache/1.3.33 Server at www.vibrissebollettino.net Port 80





Abbiamo chiesto direttamente a mozzi, preoccupati soprattutto della scomparsa di Candida e di Bregola e delle belle letture di Bartolomeo Di Monaco. Per Colombati ce ne potevamo pure fare una ragione, cercava l'oscurità ed è stato oscurato... babbìo a parte, questa è la risposta del curatore di Vibrisse:



Da: giuliomozzi
Inviato: martedì 31 gennaio 2006 16.05
A: tonino pintacuda
Oggetto: Re: giulio, ci dobbiamo preoccupare?

Ciao Tonino.
No, non c'è da preoccuparsi. Devo solo comperare un altro po' di banda.
Da domani dovrebbe essere a posto.
Ciao.

g.

30/01/06

cucuzze o stigghiola?

Ecco un assolo di Guido Grassadonio, sicilianissimo trapiantato a Roma. E' un assolo lungo una settimana. Ne riporto il pezzo che ci riguarda direttamente:






ho conosciuto troppi intellettuali di recente. mi annoiano a morte quegli intelletti preziosi che devon dir diamanti ogni volta che aprono bocca. m'annoio a dover lottare per ogni alito di vento che faccia respirare la mente. ecco perché mi sono tenuto lontano dalla gente per così tanto tempo. e adesso che vado in società, scoprò che devo tornare nella mia caverna. ci sono altre cose oltre la mente: gli insetti, i palmizi, i macinini da pepe, e io terrò un macinino da pepe nella mia caverna. così, allegria.


Charles Bukowski, Taccuino di un vecchio sporcaccione




Ripensiamo la nostra sicilianità....
Stavo ripensando a tutto il lavoro fatto dall'ex dicotomico tonino, che è fra "babbaluci" e "cucuzze", sta provando a trovare la sua originalità intellettuale all'interno di un richiamo alla sua (e mia) terra. E le sue continue provocazioni al mio essere partito, si leggono in questo senso. Mi viene però a me di essere provocatorio, per una volta....

"Cucuzze" e "babbaluci", son tutti i termini di una sicilianità folkloristica.... Ed il folklore è, spesso, il sintomo della decadenza di una civiltà. Se debbo fare un revival di musica sicula, do per scontato che essa è, se non morta, un po' in declino. Ma l' "esser siculo" è tutt'altro che un sentimento in via di estinzione. Perché allora comportarci da intellettuali.. gli stessi intellettuali criticati da Bukowski? Uhm, vediamo un po', di essere più chiari. La sicilianità delle "cucuzze" mi pare un ottimo modo di reintepretarsi, ma dal punto di vista dell'intellettuale che passa per le vie della città e ne capisce il movimento, movimento cui vorrebbe contribuire, ma che invece, aihmé, può solo omaggiare con l'arte ed i discorsi; perché, in fondo, io sono un intellettuale, ed il vecchio ortolano ambulante, con l'ape colma di cucuzze che passa davanti a me, non è che abbia proprio tantissimo da "spartiri cu mia"[spartire con me]. Difficilmente gli farò leggere il mio libro, ma magari questo interesserà tanto a qualche altro intellettuale, magari milanese, che apprezzerà l'atteggiamento nostalgico di questa rilettura della sicilianità.

Insomma, io, non so Tonino, le cucuzze le chiamo zucchine e non me ne voglia la mia sicilianità..... il termine lo uso, al massimo, per nostalgia. E quindi? E quindi la sicilianità delle "cucuzze" non mi appartiene, ed invito chi invece se ne sente davvero parte a scriverne, se scrivere è un'azione che a lui/lei porta piacere. E magari scriva nella sua lingua, che non sarà un italiano arricchito dal siciliano (miscela comunque più esplosiva dell'uranio impoverito), ma un siciliano stretto e meravigliosamente incomprensibile (al meno di prima mano).

Cosa è allora la mia sicilianità? Tante cose, ma per restare in campo gastronomico, e volendo trovare qualcosa che vada oltre "me", senza però escludermi dalla definizione, faccio una proposta. Chiunque esca la sera a Palermo, fa prima o poi incontri con uno "stigghiolaro" abusivo. Uno può anche provare repulsione per queste budella svuotate dalla merda, ma difficilmente se passate dal "fuso orario", il fumo dell'arrosto non vi entra nei vestiti. Quello di "mangiare porcate (nelle ore sbagliate") è un qualcosa d'internazionale.... ma in Sicilia le porcate hanno dei sapori particolari. Le stigghiola, assenti nei ristoranti, nelle rosticcerie, ma arrostite per strada, sono il tratto d'unione tra gente bene e genta di borgata. Mi sembrano un "concetto" molto più vivo delle "cucuzze"..... la mia provocazione è dunque la seguente proposta:

Perché l'associazione "Cucuzze" non cambia nome in "Stigghiola"? Ok il suono è quasi cacofonico ad un orecchio italofono..... ma 'sta minchia, straripa di sicilianità e palermitanità da ogni poro semantico (si chiamano così i pori delle parole, no? ehehe).

29/01/06

blog, letteratura e formaggio

recupero dal mio mastodontico archivio questa riflessione di marco candida



Con i blog possiamo sperimentare ogni tecnica di comunicazione – possiamo auto-promuoverci, “farci belli”, possiamo “fare gli scrittori”, “fare i giornalisti”, “fare i fotografi”, fare qualsiasi cosa ci passi per la testa, e in più tutto quel che facciamo è di dominio pubblico, e comporta “conferenze stampa” (che cosa sono i commenti se non piccole forme di conferenze stampa?), e comporta, anche, una certa notorietà –; ma, io dico, sperimentando le tecniche di comunicazione (una delle tentazioni più grandi, ad esempio, è cercare di convincere subito che si è dei “geni” o “tra le migliori menti della nazione” soltanto cominciando a dirlo, a “mettere in giro la voce”) queste finiranno per perdere la loro efficacia. Saremo presto in grado di riconoscerle e di non cascarci più e a quel punto quel che conterà sarà soltanto il messaggio.

Io, nella mia esperienza, ho sempre sentito parlare di “Letteratura”, ma, pensandoci bene, non ho mai capito bene che cosa questa “Letteratura” fosse. E adesso, poi, ho smesso di pensare che la parola “Letteratura” abbia qualche senso. La Letteratura, qualcuno ha detto, si può pensare come un punto che si allarga. Io, da buon topo di biblioteca, penso invece la letteratura come un gruviera: nel gruviera ci sono tanti piccoli buchi e tu puoi decidere di infilare il dito in uno di quei buchi, però puoi anche decidere che il buco puoi fartelo da te – certo con molta più fatica e molta più pazienza.

Nessuno mi vieta, voglio dire, di aprire una casa editrice e di lanciare nel mondo editoriale e nel mondo della letteratura (se si intende “letteratura” nella sua estensione illimitata) un nuovo autore, e con quel nuovo autore, comunque, in qualche modo, la Letteratura sarà chiamata a confrontarsi. Lo spazzerà via, sì, ma la Letteratura, nella sua estensione non più illimitata, ci si dovrà confrontare.

Se devo giudicare uno scritto, io non lo giudico più alla luce della Letteratura; cerco di giudicarlo in sé. Se si prova a giudicare un qualsiasi autore, anche molto grosso, alla luce della Letteratura, quell’autore scomparirà quasi; se si considera in sé, avrà invece una dimensione più giusta. Se dico: “Petrarca” tutto da solo, mi sembra molto grosso; se invece dico: “Petrarca nella Letteratura”, mi sembra quasi minuscolo.

Ora: si può parlare di una forma di letteratura in rete? Una specie di macrocategoria che assorbe e comprime tutti quanti e che li direziona da qualche parte – anche se non si sa bene dove? Credo di sì. (E con questo credo anche che quando diciamo Storia della Letteratura stiamo parlando della Storia di un Genere che ha fatto la fortuna della Storia del Libro; ma non pretendo di essere seguito fino a qui). Credo che già si possa fare. Credo che ci sono comportamenti che si mettono in atto e che sono tipici di chi apre un blog; così come sono tipici certe scritture e certi topoi in chi comincia a scrivere. Questo significa che la differenza alla lunga la faranno i messaggi e non le tecniche di comunicazione di chi apre il blog o l’abilità nell’uso della tecnologia.

Se dovessi scrivere un racconto su un blog e dovessi cercare di rappresentare un blogger ideale probabilmente penserei o un blogger che racconta la sua quotidianità, oppure un blogger che parla della rete e che usa un linguaggio specialistico. Il primo cercherei di farlo parlare una lingua condizionata dalla televisione e dall’americanizzazione, cercherei di farlo parlare il linguaggio dei mass-media. Il secondo lo rappresenterei soprattutto come un feticista del prodotto tecnologico e sulla via della definitiva cyborgizzazione. Insomma non lo rappresenterei un blogger, un “vero blogger”, un “blogger archetipo”, come una persona libera, ma come una persona che usa liberamente dei mezzi, ma non è proprio “libera”.

Lo ripeto: il blog diventerà uno strumento significativo quando si risponderà non alla domanda “Che cosa è la rete?”, ma “Che cosa abbiamo fatto, che cosa facciamo e che cosa vogliamo fare con la rete?”. Non si tratta di evangelizzare mostrando tutte le possibili applicazioni della rete, come è stato fatto in gran parte (Giuseppe Granieri per primo) al Webdays; si tratta di portare esempi di applicazioni concrete, come è stato fatto in minima parte (Lele Dainesi, ad esempio).

Credo che la logica degli inviti dei WebDays dovrebbe cambiare. Credo si dovrebbe smettere di parlare del mezzo e delle possibilità che permette di percorrere (con il tono di chi sta evangelizzando, di chi si sta facendo portavoce del Nuovo Verbo) e di far parlare, se c’è, chi quelle possibilità le sta percorrendo e facendogli dire che tipo di risultati ha ottenuto percorrendole. Insomma, non chi conosce il mezzo, ma chi il mezzo lo usa.

Forse facendo questo, nei WebDays, e nei raduni in generale, può anche cambiare il modo di intendere le stelle del blog. Mi sembra che le stelle del blog, in questo momento, siano: chi fa molti contatti (anche se la questione dei contatti non è chiara e non è affidabile) oppure chi ha dei meriti, ma non attraverso il blog. Il blog riuscirà a diventare un mezzo significativo quando ci saranno blogger che si conquisteranno merito attraverso il blog. Per arrivare a questo è necessario “inventarsi” cose da fare attraverso le tecnologie, e non inventare tecnologie senza curarsi della qualità dei contenuti e dei messaggi. Sono contento, per fare un esempio, che esistano le forme di pubblicazione nanopubblishing, ma non mi basta che siano usate per informare soltanto sul nuovo prodotto tecnologico, voglio di più: voglio, per essere precisi, qualità del contenuto e del messaggio.

I blog e “le infinite possibilità che offre la rete” (come si dice) acquisteranno importanza se ci saranno persone che agiranno in modo importante; così come la letteratura acquista importanza, e diventa Letteratura, quando le persone agiscono in modo importante (e non perché vendono molto o perché padroneggiano in modo fenomenale tutte le forme del discorso e via così). Queste persone, queste persone che agiranno così, del blog saranno, ne sono sicuro, le stelle.

tutta palermo viva, ironica, sarcastica, violenta e sublime

Ho rimandato in lista un vecchio racconto, l'afferracazzintallaria e queste sono state le reazioni. Rileggetelo pure voi...



l'ho letto tutto d'un fiato, morta dalle risate e leggendone parti ad alta voce a mia sorella pisciata anche lei dalle risate, finchè non si è appassionata e l'abbiamo finito insieme con un "nooooooooooo..."!
ma lo sai tonì che spaziandolo così si legge con facilità enormemente maggiore?

bravissimo, davvero, c'è tutta palermo viva, ironica, sarcastica, violenta e sublime, in quello che scrivi, sei uno specchio formidabile




silvia geraci





Delicata l'immagine dell'amore maschile e del cuore che tempesta inutilmente.
Delicata l'immagine della Sicilia. Delicata e amarissima.
Mi sono sempre chiesto perchè una civiltà così amara e spietata riesca a produrre persone delicate e leggere, come te (e tanti altri di cui non faccio il nome per non offendere la tua modestia) Sarà una reazione? un residuo antico?
Poi siete anche insopportabili, per come vi conosco personalmente.
Insopportabili. Peggio dei sardi.
Il racconto è così così. Splendido.
L'unica cosa che non approvo è la citazione rovesciata di Jane Mansfield: "Sei contento di vedermi o hai solo una pistola in tasca?"
Il resto fila via che è una meraviglia.

Restano la Sicilia e un Leopardi siciliano con tonalità di Paz.





raffaele ibba

"Io resto sullo sfondo, intonso".

Ciao Tonino.
Coinvolgente la vicenda di Paolo e di questi tempi che sorridono solo all'immobilismo del corpo, del cuore, della parola.
Paolo non risponde, non si espone più, non si indigna...l'immobilismo del gruppo, immobilismo dell'individuo.
Paolo non può soffrire, pensare a chi non c'è più: non può riprendere fiato perchè nel frattempo gli altri vanno avanti, fanno sogni che non lo contemplano

Nessuna reazione. Paolo si fa del bene, del male oppure si fa "del vuoto" (che è peggio )?
E in questo vuoto è triste lottare per sperare ancora in un amore da tempi supplementari se hai una sorella che occupa il bagno per depilarsi il viso...tutti invisibili, tutti incollati ad un epilogo carta moschicida!!!

Quasi impossibile non sentirsi solidali.

"Io resto sullo sfondo, intonso".





dino meloni





è una maturazione stupenda del tuo saper raccontare e dire.

A me, a dire che ci si stimola, ha ricordato un nomignolo altrettanto stupendo che si usava affibiare ad una persona del mio paese: "'nsacca negghia", cioè, mettere nei sacchi la nebbia. Un perdigiorno od un saggio?

Boh.

Ci può nascere un personaggio coi fiocchi per un racconto o anche un personaggio per un romanzo infinito.

Devi imparare che la vita che uno si sceglie e' megghiu pigghiarla coi fianchi larghi, almeno c'e' un po' di sustanza con cui consolarsi.

Ecco, questa cosa che hai scritto a me fa piacere assai, ma pure mi preoccupa, perché sembra che da scrittore sei già maturo, ma da uomo sei cresciuto troppo in fretta.

E dico basta.


costantino simonelli





un romanzo di carne e sangue




Per scrivere il romanzo del ventunesimo secolo e per dirla parafrasando un gergo sindacale, direi che sarebbe ora di ripensare (non è certo la prima volta, però…) il rapporto tra scrittore e lettore, quello che i narratologi chiamano il contratto di veridizione, le modalità per cui il destinatario di un’opera accetta le verità di chi l’ha realizzata. Ecco, usando un’espressione sindacale direi che quel contratto è da rinegoziare, da riscrivere, oggi più che mai.

Ma attenzione, e qui viene il bello, finora le sue farraginose riscritture sono avvenute solitamente a livello di addetti ai lavori e studiosi, mentre il frastagliatissimo e movimentatissimo ruscello della produzione continuava a scorrere allegramente per proprio conto e ad aprire nuovi affluenti rimasti sconosciuti per i pescatori di formule narratologiche.

Perdonate la metafora, ma mi serve per spiegare il punto. E cioè che se una rivoluzione nel rapporto tra chi scrive e chi alimenta la domanda di scrittura ci deve essere, deve rimanere - come dicevano Wordsworth e Coleridge nella loro prefazione alle Ballate Liriche (1798) - in compagnia della carne e del sangue di chi vi partecipa.

In soldoni, se io scrittore voglio un nuovo romanzo per il secolo appena entrato devo dire al mio potenziale lettore: eccoti la storia, eccoti la mia intelaiatura di mondo, ora vieni a trovarmi, fattici una passeggiata e dimmi come ti trovi. Posso farlo con tutte le tecniche che l’evoluzione stilistica mi mette a disposizione, ma per farlo bene c’è solo un modo che riassume e supera tutte le tecniche: devo invitare chi legge a condividere un’esperienza, qualcosa che si possa fare realmente dentro al testo. E non si tratta delle solite trite tiritere su lettore modello, lettore empirico, autore ampliato ecc... e chi più ne ha di formule più ne metta. Qui si tratta di compagnia. Una cosa vera.


 


Si tratta di decidere di fare insieme un po’ di strada in un mondo che è illuminato, raccontato descritto in modo nuovo. Sia esso frutto di un’invenzione o di uno sguardo su ciò che è. Io, scrittore devo rivolgermi al lettore dicendo: ecco cosa sto facendo per te, perché il tuo sguardo mi interessa tanto che lo voglio compagno d’avventura. Reale. Ti voglio dentro al mio libro in carne e ossa così come Bastiano è entrato nella Storia Infinita e ha fatto esperienza reale di quel mondo. Salvandolo.
E se, poi, io lettore voglio un nuovo romanzo per il secolo appena entrato allora devo rispondere al mio potenziale scrittore: ci sto, d’accordo. Voglio fare esperienza di quello che mi racconti.

Voglio confrontarlo con la mia vita, voglio vedere la nostra comune realtà, anche attraverso le tue lenti. Perché così si perfeziona il contratto. Io ti garantisco che ciò che mi racconti lo accetto e lo valuto come qualcosa che viene a toccare la mia persona e mi impegno a non essere più lo stesso una volta ultimata la lettura.

Ecco, questa mi pare un’esperienza da fare. Noi, appassionati di scrittura ce lo siamo alla fine meritato. Siamo rimasti indenni dalle molte mareggiate del mercato e dai venticelli stentorei di tanta critica de-costruttiva. Ma ci siamo, come Papillon sul sacco, e mai come oggi la nicchia dei cosiddetti lettori forti è una nicchia che sgomita si muove si contamina e si scambia con altre e altrettanto cosiddette ma vitalissime nicchie. Capace di stuzzicare (niente di più, per carità) anche l’attenzione dei maneggioni del mercato. Cogliamo allora l’occasione di questo periodo così ricco di informazioni trasversali e di voglia di partecipare e di stare dentro a una comunità che dialoga. Partendo anzitutto dalle storie, in compagnia della carne e del sangue. Di chi legge e di chi scrive.


Saverio Simonelli

Sindrome da internet

Pochi fenomeni hanno subito una crescita esponenziale e vertiginosa come quella che ha caratterizzato Internet negli ultimi dieci-quindici anni. Forse sono ancor meno le innovazioni tecnologiche capaci, a così breve distanza dalla loro diffusione iniziale, di entrare nell'uso comune, di cambiare o condizionare la vita quotidiana del cittadino, financo il suo modo di mettersi in relazione con gli altri. L'evoluzione tecnica del mezzo informatico, inoltre, è talmente rapida che spesso l'analisi di un fenomeno si completa quando il fenomeno stesso si è riadattato, trasformato in altro.

Anche sul fronte psichiatrico si è osservata una serie eterogenea di situazioni cliniche relativamente nuove, che la psichiatria ha fronteggiato con gli strumenti che possedeva. Sono nate così etichette per sindromi da dipendenza da Internet e simili, nel tentativo di incorporare nuovi comportamenti nella nosografia corrente, che è prevalentemente quella, di stampo americano, del DSM-IV.

Per evitare di cadere in uno sterile collezionismo di sindromi "à la DSM" (dipendenza da chat, dipendenza da computer, panico da "disconnessione" etc.) che nulla ci dice su cosa succede effettivamente "là dentro", non resta che procedere pazientemente con alcune osservazioni di stile fenomenologico, alla vecchia maniera.


continua sul sito asterione.org

© Alberto Gaston e Cristiano M. Gaston 2005
(questo brano è pubblicato come: A. Gaston, C. M. Gaston, Sindrome da Internet, in InnovAzioni, n. 4, settembre-ottobre 2005).

28/01/06

minima (umoralia)


riceviamo e pubblichiamo


Mi sono cancellato dalla newsletter di maximumtel oggi, dopo aver letto l'articolo che commenta la cartellonistica con il solito piglio moralisticheggiante, proprio agli autori della casa editrice più figa del mondo, e finisce, piuttosto originalmente, con il solito Lusconi giudaicomassonico.

Il mondo a Roma si divide in due universi: c'è quello dei fighetti di papà, ripartiti equamente tra estrema destra da parata e estrema sinistra part time, ci sono tutti gli altri che devono lavorare per campare, che vivono nelle periferie, che vestono nei grandi magazzini, che non hanno il casolare della nonna al mare.

Ci sono anche inquietanti paria, che pretendono di emulare quelli con i soldi, i nati con il paracadute, i firmati quando serve. Sono quelli che si impegnano in rincorse impossibili, si innamorano di miti che non si possono permettere, vogliono fare gli avvocati famosi o i cantautori di successo senza una famiglia. Fanno schifo, se ci pensi, però ispirano la simpatia del debole.

Ma i i baciati dalla sorte che fanno i proletari finché gli va, che scelgono di predare l'appartamentino della vecchia nel quartiere popolare, che si vestono straccione ma con gusto, che imparano una lingua borgatara come fosse inglese, sono merde di plastica.



ddt

libri all'indice


Qui avevo riportato le testuali parole del curatore di Best Off 2006, Emma ha pubblicato l'indice del volume in formato rtf e noi non possiamo che ringraziarla, già avevamo una mezza idea di comprare il volume, veduto l'indice corriamo a comprarlo...



Bagheria, la mia città, è presente con la penna arguta di Emiliano Morreale - che scrive su una delle più belle riviste degli ultimi anni, Lo straniero. Emiliano è il figlio di Nino Morreale, grandissimo storico che insegna (o insegnava?) al mio liceo (citato pure da Dacia Maraini nel suo Bagheria: L'indomabile Antonino Morreale che umilmente insegna nel liceo di Bagheria e allo stesso tempo non rinuncia a gettare uno sguardo acuto e intelligente sul passato e il presente della piccola vulcanica città, p. 134), come dire, Bagheria c'è sempre.
Secondo voi perché Binnu l'ha eletta a sua dimora quando poteva scegliere qualsiasi angolo del globo?



   



Su Bagheria resta pur sempre da leggere il mio Bagheria morì d'improvviso

l'amore nel vaso di Pandora

Ho letto queste righe nell'introduzione a Idea di Panofsky e ho capito, anche solo per un istante che cos'è l'amore.



Nel 1916 Panofsky sposa Dora Mosse, con la quale dividerà fino al 1965, anno in cui Pandora muore, una lunga parte della sua vita e uno straordinario percorso intellettuale. Assieme a Dora, Pan pubblica nel 1956 Pandora's box: The Changing Aspects of a Mystical Symbol...



come si fanno i miracoli?

Quello che segue è l'editoriale di febbraio di BombaCarta, scritto dal Timoniere



Che cos’è il miracolo?

C. S. Lewis nel suo Miracles offre questa definizione: un’interferenza nella Natura di un potere soprannaturale. Non vi possono essere miracoli se, oltre alla Natura, non esiste qualcos’altro che possiamo chiamare soprannaturale.

E, giunti qui, alcuni si fermeranno nella lettura di questo editoriale dicendo: “ma guarda un po’: questi credono ancora ai miracoli. Poveri illusi!”...

Chi sta continuando a leggere è in effetti (come me che scrivo) un illuso, cioè, letteralmente, uno che si mette in gioco (in + ludus). Per credere ai miracoli occorre “stare al gioco”. Ma quale gioco? Cercherò di spiegarlo.




Secondo alcuni non esiste altro che la Natura. Che cos’è la Natura? Sostanzialmente tutto quello che c’è, inteso come tutto ciò che cade sotto i miei sensi. Se ampliamo il discorso (e a noi interessa ampliare) per ciascuno di noi il “naturale” è il mondo concreto che viviamo, la nostra vita ordinaria. Molti la vivono come un fiume che scorre: tutto scorre come un fiume... In senso stretto nulla cambia e nulla può cambiare in questa fluente monotonia. Nulla la può bucare veramente, nulla c’è al di là di questa condizione naturale, nulla c’è di “soprannaturale”.

Allora, se il miracolo è impossibile, non resta che convertirlo in "miraggio". Cos’è il miraggio? Un fenomeno di rifrazione della luce attraverso strati d’aria di diversa densità che si verifica su superfici assolate. Il miraggio ha l’effetto di farci vedere gli oggetti circondati da una distesa abbagliante, luccicante. E allora ecco che tutto nella vita deve essere strepitoso, incredibile, superlativo, cool, exciting, eccezionale, inaudito. E’ il segreto della pubblicità: circondare l’oggetto di un’aureola abbagliante che lo renda desiderabile, capace di dare l’illusione di bucare la Natura. Ma è un miraggio. Il miracolo così, diventando pret-a-porter, è snaturato in radice.

Ma persino chi crede nel “mistero della vita” a volte crede che tutto sia un mistero e alla fine il risultato è uguale: nel buio tutte le vacche sono nere. In questa visione il desiderio di felicità che vive nel profondo del cuore dell’uomo è imbozzolato dentro un fiume omogeneo e denso o dentro una oscurità senza luci né ombre. Cosa può stupire una vita così? In fin dei conti, nulla.

Il miracolo è un colpo di pietra al centro di un vetro, è la discontinuità, è l’irruzione di qualcosa che scuote l’umanità di ciascuno di noi nei suoi desideri più profondi. Cos’è in grado di operare questo nella nostra vita?


Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo,
(Montale, Forse un mattino andando in un’aria di vetro)


Fino ad oggi hanno ancora “tenuto” due eventi: l’amore e la morte. Rappresentano infatti i momenti di confronto con una alterità radicale. E non è un caso che siano i pilastri classici del romanzo. Ma anche amore e morte sono a rischio...

L’arte, a nostro avviso, ci aiuta a non spegnere l’occhio, a non ridurre il mondo a un flusso cosmico lattiginoso e monotono. Bisogna salvare il miracolo, dunque. Preservarlo, cercare la maglia rotta nella rete...


Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l'ho pregato,- ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine…
(Montale, In limine)


Così si fanno i miracoli.

la verità, vi prego, sull'arte

Su Ore Piccole lo scrittore Gabriele Dadati aveva dato la sua personale definizione d'arte:

Io ho un'idea precisa di che cos'è l'arte, tutta l'arte: un fatto comunicativo che avviene tramite modalità estetiche. Vale a dire: un "messaggio" che passa attraverso un qualcosa la cui "forma" è realizzata con una riflessione e un impegno che tengono ben presente una idea di bellezza. Questo non solo per l'arte figurativa, ma anche per la letteratura o il cinema o altre cose. E questo è vero con certezza, per me, almeno fino a inizio Novecento e poi molto spesso anche durante il Novecento.

Dato che per due anni ho vissuto nel dipartimento d'estetica dell'Università di Palermo e mi sto specializzando proprio in filosofia estetica, ho voluto rispondere pure io, è nato uno scambio interessante di opinioni parallele. Dato che il mio grande maestro è il professore Salvatore Tedesco - docente di Storia dell'Estetica e di Metodologia della Storiografia Estetica, nonché autore di un saggio che smaschera la vera natura felina di Snoopy - gli ho chiesto di intervenire nella diatriba che è vecchia come il cucco:


«È vero che la polemica è vecchia come il cucco, e che c'è più da imparare dal verificare come equivoci e posizioni intenibili si ripetano, che non da sperare di poter aggiungere nulla di sensato ...

Mi succede continuamente di vedere, per esempio da parte di musicisti, ma anche ad es. registi, entusiasmi incredibili nel ripetere posizioni pseudo- o post-romantiche, o appunto invece tentativi più o meno semiologici, che a conti fatti non mi sembrano poi tanto più aggiornati dei primi.

Io osserverei solo due cose: in primo luogo, chiaramente ogni definizione finisce per trasformarsi in una teoria, o un impianto prescrittivo, e quindi qualcosa di legittimo per il singolo caso (per quanto spesso anche lì riduttivo) ma del tutto fuori misura se inteso alla lettera come ambito di movimento complessivo dell'arte.

Secondo, e soprattutto: cosa insegna san Garroni, sul fatto che l'arte non è una classe? Mi sembra che il discorso, nel momento stesso in cui stimola alla critica e alla sua relazione con la teoria dell'arte (tanto per accennarti ai temi che sai, da Kant a Baeumler a Garroni appunto) porta a mettere abbastanza risolutamente da parte le faccende definitorie, e gli assi nella manica su cui poi magari esistono biblioteche e controbiblioteche intere».

il sorriso oscuro e felice di Liz Taylor

Questa che segue è la parte finale della conclusione della mia tesi di laurea: Neve e Silenzio. Paul Celan verso un'estetica della testimonianza.

paul celanVari sono stati gli approcci per cercare di rendere testimonianza dell’evento disumanizzante che ha lacerato il tempo e l’inviolabilità dell’uomo. Tra questi, quello di Jean-Luc Godard e delle sue Histoire(s) du cinéma è particolarmente significativo.
Godard s’è confrontato con l’esigenza di ripensare interamente, dopo Auschwitz, il nostro rapporto anche con l’immagine; l’ha fatto sottolineando come tutte le immagini, ormai, non ci «parlano» che di questo (ma dire che «ne parlano», non significa dire che «lo dicono»), perciò, instancabilmente, Godard rivisita tutta la nostra cultura visiva alla luce di questa questione.

Tutto, in «un tipo di montaggio che fa turbinare i documenti, le citazioni, gli estratti di film verso una distesa mai coperta: montaggio centrifugo, elogio della velocità», parla di Auschwitz: nella composita architettura fatta di parole che si sovrappongono, di spezzoni, di commenti fuori campo e di musica, emerge un brandello di Storia che è spiazzante e fortemente semantizzato. Ci riferiamo alla scena in cui i volti dei deportati sfumano nel sorriso di Liz Taylor, l’attrice è resa bella per sempre nella spiaggia di Un posto al sole, non c’è nessuno stravolgimento o finzione, Godard ha semplicemente mostrato nel montaggio quello che è veramente accaduto:


lyz taylor in un posto al soleC’è una cosa che mi ha sempre molto toccato in un cineasta che amo così così, George Stevens. In Un posto al sole trovavo un sentimento di profonda felicità che ho ritrovato solo in piccola parte in altri film, anche molto più belli. Un sentimento di felicità laico, semplice, in Elizabeth Taylor, in un certo momento. E quando ho saputo che Stevens aveva filmato i campi e che in quell’occasione la Kodak gli aveva affidato i primi rulli in 16 mm a colori, non ho saputo spiegarmi altrimenti il fatto che abbia potuto fare in seguito quel primo piano di Elizabeth Taylor che irradiava una specie di felicità oscura.


Auschwitz si è conficcata nel Tempo e nella vita che ha ripreso i suoi cicli, fatti anche di sorrisi hollywoodiani e, pure che una buona metà di quella pellicola era “rigata a morte”, ciò non ha impedito a Stevens di usarla per eternizzare quel sorriso oscuramente felice. Lo stesso faceva Celan quando, scrivendo i versi di CORONA, celebrava il tempo che riprendeva, malgrado tutto, a scorrere.

La vita continua e deve fare continuamente memoria, proprio come la pellicola usata da Stevens porta in sé l’irrefutabile traccia di quello che è stato.
Paul Celan aveva sintetizzato tutto questo nella coappartenenza necessaria di papavero e memoria, tra i due estremi trova spazio anche una vitale eredità di speranza:


Ho tagliato bambù:
per te, figlio mio.
Ho vissuto.

Codesta, che domani sarà
altrove, capanna, ora
regge.

Non diedi mano a costruirla: tu
non sai in quali
vasi io misi, anni addietro,
la sabbia che mi stava intorno,
per ordine e decreto. La tua
nasce libera — libera
rimane.

La canna, che prende piede qui, domani
s’innalza pur sempre, ovunque
l’anima ti possa spingere fuori
d’ogni vincolo.

demetrio paolin. il dio lacero

1. Auschwitz rappresenta una crasi. Una rottura, una falla della storia. Il campo di concentramento con il suo armamento mortuario, che lo accompagna, è l’immagine ridotta a zero della storia di questo novecento. Un’icona univoca, si potrebbe obiettare, ma di certo quella che maggiormente rappresenta il ‘male’, lo scandalo che gli uomini hanno dovuto soffrire. Primo Levi, come sempre preciso e misurato nelle parole, non ha dubbi quando deve far risaltare su tutto una parte di quella terribile vicissitudine che gli toccò vivere. In Se questo è un uomo, nel capitolo centrale de I sommersi e salvati, scriveva: “Se potessi racchiudere in un immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero”. Il ritratto ci è stato consegnato, tocca a noi provare a sopportarne la vista senza rimanere pietrificati.
Lo sterminio degli ebrei (ma anche quello degli omosessuali, dei Testimoni di Geova, dei cristiani, dei politici), senza contare l’eliminazione scientemente condotta nei confronti di anziani e bambini handicappati, pone ai cosiddetti spiriti religiosi una serie di angosciose domande, le quali non sempre riescono a ricevere una risposta. Questioni, che il più delle volte, anzi, rimangono tragicamente inevase. Tragicamente, perché l’uomo di fede non è un essere storico, che studia e si accontenta della spiegazione razionale dei fatti, i quali – fatta salva l’eccezione di alcuni negazionisti – dovrebbero essere stati appurati come realtà e ricostruiti nella loro quasi interezza. Il credente non si ferma alla buccia della storia, ma vuole capirne e comprenderne gli abissi. La nostra condizione umana è quella di esseri sopravvissuti ad Auschwitz e allo sterminio. Ognuno di noi, anche chi non ha mai vissuto quegli orrori, li possiede in sé ed è chiamato a farsi delle domande, prima ancora di formulare delle risposte. Pertanto, la scelta di interrogarci su Dio e il Male, sulla sofferenza e la sua possibile redenzione, partendo da Primo Levi, è come tutte le possibilità opinabile, ma ci sembra che l’autore torinese – senza spreco di parole e con essenzialità – abbia chiarito i termini della questione.

2. Cosa ha rappresentato la “soluzione finale”? L’immagine che ci si para davanti è quella di un iter di morte. Sergio Quinzio è forse l’autore che con più lucidità ha messo in evidenza questo passaggio; in un suo libro Il silenzio di Dio egli ha declinato le coordinate di inizio e di fine di questo percorso: dal Pantocrator ad Auschwitz o, detto altrimenti, la non avvenuta redenzione del mondo da parte di Dio. E’ questo fallimento radicale, perché inficia quel sentimento forte di un Dio onnipotente, attivo e vincitore. L’Agnello si è immolato, ma il pungiglione della morte è ancora presente: la morte non è stata vinta, ma anzi ha trovato il suo trionfo, perché in Auschwitz “normale è la morte”. L’aforisma di Adorno, in Minima Moralia, è la freccia scoccata a bersaglio nella descrizione del sottofondo concentrazionario. Sempre Primo Levi mette in evidenza come la morte, nel campo di concentramento, fosse triviale e burocratica. L’uomo viene privato anche dal suo essere mortale, viene svuotato, ridotto a pura larva di carne, tale che “si esita a chiamar morte la loro morte”. La questione della dignità umana è legata intimamente al problema della presenza del male della storia.
Auschwitz non fu soltanto la più mostruosa macchina eliminatoria che l’uomo abbia potuto concepire, fu anche un’applicazione scientifica di uno svuotamento. L’uomo venne reso sterile, carname da macello, pura forza lavoro. I deportati, in questo caso sia i sopravvissuti sia i sommersi, hanno fatto del male un’esperienza radicale, quasi assoluta. Se la concezione del Male post Auschwitz non può essere la stessa, neanche le risposte, che la filosofia e la teologia hanno fornito al tema, rimangono simili. Il primo effetto dei campi di concentramento è l’isterilirsi delle teodicee e di tutti quei sistemi, che cercano in qualche modo di giustificare la presenza della sofferenza e della morte nella storia, di cui ognuno di noi è partecipe. Quel tipo di risposta non vale, non regge contro l’urto e l’oltraggio subito.
Ciò significa mettere in discussione il nostro modo di vivere e di intendere Dio (per questo tema, consiglio Quale Dio di Paolo De Benedetti), la Shoah e l’interrogarsi intorno ad essa sono divenuti il nocciolo di una nuova ricerca del pensiero e della fede. Le risposte a questo problema temerario (Paryson) non sono mai univoche o concilianti, perché come abbiamo detto poco innanzi a venir messa in crisi è l’idea di una storia redenta e di un universo teso al bene. L’orizzonte mortale e la caligine tenebrosa, emessa dai forni crematori, stanno a dimostrarci l’esatto contrario: questo non è il migliore dei mondi possibili, il male patito da innumerevoli innocenti non è servito, non è andato a fin di bene. La radicalità della vicenda sterminio è totale, perché quello vissuto dal deportato è un Male assoluto (nel senso etimologico di slegato) dalla storia e dalla vita di ogni giorno. Come ha messo in evidenza Paul Ricoeur, la nostra mente può arrivare concepire una sofferenza, che possa risultare comprensibile, ma è l’eccesso di questa, che rende un mistero di iniquità il Male. “Perché tanta sofferenza in eccesso rispetto alla capacità di sopportazione dei semplici mortali?”. Questa è la domanda, da questa non si può e non si deve evadere. L’eccesso di sofferenza, e non la sofferenza in sé, è la materia che rende lo sterminio un unicum storico e filosofico e questo ciò che Levi e gli altri testimoni ci raccontano nelle loro pagine. A dettarci i giusti tempi è sempre l’autore torinese, che ne Il pugno di Renzo, un saggio contenuto nella raccolta L’altrui mestiere, formula le seguenti domande: “Perché gli innocenti? Perché i bambini? Perché la provvidenza si ferma davanti alla malvagità umana e al dolore del mondo?”.

3. Il problema della sofferenza del giusto è un tema strettamente biblico. La storia di Giobbe, una vicenda terribile ed enigmatica, è quella che maggiormente viene evocata, ma la parola di Dio è sin dal principio, storia di giusti morenti e di empi che prosperano. Già la Genesi con il racconto dell’uccisione di Abele ci esprime questo sgomento nei confronti della morte senza un perché di un giusto e della sua sofferenza senza significato. Pensiamo poi a certe pagine del Qoelet e quelle di Giobbe o al servus patiens di Isaia, che prefigura – per i cattolici – il Cristo della Passione e i martiri dell’Apocalisse. La parola di Dio è quindi narrazione di questo scandalo, quello dell’inerme che soffre sino alla morte “e alla morte di croce”, che neanche l’amen apocalittico (Sergio Givone ne La storia del Nulla) sembra scongiurare o mitigare. Il giusto è l’uomo annichilito, colui che suo malgrado soffre un dolore che non ha limite, è l’essere umano “degradato ad animale da esperimento”. Con queste parole Levi descrive Giobbe e la sua storia, che non casualmente egli pone all’origine delle proprie radici di uomo. Se l’offesa è ciò che caratterizza l’uomo, in cui archetipo è il personaggio biblico, così l’umiliazione sarà la caratteristica del linguaggio degli ebrei piemontesi, una sorta di dialetto dove non esistevano termini ‘buoni’, ma soltanto termini negativi, come l’autore torinese racconta in Argon, dove mette a nudo un’altra propaggine del suo Io. L’uomo, quindi, è “dal principio” umiliato e offeso. L’immagine di Giobbe ritorna più volte anche nei conversari e nelle interviste che l’autore torinese rilascia. “Giobbe – sostiene lo scrittore in un’intervista con Daniela Amsallem – non accetta la sofferenza, e arriva fino a… a negare Dio”. Giobbe come prototipo dell’uomo che soffre, ma come può essere definita la sostanza del dolore di un giusto? La sua è una sofferenza inutile, a descrivercela con precisione è Pareyson nel suo libro su Dostoevskij. Il filosofo torinese mette in evidenza come l’autore russo innovi la tradizione portando al centro della sua riflessione il tema della “dolenza” senza scopo. Pareyson circoscrive questo satus della vita umana: “E’ una sofferenza per così dire senza soggetto: chi ne fa la triste esperienza, è incapace di resisterle o di reagirvi. Chi la vive è il mero oggetto d’un destino non meno crudele e ingiusto che capriccioso e arbitrario: ridotto allo stato di puro paziente, non può ottenere il nome di eroe, perché non agisce, ma quello di martire, perché appunto patisce”. Nell’idea della sofferenza inutile ritorna prepotente l’immagine di un surplus di dolore, che rende l’esperienza insopportabile. Anche per il male fisico è possibile, secondo Levi, trovare un limite: “E’ ammissibile soffrire (e far soffrire) solo a compenso di una maggior sofferenza evitata a sé o agli altri”. C’è di più, l’istinto dell’uomo, il suo imperativo categorico, è quello di “diminuire per quanto può la tremenda mole di questa ‘sostanza’ che inquina ogni vita, il dolore in tutte le sue forme”. Questo è il compito di ogni morale laica o religiosa che sia (un tema questo che affronteremo più da vicino nelle pagine seguenti). Sta di fatto che l’esperienza concentrazionaria è l’inverso. Il totalmente capovolto. Ne I sommersi e i salvati, Levi dedica un capitolo alla violenza inutile (una risposta indiretta alla machiavellica violenza utile de Il Principe?). L’argomento di quelle pagine è uno scandaglio, senza pregiudizi, nel mondo del lager, una ricerca che mette in evidenza come le vessazioni inflitte nei lager erano gratuite e come la morte di bambini, di vecchi fosse parte di un disegno terribile, ma anche “antieconomico”. Perché infatti - si chiede Levi – anche i vecchi e i malati venivano trasportati nel lager? Non sarebbe stato più logico farli morire nelle loro case? Invece tutti hanno vissuto “l’agonia della tradotta”, tanto che “si è indotti a pensare che, nel Terzo Reich, la scelta migliore, la scelta imposta dall’alto, fosse quella che comportava la massima afflizione, il massimo spreco di sofferenza fisica e morale. Il nemico non doveva soltanto morire, ma morire con tormento”. Pareyson, lo abbiamo già detto, definisce come prototipo della sofferenza inutile il martire, il teste muto di una sofferenza, Levi non lo definisce, ma ce lo descrive. Potrebbero essere molti gli esempi, ma basta la parabola di morte di Emilia, che lo scrittore torinese consegna alla pagine di Se questo è un uomo. Incastonata dalla parola “morte”, che apre questo breve bozzetto di poche righe e che lo chiude ciclicamente, ci viene narrata al fine di una bimba, compagna di viaggio dell’autore, i cui genitori durante il viaggio infernale verso la tenebra di Auschwitz avevano cercato di dare sollievo facendole un piccolo bagnetto, un gesto di pietà (e di civiltà), che però non la risparmia. Infatti appena giunta nel campo di concentramento, Emilia muore senza dire una parola, senza proferire verbo. Di lei non rimane vestigia o orma se non il suo copro cadavere sulla piattaforma del binario. Questa non è l’unica morte innocente che Levi dissemina nelle sue pagine. Pensiamo a Hurbinek. La sua storia è raccontata ne La Tregua ed è quella di un bambino da “nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz”. La sua esistenza è un’ostinata sofferenza (aveva tre anni e forse non aveva mai visto un albero), che si articola in quello sforzo di dire una parola, ma “nulla resta di lui”. Hurbinek, il figlio della tenebra del Lager, morì “libero, ma non redento”.
Perché il male? Ritorna questa domanda. Perché il male dei bambini? Ancora una volta Levi arriva al punto centrale. Può esistere un mondo redento dal male nel quale i bambini continuino a soffrire le pene più atroci? Lo scrittore torinese nel suo interrogare arriva a formulare le stesse domande che Ivan Karamazov pone a suoi fratello Alesia. Nel dialogo, tra i due fratelli, il primo sostiene l’impossibilità aprioristica di far coniugare l’immagine della sofferenza come redenzione del peccato e quella della morte dell’inerme innocente, rigettando l’idea di un paradiso in cui la madre abbraccerà il carnefice che fece straziare suo figlio. L’offesa è per sempre, l’oltraggio subito non si cancella, le agonie patite sono tali, che non si può immaginare un universo e un paradiso dove tutto si tenga. L’indelebile dolore del lager conduce Levi al medesimo ragionamento: i bambini muoiono quindi non c’è Dio ovvero (per lo scrittore torinese in un’intervista a Ferdinando Camon) “C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio”. Sempre secondo Pareyson nel discorso che formula Ivan Karamazov e che sotto certi aspetti viene ripreso dallo scrittore torinese, si fanno largo due critiche “fondamentali”: il fallimento della creazione e lo scacco della redenzione. Anche in Levi sotterranea, c’è l’idea di un Dio debole e sconfitto, fallito. A crollare sotto i colpi del lager è in primo luogo il concetto di Provvidenza, così come noi la concepiamo, ovvero come certezza di un piano di Dio, di una sua presenza fattiva nella storia, così da armonizzare la sofferenza patita e il bene ricavato.

4. Levi è forse, in maniera del tutto inconsapevole, uno dei critici più feroci del concetto di Provvidenza; lo ammette lui stesso nella sua intervista con Daniela Amsallem, quando rispondendo alla domanda, se la colpa fosse dell’uomo o di Dio, chiosa: “E’ colpa dell’uomo! Ma lei mi coglie [ride] in fallo. Io sono un incredulo, non credo in Dio, non ho mai creduto prima, tantomeno dopo Auschwitz. C’è anche una traccia in Se questo è un uomo, cioè ho scritto che penso che dopo Auschwitz nessuno abbia il diritto di parlare di Provvidenza”. Il luogo del racconto in cui Levi evidenzia questa disfatta della Provvidenza è la preghiera di Khun. Lo raccontiamo brevemente: è appena passata la selezione, che ha premiato alcuni e punito altri. Si mangia la zuppa in un silenzio pesante e sempre in quella tragica assenza di rumori ci si mette a dormire, gli occupanti della baracca odono un mormorio: “Il vecchio Kuhun prega, ad alta voce, con il berretto in testa e dondolando il busto con violenza. Khun ringrazia Dio perché non è stato scelto. Khun è un insensato. Non vede nella cuccetta accanto Beppo il greco che ha vent’anni, e dopodomani andrà al gas. (…). Non capisce Khun che è accaduto oggi un abominio che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla che sia in potere dell’uomo di fare potrà risanare mai più. Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Khun”. In un questo passo, la Provvidenza è svuotata di ogni suo significato, mortificata e ridotta a pura salmolodia vacua di una marionetta, ma quale Dio può permettere che avvenga una tale ingiustizia? Come si può vedere nella selezione la mano, anche flebile, di Dio e del Suo progetto di salvezza, che contempla al suo interno un’enormità di sofferenze nei confronti degli inermi? Una preghiera ad un Dio siffatto diviene abominio e orrore, tanto che lo stesso Creatore dovrebbe rifiutarla. Il male dopo Auschwitz annulla qualsiasi immagine provvidenziale: la preghiera è insensata perché significa gioire che qualcuno è morto al nostro posto. E’ questa l’ombra di Caino, che Levi descrive ne I sommersi e i salvati, il dubbio di aver soppiantato qualcuno, di essere vissuto, usurpando il posto a qualcuno che lo meritava di più. Ed è questa una sensazione, come lo stesso autore sottolinea, che non riguarda solo i deportati, ma tutti gli esseri umani, divenendo una sorta di categoria esistenziale della nostra condizione umana. Il tema è temerario e procede più per interrogativi che per affermazioni certe. E’ possibile che Dio abbia deciso, ab principio, che Khun dovesse essere salvo, contrariamente a Emilia o Hurbinek, che sembrano nati con l’unico scopo di morire? Detto altrimenti: la sofferenza altrui vale come espiazione e possibilità della propria salvezza? E’ giusto che la morte di qualcuno sia la mia vita? Sono queste le questioni che stanno alla radice dell’ultimo libro leviano, un sigillo di grande scrittura e di profondità di pensiero. L’autore torinese racconta in quelle pagine di un dialogo con un amico credente, in queste l’uomo di fede sostiene a proposito della scampata morte dell’ex deportato che “il suo essere sopravvissuto non poteva essere opera del caso, (…), bensì della Provvidenza”. Un’immagine che all’autore parve mostruosa, in quanto a sopravvivere nel lager non erano i migliori, che “sono morti tutti”. Levi è sopravvissuto e in più, come dice lui stesso, ha goduto della salvezza oltreché di una vita lunga e felice soltanto per raccontare: non c’è proporzione tra il privilegio e il risultato. Vivere in vece di un giusto solo per poter raccontare. Una dismisura che urla contro il cielo. La critica al concetto provvidenziale è assoluta, ma rimane da rispondere al problema di perché il Male e come fare per porre un argine a questo strabordare di malizia e di torto.


5. Di fronte al Male e questa sua assolutezza e radicalità, la sensazione è quella di blocco, di trovarsi di fronte ad un assurdo, ad un buco nero (un luogo caro alla geografia leviana), che ci risucchia senza la minima possibilità di risposta, senza l’occasione di organizzare o trovare un via di fuga. Una lezione di tenebra, che ci insegna la morte che siamo e che diventeremo. Una situazione disperante, ma Levi non sarebbe quell’uomo del consiglio, che tutti riconoscono, se la sua scrittura si esaurisse senza un tentativo di risposta. Una risposta duplice, che si articola da un lato dal punto di vista morale e dall’altro più strettamente teologico. D’altronde ci sembra chiaro: due sono le domande fondamentali che gli scrittori dell’universo concentrazionario si sono posti; c’è chi si è chiesto “dov’era Dio” e chi “dov’era l’uomo”. Le due opzioni come vedremo si compenetrano tra di loro.
Robert Gordon, uno dei critici più acuti di Primo Levi e del suo pensiero, non esita a parlare di “etica” nei confronti dell’opera dello scrittore torinese. Etica, perché c’è nelle sue pagine il tentativo costante di trovare il segreto del vivere bene, del vivere meglio. Nelle pagine leviane si parte dallo scandaglio di una situazione di sofferenza, che giunge sino alla prostrazione, per poi allargare il discorso sulla condizione umana nel senso più ampio del termine. In questo senso l’autore di Se questo è un uomo è simile al Montaigne dei Saggi e, se vogliamo seguire il consiglio di Daniela Amsallem, al Pascal dei Pensieri. Al centro l’uomo con le sue miserie e grandezze, con il suo tragico destino morituro, sullo sfondo la possibilità di diminuire questa sostanza dolorosa, che inficia la vita di ognuno. Esiste, quindi, una possibilità di porre un argine al Male? Non solo a quello di Auschwitz, ma al Male come sofferenza assoluta e ingiusta, sedimentata nel corso dei secoli nella storia del genere umano. La risposta di Levi è positiva, ma non per questo è facile e conciliante. Di fronte all’incombere del Male e del dolore che non ha misura e non ammette salvezza, l’uomo di Levi costruisce, “fa”, crea, aguzza il proprio ingegno. La risposta alla sofferenza assoluta si configura per lo scrittore torinese come un’etica del fare. L’esempio più lampante di questo atteggiamento è presente in Se non ora quando?. In questo romanzo (sarà anche per quel sostrato manzoniano che gli viene riconosciuto) più che in ogni altro suo libro, Levi chiama Dio a giudizio. Il protagonista, Mendel l’orologiaio, è più volte sorpreso a domandare a Dio il perché delle sofferenze, che i protagonisti subiscono in questa loro odissea. E le domande sono quelle solite, che come un filo rosso inseguono tutta l’opera dello scrittore. Perché la morte degli innocenti, perché mentre gli inermi venivano uccisi nelle fosse Dio rimaneva al di là delle nubi? Perché non interveniva per salvare il suo popolo? Tutti interrogativi angoscianti che Mendel-Levi rivolge a Kadosh Barakù, “il Santo Benedetto Egli sia”, come ogni pio ebreo osservante chiama Dio. Ma è sull’atteggiamento successivo alle domande, che dobbiamo focalizzare la nostra attenzione. Il protagonista non attende risposta, perché sa che il cielo è vuoto o quanto meno assente. Proprio la storia di questo romanzo, quella di una pattuglia di partigiani ebrei che combattono, uccidono, vincono e risultano sconfitti, è la parabola di chi ha posto la domanda, ma non ha speranza che giunga la risposta. La risposta al Male è morale, ovvero quella di erigere una siepe intorno alla Legge, un’etica del lavoro ben fatto e del “buon senso” (riprendendo una definizione di Robert Gordon), che al domandare inane e intuile preferisce fare. Si può leggere in questo un ricordo – forse – di quella che comunemente viene chiamata “ortoprassi ebraica” ovvero di chi sostiene, con la Bibbia, “tutto ciò che il Signore a parlato eseguiremo ed ascolteremo”. E’ questa una situazione assurda, perché è impossibile svolgere un compito senza prima averlo udito. Ed proprio in questo paradosso che risiede l’unica possibilità “umana” di riparare il Male, che per sua natura è irreparabile. Forse ora si coglie meglio, lo sfondo epico delle battaglie che Faussone ne La chiave a stella intraprende contro ponti e gru traballanti: sono una lotta contro la sofferenza, contro “la malizia e il torto” di cui la storia è impregnata. Si faccia attenzione, questa non è una morale ottimista, perché “fare” significa esporsi alla fallibilità dell’opera, esponendosi ai rischi del crollo, perché il ponte che l’etica leviana edifica “non è come gli altri ponti,/ che reggono le nevicate per secoli/ (…)./ Questo è un ponte diverso/(…)/ è sordamente vivo/ e non ha pace mai,/ forse perché dal cavo del suo pilastro/filtra un veleno/ un malefizio vecchio che non descrivo”. E’ tutta in questi versi l’inquietudine di Primo Levi, un’angoscia formulata da chi conosce il veleno di cui è impregnato l’uomo e il mondo. Auschwitz è un’enormità tale da mettere in crisi Dio stesso, non più il Signore degli eserciti che vince sugli egiziani, ma un Dio debole, scisso e lacero. Con quest’ultima riflessione si entra di prepotenza nel campo delle congetture e delle personali interpretazioni. Come abbiamo detto, il problema dell’uomo e quello di Dio si incrociano nell’opera di chiunque racconti dell’universo concentrazionario. Nelle pagine leviane assistiamo molto spesso a descrizioni di una natura più che ostile indifferente, che – secondo Paola Valabrega – corrispondono alla metafora del “Sonno dell’Onnipotente”. Un’espressione sconcertante, ma che simboleggia quello che comunemente viene definito il silenzio di Dio. Lo abbiamo già notato, nei libri di Levi Dio non risponde e tace di un silenzio che sa di impotenza o, peggio, di indifferenza. Tace come chi non c’è: questa può essere la prima ipotesi, quella più razionale, più logica. Ma forse dietro questo mutismo si nascondano altre verità: “Forse il silenzio di Dio, che è così terribile per l’uomo gettato nel baratro della sua angoscia, non è di chi tace perché non c’è o di chi tace perché abbandona, ma di chi tace perché piange e tace appunto per piangere”. Forse il sonno dell’Onnipotente è l’icona di un Dio debole e sconfitto, di un Dio che non è onnipotenza, ma fragilità, sofferenza e compassione. Se vogliamo un Dio dimesso, abbassato, un suo resto. L’immagine è quella di un Dio che vede le sue creature morire e, impotente, piange. Un Dio in esilio, così come ci suggerisce lo stesso Levi nel racconto Lilit. Dove si racconta, che la Shekinà, la presenza di Dio stesso nel creato, dopo la diaspora degli ebrei se ne va in esilio con gli ebrei, abbandonando Dio a se stesso. Così anche ella “si è fatta schiava” e “sta intorno a noi in questo esilio dentro l’esilio, in questa casa del fango e del dolore”. Se non può esistere una vera redenzione, se non quella che mantenga la memoria dell’offesa subita, è questa di Levi l’immagine di Dio, di un Dio nel fango e nel dolore, di un “Dio-con-noi” così come lo hanno annunciato i profeti.
Un Dio battuto e lacero è questa l’icona che Levi, laico, consegna alle nostre domande; è una teodicea paradossale perché senza dio e redatta da un non credente.

27/01/06

il ritorno del miserabile scrittore

riceviamo e pubblichiamo





Gentilissimi, per quanto incompleto nei link e nell'edificazione di determinate aree, è on line il sito personale del Miserabile Autore, www.giugenna.com, ovvero la "centraal station" (è olandese...) di GIUSEPPE GENNA. La newsletter è già attiva e chi voglia può iscriversi, anche se è plausibile che la sua frequenza non sia paragonabile a quella de i Miserabili. Mi scuso dell'eventuale disturbo e ringrazio tutti i Miserabili Lettori che vorranno passare ogni tanto dalla Miserabile Stazione Centrale...

giuseppe genna

la mia picciridda reclama attenzione



il mito delle cicale

Si dice che le cicale un tempo fossero uomini, di quelli che vissero prima che nascessero le Muse. Ma una volta che nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni degli uomini di quel tempo furono colpiti dal piacere a tal punto che, continuando a cantare, trascuravano cibi e bevande, e morivano senza nemmeno accorgersene.

Da loro nacque, in seguito a questo, la stirpe delle cicale, che dalle Muse ricevette il dono di non aver bisogno di cibo fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare senza cibo e senza bevanda, e così fino alla morte e, dopo, di andare al cospetto delle Muse ad annunciare chi degli uomini di quaggiù le onori e quale di loro onori.

A Tersicone portano notizia di quelli che le hanno reso onore nei cori, e così li rendono a lei più cari; a Erato quelli che le hanno reso onore nei carmi amorosi; e così alle altre, secondo la forma di onore che é propria di ciascuna. Alla più anziana, Calliope, e a quella che viene dopo di lei, Urania, portano notizia di quelli che trascorrono la vita nella filosofia e rendono onore alla musica che é loro propria. Sono queste che, più di tutte le Muse, avendo cura del cielo e dei discorsi divini e umani, mandano un bellissimo suono di voce.
Dunque, per molte ragioni, nel mezzogiorno, bisogna parlare e non dormire.


Platone, Fedro

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si va in libreria e si sfoglia





«Il Best Off 2006 arriverà in libreria a giorni.
Per sapere che cosa c'è dentro: si va in libreria e lo si sfoglia».
giulio mozzi

Best off 2006
Letteratura e industria culturale
Il meglio delle riviste letterarie italiane
266 pagine - gennaio 2006
ISBN 88-7521-078-0
Prezzo di copertina: € 12,50



Giulio Mozzi (Padova, 1960) ha pubblicato, tra le altre cose, La felicità terrena (Einaudi 1996), Questo è il giardino (Mondadori 1998), Il male naturale (Mondadori 1998) e Fiction (Einaudi 2001). Insegna da anni scrittura creativa. Dirige "Indicativo presente", la collana di letteratura italiana dell'editore Sironi.

26/01/06

la Grazia, il buco di San Giuseppe e lo scolapasta

Voglio rispondere pure io alla bellissima inchiesta su come sarà il romanzo del XXI secolo, sarò sintetico oltre ogni limite.

Per me il romanzo del XXI secolo sarà la traduzione in parole di questo:


L'altare di Merode di Robert Campin è già stato analizzato in lungo e in largo, sino a diventare metafora dello stesso processo interpretativo.

Il lettore è Giuseppe, intento a forare quel pezzo di legno, i critici saranno i due committenti, che cercano invano di cogliere il mistero dello scrivere, la Grazia è lì, quel pargolo divino che scende dalla prima finestra senza infrangere il vetro, l'autore è l'uomo col cappello e la barba, lì sullo sfondo a vedere che visione del mondo ha prodotto il suo romanzo.

Come sarà il romanzo prossimo venturo è una domanda pericolosa e fuorviante, tanto da non poter essere schivata: dovrà essere un romanzo capace di fare memoria di quello che è stato, della storia millenaria della scrittura che già Platone stigmatizzò e profumò col suo periodare perfetto, sarà un romanzo sapido, non ci saranno morali da cogliere né enigmi da risolvere. Incarnerà la voce del tempo che l'ha prodotto, sarà un romanzo soglia.

Attizzerà la nostra capacità di meraviglia, ci farà volare e sarà uno scolapasta noetico, ci aiuterà a nettare i pensieri, quei pensieri che ci allontanano dall'essenziale.

Saranno romanzi che faranno quello che hanno fatto i loro predecessori, incarneranno indispensabili stazioni di servizio per il nostro vagare, e così anch'essi ci riconfermeranno le parole di Elio Vittorini:


"Quanti libri non sono che prefazioni dalla prima all'ultima pagina? Quanti che abbiamo pur letto come se fossero opere, e in cui, come se fossero dimore abbiamo lasciato abitare a lungo la nostra mente, non sono invece altro che una soglia? Ora me ne accorgo. E non me ne rammarico, accorgendomene, di essere caduto in una specie di inganno. Non intendo dire che siano libri ingannevoli. Piuttosto mi rallegro di avere, da essi, una prova che il nostro spirito è meno pesante di quello che pensiamo: capace non di pretendere, per suo luogo di soggiorno, una casa vera e propria, e di posare il suo capo, come un vagabondo, contro uno stipite, contro uno scalino"


Elio Vittorini, Prefazione al Garofano rosso, Mondadori, Milano 1948


E forse alla fine pure noi arriveremo a dire: "Che importa? Tutto è grazia".

24/01/06

se lo dice lui...




«BombaSicilia è una meraviglia per gli occhi e per la mente...»
Antonio Spadaro



Antonio Spadaro si occupa di letteratura nel Collegio degli scrittori della rivista La Civiltà Cattolica, collabora con varie testate (Letture, Stilos, Avvenire, Vibrisse...).
È professore incaricato presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma.
Ha fondato l'associazione BombaCarta che da poco è diventata una federazione di associazioni che condividono una comune idea sull'esperienza creativa.
I suoi ultimi libri pubblicati sono: A che cosa «serve» la letteratura? (2002); Carver. Un'acuta sensazione di attesa (2001); Lontano dentro se stessi. L'attesa di salvezza in Pier Vittorio Tondelli (2002). 
È in uscita un suo volume su internet culturale e teologico.


22/01/06

nuovi punti di vista

Di Bagheria pensavo, sbagliando, d'avervi detto quasi tutto qui (www.bombacarta.com/bombasicilia/bagheria.pdf ). Ho finalmente guadagnato un altro punto di vista, uno di quelli privilegiati, uno di quelli che t'apre nuovi mondi come sanno fare solo i libri belli veri. Il mio osservatorio pare il posto di vedetta, e sono lì a guadagnarmi la moneta piantata nell'albero di maestra.
Sono qui, al Comune, il terzo settore, quello che s'occupa del sociale.

oberato ma non troppo (-1)



Metodologia della storiografia estetica
[23 gennaio] > 30 e lode,

Psicologia delle arti [30 gennaio],

Psicologia generale [31 gennaio],

Filosofia dell’arte [1 febbraio],

Iconologia e Iconografia [10 febbraio - mattina]

Informatica dell’arte [10 febbraio - pomeriggio]







Negli scampoli di tempo ho assemblato il nuovo numero di Bombasicilia, sarebbe meglio non leggerlo , dato che ancora manca la copertina e il nuovo strabiliante menabò disegnato da G1ga Bellanca.
Ma sono come quei bambini che non ce la fanno ad aspettare la mattina di Natale per scartare le cose belle, ve la faccio vedere in anteprima: eccola qui.

Dimenticavo: nel nuovo numero troverete in esclusiva il primo capitolo del PASTO GRIGIO di Demetrio Paolin e uno dei racconti del libro di Laura Caroniti "la bella dei quartieri spagnoli" e un racconto di Anna Mallamo, la scrittrice di mangino brioches

Abbiamo cercato di lottare coi libri e questo è l'esito della lotta.





Continuano a leggere That'Sicily su Rosalio   e qualcuno ne parla nel suo blog.
E' bello essere letti, soprattutto da quelli che respirano l'aria dell'isola triangolare, completamento di quell'abbozzo è naturalmente Bagheria morì d'improvviso.

21/01/06

la notte dei mille racconti (riceviamo e pubblichiamo)

Libr’aria
Associazione Culturale
Via Ricasoli, 29 – Palermo
E-mail: libr_aria@libero.it
www.librariapalermo.it
tel./ fax 091 6622443



Concorso Nazionale di storie
La notte dei mille racconti
Attraverso le terre, il mare.
4° edizione
(Palermo, 8 luglio 2006)



da un’idea di Beatrice Monroy e Claudia Cincotta
Scadenza 30 aprile 2005





Si selezionano 20 racconti da leggere ad alta voce durante la quarta edizione della manifestazione “La notte dei mille racconti /Attraverso le terre, il mare" (Palermo, 8 luglio 2006) una notte di lettura durante la quale una giuria popolare sceglierà i racconti migliori.
Il racconto è a tema libero e non deve superare le 10 cartelle.
REGOLAMENTO

ART. 1 - Il premio è riservato a racconti inediti, che non partecipino contemporaneamente ad altri concorsi e che non siano in fase di pubblicazione.
Si partecipa con un racconto a tema libero che non superi le 10 cartelle (per cartella si intende un foglio A4 stampato in una sola facciata di trenta righe con carattere 12 New Times Roman).

ART. 2 - Le opere partecipanti devono essere stampate in n.°6 copie cartacee rigorosamente anonime, con la sola indicazione del titolo. I fogli di ciascuna copia del racconto dovranno essere numerati e pinzati per non confondere l'ordine delle pagine. Le sei copie andranno spedite o consegnate in una busta formato A4 che dovrà contenere una busta più piccola in cui sia inserito un foglio con il titolo dell'opera e le generalità dell'autore: nome e cognome, indirizzo completo, numero di telefono fisso e/o mobile, indirizzo e-mail, firma. Sulla busta più piccola dovrà essere scritto solo il titolo del racconto, senza nessun altro segno di riconoscimento, pena l’esclusione dal concorso..

ART.3 – Ogni partecipante dovrà inoltre allegare le dichiarazioni firmate:
“Autorizzo il trattamento dei dati ai fini istituzionali (L. 675/1996)” e " Autorizzo la lettura pubblica del testo a cura dell'Associazione Culturale Libr'aria con sede in via Ricasoli, 29 a Palermo" .
Le copie dovranno essere rigorosamente anonime, raccolte in fascicoli ben separati ed opportunamente pinzati. I testi non saranno restituiti. Non saranno prese in considerazione le opere inviate via e-mail.

ART. 4 – Per ogni racconto che partecipa al concorso bisogna consegnare o allegare una banconota da 20 € per il lavoro di segreteria e organizzazione. Uno stesso autore più partecipare con più racconti ma ogni racconto dovrà essere presentato singolarmente e rispettando le indicazioni di questo bando, pena l'esclusione del racconto dalla selezione.

ART. 5 – I racconti in gara saranno sottoposti al giudizio di una giuria di lettori scelti dall'Associazione Libr'aria. I migliori 20 racconti potranno partecipare alla gara finale. Le opere finaliste saranno lette durante la manifestazione “La notte dei mille racconti- 4° edizione” l'8 luglio 2005 a Palermo, e giudicate da una giuria popolare di 40 ascoltatori.

ART. 6 - Il racconto vincitore, verrà pubblicato integralmente ne L’almanacco del Mediterraneo
che verrà stampato alla fine della manifestazione e conterrà anche racconti di migranti e di altri paesi del Mediterraneo: Egitto, Grecia, Spagna, Marocco, paesi con cui l’Associazione Libr’aria ha attivato un gemellaggio di narrazioni.
L’almanacco del Mediterraneo verrà presentato nell’autunno successivo in varie librerie sul territorio nazionale, sarà inviato agli Istituti Italiani di Cultura. L’autore del racconto vincitore dovrà cedere i diritti di pubblicazione all’Associazione Libr’aria.


ART. 7 - Le opere andranno inviate o consegnate in un’unica busta formato A4 entro e non oltre il 30 aprile 2006 al seguente indirizzo :
“Associazione Culturale Libr’aria, via Ricasoli, 29 – 90138, Palermo". Ogni busta dovrà inoltre riportare la scritta: "La notte dei mille racconti, 4° edizione -”. L’eventuale indicazione del mittente non comprometterà la partecipazione poiché in ogni caso la giuria visionerà esclusivamente le copie dei racconti che per questo devono essere anonime.
Per l'ottemperanza dei limiti di tempo fa fede il timbro postale.

ART. 8 - La Giuria si riserva la facoltà, ove lo ritenga opportuno, di selezionare un numero inferiore a 20 racconti.

ART. 9 – Gli autori dei 20 racconti vincitori dovranno comunicare tempestivamente l’eventuale iscrizione alla Siae.
Ciascun autore il cui testo sia stato selezionato per partecipare alla gara dell'8 luglio 2006, verrà contattato e informato telefonicamente o a mezzo lettera o via e-mail. Inoltre l’esito del concorso verrà diffuso a mezzo stampa e pubblicato sul sito www.librariapalermo.it .

ART.10 - La partecipazione al concorso implica l'accettazione del presente regolamento. L’inosservanza di qualsiasi articolo costituirà valido motivo per l’esclusione dal concorso.



Per informazioni rivolgersi a:
Libr’aria – Associazione Culturale,
via Ricasoli, 29.
90138 Palermo
tel. e fax 091 6622443
libr_aria@libero.it - www.librariapalermo.it

scimmie delle muse degli altri





il prossimo numero di BombaSicilia sarà "Scimmie delle Muse degli altri", un'indagine sulla realtà e i suoi frutti, magari qualche scintilla ve la può accendere questa cosa qui:


Omero nel suo genio non era un poeta che dipendesse dalle regole, piuttosto è causa delle regole, le regole possono andar bene per chi si senta portato più ad imitare che ad inventare. [...] Uno come Omero, un poeta che non obbediva alla sua musa, ma si presentava come "la scimia de la musa altrui".
Il Medioevo quando voleva insultare un artista lo denominava scimmia della natura. Il Rinascimento, che ha visto l'artista nel suo orgoglio, conia alla sua fine il nuovo insulto della "scimmia della musa di un altro"



A. Baumler, Handbuch der philosophie, Asthetik.


Scadenza per la presentazione di eventuali contributi: 21 aprile.

19/01/06

penna e baionetta

Antonio Spadaro S.I., QUANDO LA PENNA VALE COME UNA BAIONETTA. La storia di Rubén Gallego

«Sono un eroe. È facile essere un eroe»: queste le prime folgoranti parole di Bianco su nero*, un romanzo autobiografico in 41 quadri scritto da Rubén Gallego. Nato a Mosca nel 1968 con una paralisi cerebrale, privo dell’uso degli arti tranne di due dita, da bambino Gallego fu abbandonato in un orfanotrofio. Ogni quadro che compone il volume è la breve storia di un’emersione dal sottosuolo.

*R. GALLEGO, Bianco su nero, Milano, Adelphi, 2004, 187, € 14,00.

© La Civiltà Cattolica 2006 I 162-166



on line trovate l'ultimo numero di Gas-O-Line la rivista della federazione BombaCarta

16/01/06

come si fanno i miracoli


Forse stavolta quelli di BombaCarta si sono montati la testa... Se siete a Roma o nelle vicinanze, avvicinateci, magari finite davvero a far riti apotropaici e prestidigitazioni con parole e opere.


BombaCarta
Officina di espressioni 2005/2006
Tema dell’anno: COSE CHE BISOGNEREBBE SAPERE



V incontro
Sabato 18 Febbraio ore 10.30-17.30
Istituto Massimo, via Massimiliano Massimo, 7 Roma-Eur




Il tema di questo incontro sarà..
Come si fanno i miracoli





Cos’è? L'incontro di Officina è l'appuntamento principale di Bombacarta. Officina è un workshop tematico gestito in forma di seminario tra espressione scritta, visuale e musicale. Gli incontri mirano alla formazione personale e svolgono un ampio tema annuale che ha le caratteristiche del percorso critico.



Coordina l’incontro Antonio Spadaro



Dov’è? Il workshop si tiene dalle ore 10.30 alle 17.30 presso l' Istituto Massimo di Roma in via Massimiliano Massimo, 7. Per arrivarci occorre scendere alla fermata Eur-Palasport della linea B della Metro e raggiungere viale Europa. Salire la grande scalinata fino in cima e quindi girare a sinistra e proseguire fino a raggiungere la grande cancellata bianca dell’Istituto. Dalla fermata della Metro 12 min. ca.)

L'accesso è libero e la partecipazione è gratuita.

Com’è?
ATTENZIONE!


10.30-16.00: interventi di introduzione al tema
16.15-17.30: lettura/visione dei materiali portati dai partecipanti.
A TUTTI è richiesto di PORTARE un testo da leggere in 5/7 minuti circa e/o una sequenza video da vedere sempre in 5/7 minuti al massimo.

I materiali devono essere interpretazioni del tema dell’incontro.
  Il testo e il video sarà commentato brevemente da chi lo ha portato e poi si aprirà un breve confronto tra tutti.

aspettando decreti di attuazione





"Per l’insegnamento nelle scuole secondarie, sia inferiori che superiori (almeno per la maggior parte delle materie) è sempre stata richiesta la laurea. Con la legislazione del 1990 (legge n. 341 del 1990) e i relativi decreti attuativi del 1997 la formazione degli insegnanti dell’istruzione secondaria avviene nelle scuole di specializzazione. Le scuole di specializzazione sono state attivate nel 1999/2000 e saranno attive fino all’anno accademico 2003/2004. Infatti, il disegno di legge di riforma del sistema di istruzione presentato dall’attuale Ministro dell’Istruzione Letizia Moratti prevede che lo svolgimento della formazione iniziale degli insegnanti avvenga all’Università, nel biennio di specializzazione che porta al conseguimento della laurea specialistica, ma per avere un quadro della situazione è necessario attendere i decreti di attuazione."

Io a febbraio compio 24 anni, da novembre svolgo il servizio civile nazionale volontario e contemporaneamente sto ultimando il corso di laurea specialistica, quell'immagine non significa un cazzo. Pare la stessa linea di sfida che Homer s'appiccica alla parete della cantina quando decide di gareggiare con Thomas A. Edison. Quelle righette non potranno mai contenere lo sconforto e i tentativi di intossicarti la speranza che si celano dietro ogni curriculum stampato, implementato e donato nella cieca fiducia che la prossima volta andrà meglio.