30/03/03

Ci hanno fregato un'ora di sonno e sganciano le bombe, almeno c'è il vecchio e datato Hnak.


Sei pollici.


I primi tre mesi della mia vita coniugale con Sarah filarono lisci, ma poi cominciarono i guai. Era una brava cuoca e, per la prima volta da chissà quanti anni, mangiavo bene. Tanto che mettevo su ciccia. E lei allora prese a rimbrottarmi.
"Ah, Henry, Henry, sai chi mi sembri? mi sembri un tacchino messo all'ingrasso per le feste."
"E che male c'è, baby'" ribattevo io. Avevo un posto da spedizioniere in un magazzino di ricambi per auto, e la paga bastava sì e no. Le mie uniche gioie erano mangiare, bere birra e andare a letto con Sarah. Non quel che si dice una gran vita, ma tocca accontentarsi. Sarah era bona. Tutto in lei parlava di sesso. L'avevo conosciuta a un party, sotto Natale, pei dipendenti del magazzino. Lei lavorava là da segretaria. Notai che nessuno le andava vicino, alla festa, e non riuscivo a capire perché. Non avevo mai visto una donna più sexy, e non è che facesse la stronza. Mi feci avanti, ci mettemmo a chiacchierare. Bellissima, era. Ma ci aveva un nonsoché di strano, negli occhi. Ti guardavano fisso fisso, senza battere le palpebre. Quando andò alla toilette, presi in disparte Harry il camionista.
"Di' un po', Harry," gli feci, "come va che nessuno si fa sotto, con Sarah?"
"E' una strega, amico mio, una vera strega."
"Ma le streghe non esistono, Harry. E' stato dimostrato. Quelle povere donne che mettevano al rogo ai tempi antichi, si trattava di un errore tremendo e crudele. Non esiste, la strega, né roba del genere."
"Magari, avranno bruciato un mucchio di donne ingiustamente, questo non lo so. Ma 'sta strega è 'na strega, dammi retta."
"Non ha bisogno d'altro, Harry, che di comprensione."
"Non ha bisogno d'altro," disse Harry, "che d'una vittima."
"Tu come lo sai?"
"Stiamo ai fatti," disse Harry. "Prendi Manny, un commesso viaggiatore. Prendi Lincoln, un ragioniere."
"Che gli è successo?"
"Spariti. Come dire scomparsi davanti ai nostri occhi, ma pian piano... li abbiam visti svanire a poco a poco."
Cosa intendi dire?"
"Non mi va di parlarne. Mi piglieresti per matto."
E se n'andò. Poi Sarah tornò dalla toilette. Più bella che mai.
"Cosa ti ha detto, Harry, di me?" mi domandò.
"Come sai che parlavo con Harry?"
"Lo so," disse.
"Non è che m'abbia detto tanto..."
"Qualunque cosa t'abbia detto, scordalo. Sono tutte fantasie. E' geloso perché, con lui, non ci sono stata. E' uno che gli fa piacere sparlare della gente."
"Non mi curo delle opinioni di Harry," le dissi.
"Mi sa che io e te, Henry, ce la spasseremo," mi disse.
Venne a casa da me, dopo il party, e v'assicuro che non avevo mai goduto tanto. Era la fine del mondo, quella donna. Di lì a un mese, più o meno, ci sposammo. Sarah si licenziò, su due piedi, ma io non dissi nulla, ché ero troppo felice di averla. Si cuciva i vestiti da sé, si faceva i capelli da sé. Era una donna in gamba, in gambissima. Ma come ho già detto, in capo a tre mesi cominciò a rimbrottarmi per via del mangiare. Da principio battutine scherzose e gioviali, poi si fece sprezzante. Una sera torno a casa e lei mi fa: "Spogliati, tira via, mannaggia a te."
"Cosa, my darling?"
"M'hai sentito, bastardo! Spogliati!"
Era un po' cambiata Sarah, da quando c'eravamo conosciuti. Mi tolsi i vestiti e la biancheria, li buttai sul divano. Essa mi squadrò.
"Fai schifo," disse, "sembri un sacco di merda."
"Cosa, mia cara?"
"Ho detto che mi pari un mastello di merda."
"Di', tesoro, cosa c'è chenon va? Hai il marchese, per caso?"
"Sta' zitto!Guarda lì, quelle pieghe di lardo che hai."
Aveva ragione: mi correva una fascia di grasso tutto intorno alla vita. Essa prese a picchiarmi dei pugni sulle borse sporgenti dei fianchi.
"Bisogna smaltirla, 'sta ciccia. Eliminare i tessuti adiposi, le cellule di lardo..."
Mi seguitava a tempestar di pugni.
"Ahi! Baby, mi fai male."
"Bene. Adesso menati da te."
"Menarmi?"
"Dai, scazzottati, mannaggia."
Presi a percuotermi, abbastanza forte. Finita la battitura, i cuscinetti di lardo erano sempre là. In più erano tutti arrossati.
"Smaltiremo quella ciccia merdosa, sta' tranquillo," disse.
Mi ama, pensa fra me, e decisi di collaborare.
Sarah prese a contarmi le calorie. Mi vietò i fritti, il pane e le patate; l'insalata, scondita; sulla birra però tenni duro. Dovevo farle vedere chi portava i calzoni, a casa nostra.
"No, mannaggia," le dissi, "alla birra non ci rinuncio. Ti amo, ti voglio bene, ma la birra bado a berla."
"E va bene," disse Sarah, "faremo uno strappo. Ci riusciremo lo stesso."
"Riuscire a cosa?"
"A smaltire quello schifo, a portarti alla taglia ideale."
"Quale sarebbe la mia taglia ideale?"
"Vedrai."
Ogni sera, al mio rientro, la stessa domanda: "Ti sei dato cazzotti sui fianchi?"
"Altroché!"
"Quante botte?"
"Quattrocento per parte, belle forti."
Sì: camminavo per strada e mi davo pugni ai fianchi.La gente si voltava a guardarmi. Ma non ci feci più caso, dopo un po'. Io ci avevo uno scopo, e loro no...
La cosa funzionava a meraviglia. Da 103 scesi a 89 chili, da 89 a 82 e mezzo. Mi pareva di essere ringiovanito di dieci anni. La gente mi trovava d'ottimo aspetto. Tutti si complimentavano con me, tranne Harry il camionista. Certo, era geloso, perché non era riuscito a farsi Sarah. Cavoli (acidi) suoi. Una sera mi pesai, e pesavo 80 tondi.
Dissi a Sarah: "Ci possiamo accontentare, non ti pare? Guarda che silhouette!"
Le falde adipose erano sparite da tempo, e il ventre adesso era piatto. Le guance, incavate.
"Secondo le tabelle, andresti bene," disse Sarah. "Ma, per me, non hai raggiunto ancora la taglia ideale."
"Senti," le dissi, "sono alto uno e ottanta. Qual'è il peso ideale per me?"
Allora Sarah mi rispose in modo strano:
"Non ho detto mica 'il peso ideale', ho parlato di 'taglia ideale'. Viviamo nell'Era Atomica, nell'Era Spaziale, ma soprattutto nell' Era del Sovraffollamento. Io sono la Salvatrice del Mondo. Io lo so come risolvere la questione del Sovraffollamento. Altro cheecologia! Alla radice del problema c'è l'Eccesso di Popolazione. Se si risolve questo, si rimedia anche all'Inquinamento e a tante altre cose."
"Ma di che diavolo stai parlando?" le chiesi, stappando una bottiglia di birra.
"Non ti preoccupare," mi rispose, "te n'accorgerai."
A un certo punto notai che, pur seguitando a calare di peso, non dimagrivo oltre. Era strano. Poi m'accorsi che i risvolti dei calzoni mi ricadevano sopra le scarpe, un tantino, e che i polsini della camicia m'andavano un po'lunghi. Guidando l'auto, mi pareva che il volante mi stesse più lontano. Mi toccò avvicinare il sedile di uno scatto. Una sera salii sulla bilancia. 69 chili.
"Guarda qua, Sarah."
"Che c'è, darling?"
"C'è qualcosa che mi puzza."
"Cosa?"
"Mi sa che mi sto restringendo."
"Ti stai restringendo?"
"Sì, mi ritiro."
"Ma va là, scemo! Cosa ti salta in mente? Non si restringono mica, i cristiani. Pensi che stando a dieta ti si ritirino le ossa? Le ossa non si accorciano. Riducendo le calorie, si riduce il grasso e basta. Non dire idiozie! Ti restringi? Impossibile!" E scoppiò a ridere.
"Va bene," dissi io, "vieni qua. Ecco una matita. Ora mi metto contro la parete. E, come faceva mia madre nell'età dello sviluppo per controllare se crescevo, fai un segno sul muro, dove arrivo con la testa."
"Va bene, sciocchino," disse lei.
Tracciò una riga.
Una settimana dopo ero sceso a 60 chili scarsi. Il calo si faceva sempre più rapido.
"Vien qua, Sarah."
"Sì, sciocchino."
"Fa' un po' un segno."
Tracciò una riga. Mi voltai.
"Vedi? vedi? Ho perduto una decina di chili, in una settimana. E mi sono abbassato di otto pollici. Mi sto squagliando! Sono alto uno e cinquantacinque. E' una pazzia, bell'e buona! Una pazzia. Ne ho abbastanza. Me ne sono accorto, che m'accorci i calzoni e le camicie, sai? Non ci sto! Adesso mi rimetto a mangiare come prima. Credo proprio che tu sia una specie di strega."
"Sciocchino..."
Di lì a poco il principale mi chiamò nel suo ufficio. M'arrampicai sulla sedia davanti alla sua scrivania.
"Henry Markson Jones junior?"
"Sì, mi dica."
Lei sarebbe Henry Markson Jones junior?"
"Ma sicuro, signore."
"Ecco, Jones, noi l'abbiamo osservata attentamente. Temo che lei non sia più adatto alle mansioni che svolge. Ci dispiace vederla andar via... voglio dire, ci dispiace doverla mandar via in questo modo, ma..."
"Ma, signore, io faccio del mio meglio."
"Lo so, Jones, ma, vede, lei non è più all'altezza dei suoi compiti."
Mi licenziò. Certo, avrei riscosso il sussidio di disoccupazione. Ma lo stesso pensai che era un bischero, a buttarmi fuori così. Restai a casa, con Sarah. Peggio che peggio. Per mangiare dipendevo da lei. Non arrivavo neanche più alla maniglia del frigo. Poi un giorno mi mise alla catena. Mi legò a una catenella d'argento. Ormai ero alto sessanta centimetri. Cacavo in un orinaletto. Però la birra me la dava sempre, come promesso.
"Ah, che coccolo che sei," mi diceva, "così piccino, così caruccio."
Anche la nostra vita amorosa era finita. Tutto quanto mi si era ridotto in proporzione. La montavo ma, dopo un po', mi tirava via e rideva.
"Be', ci hai provato, piccioncino."
"Non sono un piccione, sono un uomo!"
"Oh, il mio caro piccolo ometto."
Mi tirava su e mi baciava con quelle labbra rosse...
Sarah mi ridusse alla statura di sei pollici. Mi portava con sé a far la spesa nella sporta. M'affacciavo a guardare la gente attraverso dei buchi che lei c'aveva fatti. Devo dire una cosa, a suo favore: mi lasciava sempre bere la mia birra. La bevevo in un ditale. Un litro mi durava più di un mese. Ai vecchi tempi lo facevo fuori in 45 minuti. Ero rassegnato. Sapevo che, se l'avesse voluto, m'avrebbe potuto far svanire del tutto. Meglio 6 pollici che niente. Anche un pochino di vita t'è cara, quando sei alla fine della vita. Quindi facevo divertire Sarah. Era tutto quello che potevo fare. Mi confezionava vestitucci e scarpine, mi metteva sopra la radio, accendeva la musica e: "Balla, bellino! Balla su, balla, piccolo babbeo!"
Beh non potevo passare a risquotere il sussidio di disoccupazione, e così ballavo sopra la radio mentre lei batteva le mani e rideva. Vi dirò, i ragni mi mettevano una paura tremenda, le mosche erano grandi come aquile gigantesche, e se un gatto mi avesse acchiappato si sarebbe divertito a torturarmi come un topolino. Ma la vita mi era cara lo stesso. Ballavo e cantavo e resistevo. Per poco che abbia, un uomo, s'accorge che potrebbe aver anche di meno. Quando facevo la cacca sul tappeto, mi sculacciava. Dovevo farla su dei pezzi di carta che Sarah lasciava, apposta, in giro. E io ne strappavo un lembo per pulirmici il culo. Era come cartone però. Mi vennero le emorroidi. Non riuscivo a dormire la notte, per un complesso di inferiorità, perché mi sentivo in trappola. Paranoia? Comunque, mi sentivo bene quando ballavo e cantavo e poi Sarah mi offriva la birra. Ci sarà certo stato un motivo per lasciarmi di quel formato lì, sei pollici esatti. Ma quale fosse, non lo sapevo mica. Mi sfuggiva. Come pure mi sfuggiva quasi tutto. Inventavo canzonette per Sarah. Sì, così le chiamavo: canzoni per Sarah.


oh sono un piccolo gnomo da strapazzo
tutto va bene finché non m'arazzo
ché non c'è nulla che mi renda pago
tranne solo la cruna di un ago


Sarah rideva e batteva le mani.


se vuoi essere ammiraglio nella Regia Marina
basta che ti metti nei servizi segreti
una volta alto 6 pollici, così, quando lei va a far pipì
tu spii dentro la sorca sgocciolante della Regina!


Sarah rideva e batteva le mani. Beh, questo perlomeno andava bene. Bisognava accontentarsi...
Ma una sera successe una cosa molto disgustosa. Io ballavo e cantavo e Sarah stava distesa, nuda, sul letto, battendo le mani, a bere vino e ridere. Stavo esibendomi in uno dei miei numeri migliori. Ma, al solito, il ripiano della radio si era riscaldato e mi scottava i piedi. Non resistevo più.
"Senti, baby," le dissi, "qui scotta. Mettimi giù. Dammi una birra. Non il vino. Bevilo tu, quel vinaccio da quattro soldi. Dammi un ditale di quell'ottima birra."
"Sicuro dolcezza," mi disse. "Hai fatto un gran bel numero stasera. Se Manny e Lincoln fossero stati bravi come te, sarebbero qui, a quest'ora. Loro invece non ballavano, non cantavano, s'immalinconivano e basta. E, quel che è peggio, non volevano prestarsi al Gran Finale."
"E qual'è in Gran Finale?" chiesi io.
"Ora, dolcezza, bevi la birra e rilassati. Voglio che te lo godi, il Gran Finale. E' evidente che tu hai molto più talento di Manny e Lincoln. Credo proprio che io e te arriveremo al Culmine degli Opposti."
"Diavolo, come no," dissi io, scolando la birra. "Farei il bis, dammene un'altra per favore. E dimmi, cos'è il Culmine degli Opposti?"
"Goditi la tua birra, dolcezza, lo saprai molto presto."
Finii la seconda birra, poi la cosa molto disgustosa ebbe luogo, una cosa molto molto disgustosa. Sarah mi agguantò e mi piazzò fra le sue coscie, che allargò un tantinello. Qui mi trovai di fronte una foresta di peli. Irrigidii i muscoli della schiena e del collo,avendo capito l'antifona. Venni schiaffato dentro, al buio e alla puzza. Udivo Sarah gemere. Poi cominciò a muovermi, piano piano, avanti e indietro. Come ho detto, la puzza era insopportabile eppoi facevo fatica a respirare, però non è che l'aria mancasse del tutto: anzi c'erano spifferi, zaffate. Ogni tanto con la testa -con la sommità del cranio- andavo a cozzare contro il Grilletto e allora Sarah emetteva un gemito più profondo e prolungato. Cominciò a muovermi più velocemente, sempre più svelto. La pelle mi scottava. Respirare si faceva più difficile. Il puzzo era atroce. La sentivo palpitare. Capii che prima compivo l'opera, meno avrei tribolato. Ogni volta che venivo stantuffato in avanti, inarcavo la schiena e il collo, m'inarcavo più che potevo per andare a cozzare contro il Grilletto. D'improvviso venni estratto da quell'orrendo cunicolo. Sarah mi sollevò all'altezza del suo viso.
"Vieni, diavolo d'un coso! Vieni!" mi ordinò.
Era ebbra, Sarah, di vino e di passione. Mi rificcò a furia nella grotta. Mi spingeva avanti e indietro svelta svelta. Poi, d'un tratto, respirai profondamente per gonfiare il petto, radunai saliva nella bocca, la sputai... una volta, due, tre volte, quattro, cinque, sei volte, poi smisi... La puzza aumentò d'intensità, da non potersi manco immaginare, poi, alla fine, venni tirato fuori all'aria aperta. Sarah mi sollevò, sotto la lampada, e cominciò a baciarmi sulla testa e sulle spalle.
"Oh tesoro! Oh, mio prezioso uccello! Ti amo."
Mi baciava con quelle orribili labbra pitturate. Vomitai. Poi, esausta e illanguidita, fra i fumi del vino e del piacere, mi collocò sul petto, fra le mammelle. M'accucciai là, ascoltando il battito del suo cuore. Mi aveva sciolto, non avevo quel dannato guinzaglio, ma lo stesso mi sentivo oppresso. Uno dei suoi seni enormi mi gravava addosso, reclinando un po' di lato. Mi trovai proprio sopra il suo cuore. Il cuore della strega. Se il rappresentavo il problema al Sovraffollamento del Mondo, perché mi aveva usato, semplicemente, come un oggetto di svago, un giocattolo sessuale? Là, sdraiato, ascoltavo quel cuore. Non c'erano più dubbi: era una strega. Poi guardai su. Indovinate cosa vidi! Una cosa sorprendente. In un piccolo interstizio della testiera. Uno spillone. Sì, una spilla di quelle che guarniscono i capelli delle donne, lunga, con una grande capocchia di vetro colorato. Mi inerpicai fra i seni, su per la gola recline, mi issai sul mento, con gran fatica, poi le camminai sul viso... quando fece una smorfia nel sonno, io persi l'equilibrio... mi dovetti afferrare a una narice. Lentamente mi rialzai, presso l'occhio destro -teneva la testa leggermente inclinata a sinistra- e di lì balzai sulla tempia, avanzai verso il centro della fronte, m'infrattai fra i capelli. Molto arduo aprirsi un varco in quell'intrico. Alla fine mi tesi... m'allungai... riuscii a arrivare fino a quella spilla. La discesa fu più rapida, ma anche più rischiosa. Diverse volte stetti per perdere l'equilibrio, trasportando lo spillone. Se cadevo era la fine. Diverse volte risi, tra me e me, perché era una cosa ridicola. Bel risultato, quel party aziendale! Buon Natale a tutti i colleghi!
E rieccomi a ridosso della grande mammella. Posai giù lo spillone e tesi l'orecchio. Individuai il punto esatto del battito cardiaco. Si trovava esattamente sotto un piccolo neo. Mi rialzai in piedi, brandii lo spillone con la grossa capocchia purpurea, bellissima alla luce della lampada. E pensai: funzionerà? Io ero alto sei pollici e lo spillone misurava una volta e mezza me: nove pollici. Il cuore non doveva trovarsi a una profondità maggiore.
Sollevai lo spillone, lo conficcai nella carne: proprio sotto quel neo.
Sarah si agitò convulsamente. Io mi tenni saldo allo spillone. A momenti mi scaraventava giù, sul pavimento: sarebbe stato come cadere dal quinto piano, mi sarei sfracellato. Tenni duro. Dalle labbra le uscì uno strano suono.
Poi fu scossa da un fremito per tutte le membra
Strinsi i denti e spinsi dentro gli ultimi tre pollici di spillone, giù, dentro il suo petto, lo immersi fino alla capocchia.
Allora Sarah restò immobile. Ascoltai
Udii il cuore... uno due, uno due, uno due, uno...
Si fermò.
Allora mi abbrancai, con le piccole mani da assassino, al lenzuolo e, a muscoli, mi calai sul pavimento. Ero alto sei pollici e ero vivo, avevo paura, avevo fame. Trovai un varco fra le stecche d'una portafinestra. Mi aggrappai a una pianta rampicante, mi calai giù, all'interno di un cespuglio. Nessuno sapeva che Sarah era morta, tranne io. Ma c'era poco da stare allegri. Se volevo tirar a campare, bisognava che trovassi di che nutrirmi. Non avevo la più pallida idea di come si configurasse il mio caso, di fronte alla legge. Ero colpevole? Staccai una foglia e cercai di mangiarla. Incommestibile. Poi vidi l'inquilina di rimpetto, nel cortile, metter fuori una scodella di cibo per gatti, per il suo gatto. Striscia fuori dal cespuglio e mi diressi, quatto quatto, verso quella scodella, all'erta ad ogni minimo rumore. Era il cibo più schifoso che mai avessi assaggiato, ma c'era poco da fare lo schizzinoso. Ne mangiai quanto più potevo: il sapore della morte è anche peggiore. Poi tornai nel cespuglio e mi nascosi nel folto.
E eccomi là, alto 6 pollici, come Rimedio al Sovraffollamento Demografico, infrattato in un cespuglio, con la pancia piena di cibo per gatti.
Non vi voglio annoiare con tanti dettagli. Eran continue fughe da cani, da gatti, da topi. Mi sentivo ricrescere a poco a poco. Alla fine portarono via il cadavere di Sarah. Rientrai in casa, ma ero ancora troppo basso per aprire lo sportello del frigo.
Un giorno il gatto mi sorprese a rubargli il mangiare e a momenti mi sbranava. Bisognava cambiar aria.
Ero, adesso, alto quasi dieci pollici. E seguitavo a crescere. Riuscivo già a metter paura ai piccioni. Quando metti paura ai piccioni è segno che sei a buon punto. Così un giorno mi avventurai per la strada, tenendomi al riparo come meglio potevo, nei punti più in ombra, fra le siepi e così via. Così, correndo e nascondendomi, arrivai al supermercato. Qui mi rimpiattai sotto il chiosco di giornali accanto all'ingresso. Appena la porta automatica s'aprì per lasciar entrare una massaia, io sgattaiolai dentro appresso a lei. Uno degli inservienti girò di scatto la testa, mentre io schizzavo dentro dietro la massaia.
"Ehi, che diavolo è quello?"
"Cosa?" domandò un cliente
"M'era parso di vedere qualcosa," disse l'addetto. "Mi sarò sbagliato, lo spero."
Riuscii a infilarmi, senza essere visto, nel salone, e qui trovai rifugio dietro certi scatoloni di pomodori pelati. Appena notte uscii dal mio nascondiglio e mi feci una bella mangiata: sottaceti, prosciutto, gallette di segala, patatine fritte e birra. Divenne il mio tran-tran: tutto il giorno mi tenevo ben nascosto, la notte uscivo fuori e banchettavo. Siccome ero in crescita, nascondersi si faceva sempre più difficile. Ogni sera il direttore chiudeva l'incasso della giornata in cassaforte. Era lui l'ultimo ad andarsene. Io osservavo attentamente le sue mosse, quando formava la combinazione. Provavo a calcolare: 7 a desta, 6 a sinistra, 4 a destra, 6 a sinistra, 3 a destra... aperta. Ogni sera andavo lì e facevo un tentativo con quei numeri. Mi toccava salire su un piedistallo di scatoloni per arrivare fino alla manopola. Non l'imbroccavo mai, ma seguitavo a tentare. Ogni sera tentavo di nuovo. Intanto crescevo rapidamente. Ero arrivato a misurare ormai una novantina di centrimetri. C'era anche un reparto di abbigliamento, e mi toccava passare a misure via via più grandi. Il problema del sovraffollamento rispuntava. Alla fine una sera la cassaforte si aprì. Mi appropria di 23 mila dollari in contanti. Dev'essere che si era alla vigilia di un versamento in banca. Presi la chiave di cui si serviva il direttore, per uscire senza far scattare l'allarme. Mi allontanai di lì e. al Sunset Motel, affittai una stanza. Pagai una settimana anticipata. Alla padrona dissi che lavoravo nel cinema, come nano. Lei si mostrò solo annoiata.
"Niente tivù, niente rumori molesti dopo le dieci di sera. E' la regola, qui."
Prese i soldi, mi spiccò una ricevuta, chiuse la porta. La mia stanza era la 103, così diceva la chiave. Non ero neanche andato a vederla prima. Camminando lentamente, passai oltre le porte 98, 99, 100, 101... e scorgevo in lontananza, verso nord, le colline di Hollywood, e più oltre le montagne, mentre la gran luce fulgente del Signore pioveva su di me, che crescevo.


 


   (Henry Charles Bukowski)

25/03/03

PER ESSERE UN GRANDE SCRITTORE


ti devi fottere un gran numero di donne
belle donne
e scrivere qualche decente poesia d'amore.

e non preoccuparti per gli anni
e/o per i nuovi talenti.

bevi solo più birra
ancora e ancora birra

e va' alle corse almeno una volta alla
settimana

e vinci
se puoi.

imparare a vincere è duro -
qualsiasi stupido può essere un buon perdente.

e non dimenticare il tuo Brahms
e il tuo Bach e la tua
birra.

non fare troppa pratica.

dormi fino a mezzogiorno.

evita le carte di credito
e di pagare alcunché per
tempo.

ricorda che in questo mondo non c'è
un culo che valga più di 50 dollari
(nel 1977).

e se hai la capacità di amare
ama innanzi tutto te stesso
ma sii sempre cosciente della possibilità di una
sconfitta totale
sia che la ragione di quella sconfitta
ti sembri giusta o sbagliata -

un prematuro assaggio di morte non è necessariamente
una brutta cosa.

stai lontano da chiese bar e musei,
e come il ragno sii
paziente -
il tempo è la croce d'ognuno
oltre
all'esilio
alla sconfitta
al tradimento

a tutto quel ciarpame.

stai con la birra.

la birra è sangue continuo.

un'amante continua.

procurati una grossa macchina per scrivere
e come i passi che vanno su e giù
fuori dalla tua finestra

picchia quella cosa
picchiala duro

fanne un combattimento da pesi massimi

fa' come il toro quando carica la prima volta

e ricordati dei vecchi cani
che hanno combattuto bene:
Hemingway, Céline, Dostoevsky, Hamsun.

se pensi che non siano diventati matti
nelle stanzette
proprio come sta succedendo a te adesso

senza donne
senza cibo
senza speranza

allora non sei pronto.

bevi altra birra.
c'è tempo.
e se non ce n'è
va bene
lo stesso.


(Henry Charles Bukowski)

24/03/03

Continuo con il vecchio Hank, sempre da Storie di ordinaria follia. la chiusa di questo racconto è semplicemente favolosa. Chissà, forse ne trascrivo un'altro domani sera. voi ripassate.


La più bella donna della città


Cass era la più giovane e la più bella di 5 sorelle. Cass era la più bella ragazza di tutta la città. Mezzindiana, aveva un corpo stranamente flessuoso, focoso era e come di serpente, con due occhi che proprio ci dicevano. Cass era fuoco fluido in movimento. Era come uno spirito incastrato in una forma che però non riusciva a contenerlo. I capelli neri e lunghi, i capelli di seta, si muovevano ondeggiando e vorticando come il corpo volteggiava. Lo spirito, o alle stelle o giù ai calcagni. Non c'era via di mezzo, per Cass. C'era anche chi diceva che era pazza. Gli imbecilli lo dicevano. Gli scemi non potevano capirla. Agli uomini in genere Cass pareva una macchina da fottere, e quindi non gliene fregava niente, fosse o non fosse pazza. E Cass ballava e civettava, si lasciava baciare dagli uomini, ma, tranne qualche rara volta, quando si stava per venire al dunque, com'è come non è, Cass si eclissava, Cass aveva eluso gli uomini. Le sorelle l'accusavano di sprecare la sua bellezza, di non fare buon uso del cervello. Ma Cass ne aveva da vendere, di cervello e di spirito. Dipingeva, danzava, cantava, modellava la creta, e quando qualcuno era ferito, mortificato, nel corpo o nell'anima, Cass provava compassione per costui. Il suo cervello era, ecco, differente; la sua mentalità non era pratica, ecco quanto. Le sorelle eran gelose perché attraeva i loro uomini; ce l'avevano su con Cass perché, secondo loro, sciupava un sacco d'occasioni. Di solito Cass era gentile con quelli più brutti; i cosìddetti fusti non le dicevano niente. Le facevano schifo. "Senza nerbo" diceva, "senza grinta. Arrivano, alti in sella, con quei nasi ben fatti, quelle orecchie ben disegnate... Tutta esteriorità, e niente dentro." La sua indole era affine alla pazzia; aveva un temperamento che certi chiamavano pazzia. Il padre era morto alcolizzato, la madre era scappata via di casa, abbandonando le figlie. Le ragazze si rivolsero a certi loro parenti, che le misero in convento. Il convento era un posto molto triste, più per Cass che per le sorelle. Le altre ragazze erano gelose di Cass e a Cass toccava litigare sempre. Aveva segni di rasoiate sul braccio sinistro, in conseguenza d'un paio di quelle baruffe. Poi aveva una cicatrice permanente sulla guancia sinistra, ma lo sfregio anziché diminuirla sembrava accrescere la sua bellezza. Io la incontrai al West End Bar poco dopo ch'era venuta via dal convento. Essendo la più giovane delle sorelle era venuta via per ultima. Quella sera entrò là e, semplicemente, si venne a sedere vicino a me. Io ero forse l'uomo più brutto della città, e magari questo avrà influito in qualche modo.
"Bevi?" le domandai.
"Ma sicuro, come no?"
Non ci dicemmo niente di straordinario, mi sa, quella sera; ma contava l'impressione che lei dava. Cass aveva scelto me e questo era quanto. Nessuna forzatura. Bere le piaceva e così fece molti bis. Non credo fosse ancora maggiorenne, però lì la servivano lo stesso. Magari aveva una carta d'identità falsa, chi lo sa. Comunque, ogni volta che tornava dalla toilette e veniva lì a sedersi accanto a me, io provavo un certo orgoglio. Non era solo la più bella ragazza della città, era anche una delle più belle donne che avessi mai visto. Le passai un braccio intorno alla vita e la baciai, una volta.
"Mi trovi carina?" mi domandò.
"Sì, certo, però poi c'è qualcos'altro... oltre a come ti presenti..."
"Tutti quanti mi accusano di essere carina. Sul serio mi trovi carina?"
"Non è il termine adatto, 'carina', non ti rende giustizia."
Cass frugò nella borsetta. Pensavo che cercasse un fazzoletto. Tirò fuori uno spillone. Prima che potessi fermarla se l'infilò nel naso, da parte a parte, proprio sopra le narici. Provai disgusto e orrore. Mi guardò e scoppiò a ridere.
"Mi trovi carina adesso? Cosa pensi adesso, amico?"
Tirai via lo spillone e tamponai il sangue con un fazzoletto. Diverse persone, tra cui il proprietario, avevano visto quel numero. Il padrone del bar venne oltre.
"Senti," disse a Cass, "provaci un'altra volta, e fili fuori. Non ci vanno, certi pezzi d'arte varia."
"Al, vaffanculo, amico!" disse lei.
"Vedi di tenerla a bada," disse a me il proprietario.
"Sta' tranquillo," dissi io.
"Il naso è mio," disse Cass, "e ci faccio quel che mi pare."
"No," dissi, "fai male a me."
"Vuoi dire che ti fa male, quando m'infilzo uno spillo nel naso?"
"Sì. E' così."
"Va bene. Non lo farò più. Sta' su bello."
Mi baciò, con una specie di ghignetto misto al bacio, e premendosi il fazzoletto sulla ferita. Quando chiusero il locale ce ne andammo su da me. Avevo una birra e ci sedemmo a chiacchierare. Fu allora che avvertii quanto fosse gentile, percepii la bontà che era in lei. Si tradiva a sua insaputa. Poi però si ritraeva, ritornava selvatica, d'un balzo, piena di incongruità. Balzana. Schizoide. Una bellissima schizoide spirituale. Forse qualcuno, qualcosa, poi l'avrebbe rovinata per sempre. Io speravo che non toccasse a me. Andammo a letto e, dopo ch'ebbi spento la luce, Cass mi disse. "Ti va bene adesso? O domattina?"
"Domattina." E mi voltai dall'altra parte.
La mattina dopo mi alzai e andai a fare il caffé e gliene portai una tazza a letto.
Si mise a ridere. "Sei il primo tu, che non ha avuto fretta."
"Non c'è mica bisogno," le dissi, "di farlo per forza."
"No, aspetta. Adesso ho voglia. Mi vadoa dare una rinfrescata."
Andò in bagno. Ne tornò poco dopo. Era stupenda, con i lunghi capelli neri lucenti, gli occhi e le labbra lucenti, tutta lucente... Mise in mostra il suo corpo con calma, come una cosa buona. Si infilò fra le lenzuola.
"Vieni qua, amante mio."
L'abbracciai. Mi baciò con abbandono, senza furia. L'accarezzai per tutto il corpo, fra i capelli. La montai. Era calda, e stretta. Cominciai a pompare piano piano, ché durasse. Mi guardava dritto negli occhi.
"Come ti chiami?" le chiesi.
"Ma che differenza fa?" mi chiese lei.
Mi misi a ridere e continuai. Poi dopo si rivestì e la riaccompagnai in macchina al bar, ma però non riuscivo a levarmela dalla testa. Non avevo un lavoro, così dormii fino alle due del pomeriggio, poi mi alzai e lessi il giornale. Ero nella vasca da bagno quando lei arrivò, con una grossa foglia: un orecchio d'elefante.
"Lo sapevo che eri nella vasca," mi disse, "e così t'ho portato qualcosa per coprirti l'affare, naturista."
Mi lanciò l'orecchio d'elefante dentro la vasca.
"Come lo sapevi che m'avresti trovato nel bagno?"
"Lo sapevo."
Quasi ogni giorno Cass arrivava mentre ero dentro la vasca. A ore diverse, ma non si sbagliava quasi mai. E portava una foglia d'elefante. E poi facevamo l'amore. Un paio di volte, dietro sua telefonata, mi toccò andare a tirarla fuori, pagando la cauzione, ché l'avevano messa al fresco per ubriachezza e risse.
"Questi figli di puttana," diceva, "solo perché ti pagano da bere, si credono in diritto alla patacca."
"Ogni volta che accetti da bere, vai incontro a guai."
"Ma io penso che gli interessi io, mica il mio corpo."
"A me interessi te e anche il tuo corpo. Dubito però che gli altri uomini, perlopiù, vadano oltre il tuo corpo."
Stetti fuori città per un sei mesi, girai di qua e di là, poi ritornai. Non m'ero scordato di Cass,ma c'era stato non so che bisticcio, eppoi io avevo voglia di andare un po' in giro comunque, e quando tornai m'immaginavo che lei fosse andata via, invece ero al West End Bar da neanche una trentina di minuti quando entrò lei e venne a sedere vicino a me.
"Eccoti qua, bastardo, sei tornato."
Le offrii da bere. Poi la guardai. Portava un vestito con il colletto alto. Non le avevo mai visto una cosa così indosso. E sotto ciascun occhio ci aveva,conficcate, due spille con le capocchie di vetro. Si vedevano solo le capocchie, ma le spille erano dentro nella carne del viso.
"Mannaggia a te, vuoi proprio deturparti, eh?"
"Macché, è la moda, cretino!"
"Tu sei matta."
"Mi sei mancato," disse.
"Hai qualcun altro?"
"No, non c'è nessun altro. Solo te. Ma però batto. La metto dieci dollari. A te, te la do gratis."
"Tirati via quei spilli."
"No, è gran moda."
"Mi fan male a me, da matti."
"Dici sul serio?"
"Perdio sul serio, sì."
Pian piano Cass estrasse le due spille,le mise nella borsa.
"Perché sfotti così la tua bellezza?" le chiesi. "Perché non ci vivi insieme, e via?"
"Perché la gente pensa ch'è tutto quel che ho. La bellezza non è niente, la bellezza non dura. Non lo sai quanto sei fortunato, tu, a essere brutto, ché se a qualcuno gli piaci, così sai che è per qualche cosa d'altro."
"E va bene," dissi, "sono fortunato."
"Mica dico che sei brutto. Ti trovano brutto gli altri, ma hai una faccia affascinante."
"Grazie."
Bevemmo ancora.
"Cos'è che fai?" domandò lei.
"Niente. Non mi va di fare niente. Non m'importa."
"Di niente, neanche a me. Se eri una donna, potevi battere."
"Non credo che m'andrebbe, alla lunga, di fare intimità con tanti estranei. E'una roba che stanca."
"Altroché se stanca. Tutto stanca, e consuma."
Uscimmo insieme. La gente per strada si voltava ancora a guardare Cass. Era ancora una donna molto bella. Forse più bella che mai. Andammo su da me e io stappai una bottiglia di vino e ci mettemmo a parlare. Fra Cass e me era facile, parlare. Parlava lei un po' e io stavo a sentire poi parlavo io. Il colloquio andava avanti senza sforzo. Pareva che scoprissimo tanti segreti comuni a tanti. Quando ne scoprivamo uno grosso Cass scoppiava a ridere -quella sua risata- solo lei era buona. Era come gioia sprizzata dal fuoco. Sempre parlando ci abbracciavamo, ci baciavamo. Così andammo su di giri e ci venne voglia di andare a letto. Allora Cass si tolse quel vestito con il colletto alto e io la vidi: la brutta cicatrice frastagliata, attraverso la gola. Era larga e spessa.
"Mannaggia a te, donna," le dissi dal letto, "mannaggia a te, che cosa ti sei fatta?"
"Ci ho provato con un coccio di bottiglia una sera. Non ti piaccio più? Sono ancora bella?"
La tirai giù dal letto e la baciai. Lei si sciolse e rise.
"Certi sganciano la grana anticipata e poi, quando mi spoglio, non gli va più di farmisi. Io mi tengo il deca. E'una cosa buffissima."
"Sì," dissi, "da morir dal ridere... Cass, sciagurata, io ti amo... smettila di distruggere te stessa: sei la donna più viva che abbia mai conosciuto."
Ci baciammo ancora. Cass piangeva in silenzio. Sentivo sulla pelle le sue lacrime. I lunghi capelli neri erano sparsi intorno a me come un vessillo di morte. Ci congiungemmo e, piano, con dolcezza, con mestizia, facemmo l'amore, meravigliosamente. La mattina dopo Cass si alzò e preparò la colazione. Era calma e pareva felice. Cantava. Io restai a letto a godermi la sua felicità.Alla fine venne oltre e mi scosse.
"Su bastardo! Datti una lavata alla faccia e all'uccello e poi vieni a far la pappa."
La portai alla spiaggia quel giorno. Era giorno feriale e non ancora estate, quindi era magnifico, così deserto. Dei vagabondi straccioni dormivano fra l'erba, dove finiva la rena. Altri sedevano sulle panchine di pietra e si passavano una bottiglia. Dei gabbiani volteggiavano intorno, tranquilli eppure come sconcertati. Vecchie signore sui 70-80 sedevano sulle panchine a trattare la compravendita di immobili lasciati da mariti morti ammazzati tanto tempo fa dal ritmo della vita, dalla stupidità, dalla lotta per la sopravvivenza. Con tutto questo, c'era una gran pace nell'aria e noi passeggiammo e poi ci stendemmo sull'erba, senza quasi mai parlare. Era bello stare insieme e bastava. Comprai un paio di panini, patatine, e da bere, e mangiammo in rivaal mare. Poi dormimmo abbracciati per un'oretta. Era in un certo modo anche meglio che far l'amore. C'era questo fluire via insieme senza nessuna tensione. Quando ci svegliammo, tornammo a casa mia e preparai la cena. Dopo cena proposi a Cass di restare lì da me e di metterci insieme. Stette un pezzo a guardarmi, prima di rispondere, poi disse piano: "No". La riportai al bar, le offrii da bere e me ne andai. Trovai un posto da facchino, l'indomani, in una fabbrica, e per tutta la settimana andai al lavoro. Alla sera ero troppo stanco per andare in giro, ma appena fu venerdì andai al West End Bar. Mi sedetti e aspettavo Cass. Passavano le ore. Dopo che ero bell'e sbronzo, il padrone vien oltre e mi fa:
"Mi dispiace per quella amica tua."
"Di che cosa?" domandai.
"Mi dispiace. Non lo sapevi?"
"No."
"Suicidio. L'hanno seppellita ieri."
"Seppellita?" domandai. Mi pareva che da un momento all'altro lei dovesse entrare da quella porta... Come poteva essere sottoterra?
"Le sorelle le hanno fatto il funerale."
"Suicidata? Me lo sai dire come?"
"S'è tagliata la gola."
"Ho capito. Dammi da bere, un altro."
Bevvi fino all'ora di chiusura. Cass era la più bella delle 5 sorelle, la più bella della città. Non so come ce la feci a tornare a casa in macchina, e badavo a pensare: avrei dovuto insistere, che restasse con me, non arrendermi al suo "no". Tutto lasciava intendere che, a me, voleva bene. Gliene importava. Ma io m'ero comportato troppo alla stracca, sì, come se l'avessi presa sottogamba. Meritavo la morte, la mia morte e la sua.Ero un cane. No, perché dar la colpa ai cani? M'alzai e trovai una bottiglia di vino, mi ci attaccai a garganella. Cass la più bella ragazza della città era morta a vent'anni. Fuori qualcuno si mise a suonare il clacson. Un rumore arrogante, insistente, furioso. Posai giù la bottiglia e gridai:
"MA LA SMETTI, BRUTTO FIGLIO DI PUTTANA, LA VUOI SMETTERE?"
La notte seguitava ad andare avanti, non c'era niente che potessi fare.


 


 Bukowski

23/03/03

La macchina da fottere
il caldo era bestiale, quella sera. eravamo da Tony. a scopare nemmeno ci pensavi. solo a bere birra ghiacciata. Tony ce n'allungò due boccali, a me e a Indian Mike. Indian Mike cacciò fuori i soldi. lascia che pagasse lui il primo giro. Tony incassò, annoiato, si guardò intorno. cinque o sei altri avventori, a fissare le loro birrette. balordi. così Tony ci si fece vicino, a noi due.
"che c'è di nuovo, Tony?" gli domandai.
"oh, merda," disse Tony.
"mica 'na novità."
"merda," disse Tony.
"oh, merda," disse Indian Mike.
bevemmo qualche sorso di birra.
"cosa ne pensi della luna?" domandai a Tony.
"merda," Tony disse.
"sì," disse Indian Mike, "uno che è stronzo su 'sta terra, è stronzo anche sulla luna, nessuna differenza."
"dicono che probabilmente non c'è vita su Marte," dissi io.
"e con questo?" domandò Tony.
"oh, merda," dissi io. "altre due birre."
Tony ce le spedì, lungo il bancone, poi venne a riscuotere. la cassa tintinnò. lui tornò presso di noi.
"cazzo se è caldo. vorrei tanto essere morto! e non ci pensi più."
"dov'è che va la gente, dopo morti, Tony, secondo te?"
"merda. chi se ne frega."
"tu non ci credi all' Anima Immortale?"
"tutt'un sacco di fregnacce."
"e il Che Guevara allora? e Giovanna d'Arco? e Billy the Kid? come la metti?"
"un sacco di fregnacce."
bevemmo le nostre birre, pensandoci su.
"a me," dissi, "mi scappa da pisciare."
andai al cesso e lì, manco a dirlo, ci trovai Petey la Civetta.
lo tirai fuori e mi misi a pisciare.
"ma che uccello piccino che ci hai," mi disse.
"quand'è che piscio o che medito, sì. ma il mio, vedi, è di quelli cosiddetti a crescenza tipo super. quando mi si arma, per ogni pollice che vedi, se ne sviluppano sei."
"allora vai bene... se non dici una bugia. perché adesso te ne vedo due pollici, sì e no."
"questa che vedi è solo la cappella."
"ti do un dollaro se me lo fai ciucciare."
"mica è tanto."
"non è solo la cappella che si vede, va' là. quello è tutto l'affare che ci hai."
"vaffanculo, Pete, va'."
"tornerai, quando avrai finito i soldi per la birra."
me ne andai via di là.
"due altre birre," ordinai.
Tony eseguì il suo numero, poi tornò.
"si crepa. questo caldo mi fa uscire pazzo," disse.
"questo caldo ti fa rendere conto di quello che sei," gli dissi io.
"un momento! vuoi darmi del matto?"
"quasi tutti lo siamo. ma la cosa rimane segreta."
"e va bene. metti che è vera 'sta fregnaccia, quanta gente col cervello a posto c'è al mondo? ce n'è qualcuno?"
"pochi."
"e quanti?"
"per ogni miliardo?"
"di' su."
"mah, diciamo un cinque o sei."
"cinque o sei?" disse Indian Mike. "cazzo santo!"
"senti," disse Tony, "come lo sai che sono matto, io? e com'è che non ci beccano?"
"ecco, siccome che siamo tutti pazzi, ne rimangono pochi, troppo pochi, per poterci rinchiudere tutti, e così ci lasciano andare in giro, matti come siamo. non possono far altro, pel momento. tempo addietro, pensavo che potevano andare a stabilirsi da qualche altra parte, nello spazio, intanto che ci distruggevamo a vicenda. ma poi mi sono reso conto che i pazzi controllano pure lo spazio."
"e come lo sai?"
"perché hanno piantato la bandiera americana sulla luna."
"metti che i russi ci piantavano, sulla luna, la bandiera russa?"
"stessa zuppa," dissi io.
"tu, allora, sei imparziale?" domandò Tony.
"non faccio parzialità fra i vari tipi di pazzia."
seguitammo a bere in silenzio. anche Tony si versò da bere. whiskey e acqua. lui poteva. era il padrone del locale.
"tu, allora, sei imparziale?" domandò Tony
"mica balle," disse Indian Mike.
poi Tony si rimise a parlare.
"a proposito di pazzia," disse. "roba da pazzi quello che succede, in 'sto stesso preciso minuto."
"come no," dissi io.
"mica dico per modo di dire. dico qui, proprio qui, nel mio locale."
"ah sì?"
"sì. tanto da matti che, certe volte, mi mette paura."
"di' su, Tony, dai racconta," dissi io, sempre pronto a ascoltar fregnacce.
Tony si sporse anche più vicino.
"c'è uno che ha inventato una macchina per fottere. mica balle. mica come una balla come ne vedi sulle riviste erotiche. mica roba come in quelle reclam. tipo borse d'acqua calda con fregna artificiale di carne macinata, con ricambi, insomma stupidaggini del genere. questo tale ha messo su una cosa seria. uno scienziato tedesco. noi l'abbiamo beccato, voglio dire il governo americano l'ha beccato prima che lo beccassero i russi. mi raccomando, non spargete la voce."
"sta' tranquillo, Tony."
"Von Braschlitz si chiama. il governo voleva che s'occupasse di ROBA SPAZIALE. macché giusto. una mente eccezionale, mica no, senonché lui s'è fissato su 'sta MACCHINA DA FOTTERE, che vuoi. è convinto di essere una specie d'artista, tante volte si fa chiamare Michelangelo... gli hanno dato una pensione di 500 dollari al mese, tanto per fargli tirare avanti senza andare a finire in manicomio. per un po' l'hanno tenuto sotto controllo, poi si sono stufati o si sono scordati, ma però l'assegno seguita ad arrivare, e ogni tanto un agente va a trovarlo, parla con lui dieci venti minuti mettiamo, ogni mese, fa un rapporto in cui dice che è ancora matto, e rivà via. così lui bada a girare da una città all'altra, strascinandosi dietro questo grosso baule rosso. alla fine una sera arriva qui da me e attacca a bere. mi racconta ch'è vecchio ormai, ch'è stanco, che ha bisogno d'un posto tranquillo per i suoi studi. io mica gli do retta. qui ne capita tanti di matti, lo sapete."
"sì," dissi io.
"poi, ragazi, s'è ubriacato tanto che, alla fine, m'ha raccontato tutto. ha inventato una donna meccanica che, a scoparla, dà più gusto che qualsiasi cristiana, mai creata nei secoli dei secoli, perdipiù, niente preservativi, né discorsi, né il marchese, né storie, né niente."
"io, è tutta la vita che la cerco," gli dissi, "una donna compagna."
Tony rise.
"ma certo! è il sogno di tutti! io pensavo che fosse sonato, s'intende, senonché una bella sera l'accompagno alla pensione dove alloggia, e lui là tira furi la MACCHINA DA FOTTERE da un baule rosso."
"allora?"
"come andare in paradiso prima di morire."
"vuoi che ci provo a indovinare il resto?" chiesi a Tony.
"provaci."
"Von Braschlitz e la sua MACCHINA DA FOTTERE sono qui da te, di sopra, adesso."
"hm hm," disse Tony
"quanto viene?"
"venti a testa."
"venti dollari per fottere 'na macchina?"
"il tedesco ha superato il Padreterno, chiunque sia. provare per credere."
"Petey la Civetta me lo ciuccia per un dollaro."
"il Civetta sarà un asso, ma non è superiore alle cose create da Dio."
gli sganciai venti dollari.
"giuro, Tony, che se è una barzelletta, ti sei perso il miglior cliente tuo."
"come dicevi prima, siamo tutti quanti matti. a te decidere."
"d'accordo," dissi,
"ci sto anch'io," disse Indian Mike, "ecco la grana."
"io mi becco solo il 50 per cento, mi dovete capire. il resto va a Von Braschlitz. 500 di pensione non è molto, con l'inflazione e le tasse, e Von Braschlitz trinca sgniappa come un matto."
"cosa aspetti?" dissi io. "i 40 ce li hai in tasca. dov'è questa sublime MACCHINA DA FOTTERE?"
Tony aprì una porticina dietro il bancone.
"passate per di qua. salite su per le scale sul retro. salite su, bussate, dite che vi manda Tony."
"sulla porta c'è un numero?"
"numero 69"
"manco a dirlo," dissi io. "che altro?"
"manco a dirlo," disse Tony. "portatevi le palle."
trovammo le scale. salimmo su.
"Tony va matto per gli scherzi," dissi.
percorremmo il corridoio. eccola là: porta n. 69.
bussai.
2ci manda Tony."
"entrate, accomodatevi, signori."
ci trovammo davanti a un vecchietto rubizzo, roba da baraccone, un bicchiere di sgnappa in mano, occhiali come culi di bicchieri. proprio come nei film muti. con lui c'era una ragazza, sarà stata lì in visita, una giovane, anche troppo giovincella, delicata ma insieme robusta. costei accavallò le gambe, mettendo in mostra tutta la bottega: ginocchia e cosce fasciate di nailon e un lembo di carne dove le calze finivano, un piccolo lampo di carne bianca. era tutta culo e tette, belle cosce, occhi azzurri ridarelli...
"signori... mia figlia Tania."
"come?"
"ah, sì, lo so, sono molto... vecchio... ma come c'è il mito del negro col cazzo che non finisce più, così c'è il mito del vecchio tedesco porcaccione che non la smette mai di scopare. voi potete credere quello che vi pare. questa, comunque, è mia figlia Tania."
"salve, ragazzi," ci salutò ridendo.
tutti allora guardammo verso la porta su cui c'era un cartello che diceva MAGAZZENO DELLA MACCHINA DA FOTTERE. lui finì di tracannare la sgnappa.
"allora, ragazzi... siete qui per farvi la più bella CHIAVATA che mai, jà?"
"ma papà!" disse Tania, "devi essere sempre così volgare?"
e riaccavallò le gambe, anche più scompostamente, che a momenti me ne venivo.
il professore tracannò un'altra sgnappa, poi s'alzò e andò alla porta con su scritto MAGAZZENO DELLA MACCHINA DA FOTTERE. qui si volse e ci sorrise, poi pian piano aprì la porta. entrò di là e ne uscì spingendo avanti a sé un affare che pareva una lettiga da ospedale a rotella.
NUDA: era un traliccio di metallo, senza rivestimento. il prof. spinse quella trappola dannata fino davanti a noi, poi si mise a canticchiare una canzone, uno schifo di canzone in tedesco. un traliccio di metallo con un buco nel mezzo. il professore pigliò una lattina d'olio e incominciò a versarci lì in quel buco una gran quantità d'olio, sempre canticchiando quella orrenda canzone tedesca. per un pezzo seguitò a versare l'olio poi si girò verso di noi e disse: "bella, jà?" quindi riprese a pompar dentro l'olio. Indian MIke mi guardò, tentò di ridere, e mi fece: "mannaggia... mi sa tanto che ci hanno fregati un'altra volta."
"eh già," dissi, "fossero pure cent'anni che non chiavo, ma mi faccio una sega piuttosto che ficcare l'uccello in quel ferrame."
Von Braschlitz scoppiò a ridere, andò a aprire un armadietto, prese un'altra bottiglia di sgnappa, se ne versò un bel gotto, si sedette, ci guardò.
"quando in Germania ci rendemmo conto che la guerra era persa, e la rete cominciava a restringersi -finché si chiuderà con la battaglia di Berlino- ci rendemmo anche conto che la lotta avrebbe preso una nuova forma: sì, la guerra divenne, essenzialmente, una gara a chi su acchiappava più scienziati tedeschi, fra russi e americani. chi ne beccava di più arrivava per primo sulla luna, per primo su Marte... per primo dappertutto. bah, non so come la gara si è risolta, veramente... sia per numero o sia in termini di energia cerebrale scientifica. so solo che da me ci arrivarono per primi gli americani, mi agguantarono, mi portarono via in automobile, mi offrirono da bere, mi puntarono una pistola alla tempia, mi fecero promesse, discorsi da pazzi, io firmai tutto..."
"bene," dissi, "questo per quanto riguarda la cronaca. ma io insisto che l'uccello non lo ficco, il mio povero uccellino, dentro quella congerie di ferraglia o quel che è! doveva essere matto da legare, Hitler, per allevare uno come lei. vorrei tanto che fossero arrivati prima i russi, da lei. voglio indietro i miei 20 dollari."
Von Braschlitz scoppiò a ridere. "ah ah ah... era solo un mio piccolo scherzo, nein? ah ah ah ah!"
rimise quell'ammasso di ferrivecchi dentro lo sgabuzzino. chiuse la porta. "oh, ah ah ah!" si versò un'altra sgnappa.
la tracannò d'un fiato. era una spugna. "signori miei, io non sono soltanto un inventore, sono anche un artista. la mia MACCHINA DA FOTTERE è in realtà mia figlia Tania..."
"un altro dei suoi piccoli scherzi, Von?" feci io.
"macché scherzo! Tania, va' a sederti sulle ginocchia del signore."
Tania rise, si alzò, venne oltre e si sedette sulle mie ginocchia. una MACCHINA DA FOTTERE? non potevo crederci! la sua pelle era pelle, fino a prova contraria, e la lingua, con cui cominciò a succhiellarmi in bocca, mica era una lingua meccanica: ogni guizzo era diverso dagli altri, in risposta alle mie linguate.
mi diedi subito da fare, a strapparle via la blusa dalle tette, a sfilarle le mutande, arrapato come non ero più da anni, e poi dopo l'abbracciai, così in piedi. insomma, c'eravamo alzati in piedi, e in piedi così me la pappai. le afondavo le dita fra i biondi capelli, ripiegandole la testa all'indietro, le allargavo le chiappe e il bucetto del culo, e dai a stantuffare, finché se ne venne: la sentivo spasimare, e anch'io sborrai!
la più bella scopata che mi fossi mai fatto!
Tania andò nella stanza da bagno, si pulì e si fece la doccia, si rivestì: per Indian MIke, mi dissi.
"la più grande invenzione dell'uomo," disse, serio serio, Von Braschlitz.
e aveva ragione.
poi Tania ritornò e venne a sedersi sulle MIE ginocchia.
"NO TANIA, NO! ADESSO TOCCA ALL'ALTRO SIGNORE! QUELLO LI' L'HAI APPENA SCOPATO!"
lei parve non averlo neanche sentito. e era strano, anche per una MACCHINA DA FOTTERE, perché io, veramente, non è che sia mai stato questo gran chiavatore.
"mi ami?" mi domandò.
"sì."
"io ti amo. sono così felice, e... veramente non dovrei essere viva.lo sai questo, o non lo sai?"
"ti amo, Tania. questo è tutto quel che so."
"god damn it!" imprecò il vecchio. "questa MACCHINA DA FOTTERE del cazzo!" e andò a prendere una cassetta verniciata, che c'era su stampigliata la parola TANIA su un lato. ne uscivano fuori dei fili elettrici, arruffati, c'erano quadranti,lancette che oscillavano, lampadine multicolori che lampeggiavano, maniglie, manometri, ticchettii... quel Von B. era il più pazzo ruffiano che avessi mai visto. si mise a armeggiare coi pulsanti, poi guardò Tania:
"25 ANNI! buona parte della vita ci ho perso, dietro a costruirti! ti ho persino dovuta nascondere da HITLER! e adesso... cerchi di trasformarti in una semplice, comunissima puttana!"
"non ho 25 anni," disse Tania, "ne ho 24."
"la vedete? la sentite? proprio come una troia qualunque!"
tornò ai suoi manometri.
"ti sei data un rossetto un po' diverso," dissi a Tania.
"ti piace?"
"oh, sì!"
si mise a baciarmi.
Von B. seguitava a trafficare coi quadranti. lo sentivo, che avrebbe vinto lui.
si rivolse a Indian MIke. "solo un piccolo guasto meccanico. fidati di me. lo riparo in un minuto, jà?"
"lo spero," disse Indian Mike, "ci ho 14 pollici di ciccia qui in attesa, e sono fuori di 20 dollari."
"ti amo," mi disse Tania, "e non voglio scopare nessun uomo all'infuori di te. se non posso avere te, non voglio nessuno."
"ti perdonerò, Tania, qualunque cosa farai."
il prof stava incazzandosi. badava a maneggiare quelle manopole ma non succedeva un tubo. "TANIA! adesso è ora che tu SCOPI con quest' ALTRO signore! sono... stanco... mi ci vuole un po' di sgnappa... voglio andare a dormire... Tania..."
"ah!" disse Tania, "brutto vecchio zozzone! tu e la tua sgnappa, che dopo tutta notte mi t'attacchi alle tettine, che non posso nemmeno dormire! e che neanche ti si indrizza più come si deve! fai schifo!"
"was?"
"ho detto che NON TI S'INDRIZZA PIU' come si deve!"
"questa, Tania, me la paghi!tu sei una mia creazione, non io la tua!"
seguitava a girare le manopole. era con la macchina che era incazzato, e la rabbia gli dava, in qualche modo, un nonsoché di luminoso e vitale che lo trasfigurava. "aspetta Mike, abbi pazienza. devo solo aggiustare un tantino la parte elettronica, aspetta! è andata in corto! ho trovato il guasto."
poi si raddrizzò. e dire che i nostri l'avevano salvato dai russi!
guardò Indian Mike. "adesso è a posto. la macchina funziona. buon divertimento."
andò a prendere la bottiglia di sgnappa, si versò un altro bel gotto, si sedette a guardare.
Tania s'allontanò da me e andò da Indian Mike. li guardai abbracciarsi.
Tania aprì la patta a Mike, gli tirò fuori l'arnese, e che razza di arnese che aveva! lui diceva 14 pollici, ma saran stati una ventina, buoni.
Tania prese con tutte e due le mani l'uccellaccio di Mike.
Mike in gloria gemeva.
lei allora gli schiantò via l'uccello, glielo stroncò dal corpo, e poi lo buttò via.
lo vidi ruzzolare sul tappeto come un salcicciotto matto, buttando un po' di sangue appena appena, tristemente. rotolò fin contro al muro. là restò, come qualcosa con la testa ma senza le gambe, né saper dove andare... il che era proprio vero.
eppoi ecco le PALLE che volano, pesanti, descrivendo una sbilenca traiettoria. atterrarono al centro del tappeto e non sapevano far altro che sanguinare.
e così sanguinavano
Von Braschlitz, pomo della discordia fra russi e americani, guardò di brutto quel che restava di Indian Mike, il mio vecchio compagno di bevute, in un lago di sangue lì per terra, che gli usciva uno zampillo dall' addome... poi Von B. infilò la porta, corse giù per le scale.
la stanza 69 ne aveva viste tante, tranne una roba simile.
allora dissi a Tania: "Tania, la pula sarà qui tra poco. vogliamo dedicare il numero di questa stanza al nostro amore?"
"senz'altro amore mio."
lo facemmo, giusto in tempo, poi la pula arrivò.
un esperto dichiarò che Indian Mike era morto. e poiché Von B. era un prodotto, per così dire, del governo usa, arrivarono un sacco di persone insieme a lui -svariati funzionari della malora- pompieri, giornalisti, sbirri, la CIA, l' FBI, e vari altri esponenti della merda umana.
Tania venne oltre e si sedette sulle mie ginocchia. "adesso a me m'ammazzano, ma ti prego non essere triste."
non le risposi.
poi Von Braschlitz si mise a urlare, indicando Tania: "VI ASSICURO, SIGNORI, CHE COSTEI NON PUO' NUTRIRE SENTIMENTI! e dire che L'HO SALVATA DA HITLER, a 'sta maledetta! ve l'assicuro, non è altro che una MACCHINA!"
quelli stavano là, a guardare. nessuno credeva a Von B.
era semplicemente la più bella macchina, e cosiddetta donna, che avessero mai visto.
"oh pezzi d'idioti! ogni donna è una macchina da fottere, lo capite questo o no? si danno al miglior offerente! L'AMORE NON ESISTE! E'UN MIRAGGIO, E'UNA FAVOLA, COME IL NATALE!"
quelli non gli credevano, però.
"QUESTA è solo una macchina! non abbiate PAURA! guardate!"
Von Braschlitz afferrò Tania per un braccio.
glielo stroncò, glielo staccò dal corpo.
e dentro -dentro il buco nella spalla- si vedeva chiaramente -non c'era altro che fili e valvole- rocchetti e tubicini -più un tantino d'una certa sostanza che vagamente somigliava al sangue.
Tania stava là in piedi con quei ciuffi di fili che le spuntavano dalla spalla, dove prima aveva il braccio. mi guardò: "ti prego, vale anche per me. prima, quando t'ho chiesto di non essere triste..."
le saltarono addosso, cominciarono a sventrare, a stuprare, a lacerare.
io guardavo ma non potei resistere, chinai la testa e mi misi a piangere...
oltre tutto, Indian Mike ci aveva rimesso 20 dollari.


trascorsero alcuni mesi. non tornai più a quel bar, ci fu un processo ma il governo scagionò Von B. e la sua macchina. mi trasferii in un' altra cittò. molto lontano. e un giorno, dal barbiere, mi capitò fra le mani una di queste riviste porno. e lessi questo annuncio: "Gonfiatela da voi, la vostra bambola. $29,95. tutta in gomma resistente, fatta apposta per durare! catene e scudisci inclusi nel prezzo. un bikini, reggiseno, mutande. 2 parrucche, un rossetto e un vasetto di balsamo d'amore: tutto compreso. Von Braschlitz & C."
gli mandai un vaglia. fermo posta nel Massachussetts. anche lui aveva cambiato aria.
il pacco mi arrivò dopo 3 settimane. l'aprii e ci rimasi male, non avevo una pompa da bicicletta e, siccome non vedevo l'ora, corsi subito dal benzinaio lì all'angolo.
man mano che si gonviava, andava meglio. gran tette. gran culo.
"ma che è 'sta roba, amico?" mi chiese il benzinaio.
"senti, bello, t'ho chiesto solo un po' d'aria in prestito. sono un cliente, no? compro qui la venzina, sì o no?"
"e va bene, e va bene. pigliati pure l'aria. ma solo non capisco una madonna..."
"e a te che te ne frega?" dissi io.
"GESU'! guarda che TETTE!"
"lo vedo, stronzo!"
lo lasciai lì con la lingua penzoloni, mi caricai la pupa sulle spalle, tornai a casa mia. la portai in camera. ora restava una grossa incognita. le allargai le gambe e controllai gli orifizi. Von B. non s'era scordato niente.
le montai sopra e mi misi a baciare quella bocca di caucciù. ogni tanto m'attaccavo a una tetta e la ciucciavo. le avevo messo una parrucca gialla e m'ero spalmato l'unguento d'amore sull'uccello. nel vasetto ce n'era per un anno.
la baciai con passione dietro le orecchie, le ficcai un dito in culo, e badavo a stantuffare. poi saltai giù, le incatenai le mani dietro la schiena, la catena era completa di lucchetto, e poi presi a scudisciarla ben bene con la sferza.
dio, pensavo, ho da essere matto.
poi la ribaltai e glielo misi in corpo. pompavo e pompavo. francamente, era alquanto noioso. ecco -m'immaginavo- un cane che si fotte una gattina, m'immaginavo due che si scopavano precipitando da un grattacielo. m'immaginavo una patacca enorme che era come una piovra e che strisciava verso di me, bagnata, che puzzava e che smaniava e che voleva l'orgasmo del piacere, ripassavo in rassegna mentalmente tutte le cosce, tutte le patonze, le mutande, le zinne che avevo viste. il caucciù sudava. io sudavo.
"ti amo, ti amo tanto!" le sussurravo in un orecchio di gomma.
detesto confessarlo, ma alla fine me ne venni dentro quella schifosa massa di caucciù. non era un'altra Tania, no, affatto.
presi una lametta e la feci a brandelli. la buttai nella monnezza. quanti uomini, in America, compravano quelle stupide cose?
oppure basta che cammini una decina di minuti per una qualsiasi strada di città americana, e ne incontri un centinaio, di macchine da fottere: solo che quelle fanno finta di essere umane.
povero Indian Mike. con quel cazzomorto da 20 pollici. tutti i poveri Indian Mike. tutti i poveri astronauti. tutte le puttane del Vietnam e di Washington.
povera Tania, il suo ventre era un ventre di troia. le sue vene, le vene di una cagna. raramente pisciava e cagava, lei aveva soltanto da scopare -cuore, voce e lingua presi in prestito da altri- a quell'epoca c'erano stati, si diceva, solo 17 trapianti di organi. Von B. era molto, molto più avanti.
povera Tania, che mangiava appena appena: perlopiù formaggio a buon mercato e uva passa. non sognava, lei, il denaro e la roba o un'auto fuoriserie o una casa superlusso. non aveva mai letto i giornali. non sognava la tivù a colori, non desiderava bei vestiti, cappellini, stivaletti, chiacchierare al mercato con altre idiote massaie; né aveva mai sognato per marito un medico, un banchiere, un deputato, un poliziotto.
per un pezzo il benzinaio ha badato a domandarmi: "che fine ha fatto quell'affare che un giorno sei venuto a gonfiare da me con la pompa?"
ora però non me lo chiede più. vado da un'altra parte a far benzina. non vado più neanche a tagliarmi i capelli da quel barbiere dove lessi l'annuncio di Von Braschlitz. sto cercando di scordare ogni cosa.
voi cosa fareste?


Henry Charles Bukowski









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BombaCarta
Arte e vita. Le interviste di Tonino Pintacuda. Andrea, partiamo da
un dato: la trasposizione cinematografica de "Il Signore degli ...
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Bombacarta
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Costantino Simonelli. Negli ultimi dodici mesi, pur non facendo ...
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Era questa l’idea di partenza, ancora manca qualcosa ma già si capisce ...
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Bombasicilia
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Pintacuda. Versione html Gabriele & Lorenzo Guzzetti. INDIRIZZI AMICI. ...
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E
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incontro onirico con il grande scrittore di Tonino Pintacuda PROSE Il clown ...
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Candele             
 
Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese -
dorate, calde, e vivide.


Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine danno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.


Non le voglio vedere: m'accora il loro aspetto,
la memoria m'accora del loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.


Non mi voglio voltare, ch'io non scorga, in un brivido,
come s'allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.
(c.kavafis)

22/03/03

 Immanuel Kant - Per la pace perpetua.  Un progetto filosofico.


Sezione prima: articoli preliminari per la pace perpetua fra gli Stati.


Non deve, essere considerato tale un trattato di pace se sottoscritto con la tacita riserva di pretesti per una guerra futura.
Si tratterebbe infatti in tal caso di un semplice armistizio (sospensione temporanea delle ostilità) Invece la pace, "cui l'aggiunta della parola eterna sarebbe un pleonasma sospetto", è volontà categorica di pace, rinuncia a servirsi della guerra e implica la fine di ogni ostilità.
Nessuno Stato indipendente può essere acquistato da un altro per successione ereditaria, scambio, compera o donazione.
Infatti uno Stato è una società di uomini (una persona morale) sulla quale nessun altro che essa stessa può comandare.
Anche un regno ereditario non è uno Stato che possa cadere in eredità di un altro Stato, ma è uno Stato in cui il diritto di governare può essere trasmesso a un'altra persona fisica (è lo Stato che acquista un sovrano, non il sovrano che acquista uno Stato).
Si devono abolire gli eserciti permanenti.
Va rifiutata la massima "si vis pacem, para bellum" perché preparare la guerra significa soltanto preparare l'aggressione contro altri Stati.
Gli eserciti vanno aboliti perché: a) minacciando gli altri Stati li spingono ad armarsi per difesa e li inducono a gareggiare in potenza e armamenti in una spirale senza fine; b) assoldare uomini per uccidere significa annientare i loro diritti sulla propria persona e ridurli a strumenti nelle mani di un altro (lo Stato). Cosa diversa è l'esercitarsi alle armi, volontario e periodico, dei cittadini.
Non si devono contrarre debiti pubblici in vista di controversie fra Stati da svolgere all'estero.
E' lecito solo cercare mezzi, dentro e fuori dallo Stato, nell'interesse dell'economia nazionale (per opere pubbliche, ecc.)
5) Nessuno Stato deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato.
Non vale la giustificazione dello scandalo che ciò che accade in un paese provocherebbe negli altri: lo scandalo è infatti positivo perché serve da ammonimento contro i guasti dell'anarchia.
Vanno però distinti due casi: a) quello di un popolo che si agita per modificare il proprio regime, in questo caso l'intervento straniero sarebbe una violazione dei diritti di un popolo indipendente; b) quello di uno Stato che si divide in due parti ognuna delle quali pretende di dominare il tutto, in questo caso l'intervento straniero a favore di una delle due parti non rappresenterebbe una ingerenza indebita.
Gli Stati in guerra non devono compiere atti che renderebbero impossibile la reciproca fiducia nella pace futura (ricorso ad assassini, istigazione al tradimento, ecc.
Senza una qualche fiducia nel nemico la pace sarebbe inattuabile e le ostilità si trasformerebbero in una guerra di sterminio e questa "darebbe luogo alla pace perpetua unicamente sul grande cimitero del genere umano"


Sezione seconda: articoli definitivi per la pace perpetua fra gli Stati.


Lo stato di pace fra gli uomini non è uno stato di natura. Quest'ultimo infatti è piuttosto uno stato di guerra perché anche se non vi sono ostilità dichiarate, è continua la minaccia che esse si producano.
Chi vive nello stato di natura, anche se non mi attacca direttamente, mi lede per il solo fatto di vivere senza leggi in mia vicinanza. Perciò io posso costringerlo o a entrare in uno stato di convivenza legale, o ad allontanarsi da me. Infatti tutti gli uomini che possono agire reciprocamente gli uni sugli altri devono entrare a far parte di una qualche costituzione civile, in caso contrario non può esservi pace perché pace e diritto sono indissolubilmente legati.
Ogni costituzione è conforme: a) al diritto pubblico, degli uomini che formano un popolo; b) al diritto internazionale degli Stati che si trovano in rapporto fra loro; c) al diritto cosmopolitico, in quanto uomini e Stati, che siano in rapporto di influenza reciproca, devono essere considerati come cittadini di uno Stato universale.


1) La costituzione civile di ogni Stato deve essere repubblicana, cioè fondata su principi di libertà, uguaglianza e sulla dipendenza da una comune legislazione.
La libertà giuridica non è la facoltà di fare tutto ciò che si vuole pur di non recare ingiustizia a nessuno, ma la facoltà di non obbedire ad altre leggi esterne se non a quelle cui ho potuto dare il mio assenso.
La costituzione repubblicana, che scaturisce dalla fonte originaria dell'idea di diritto, ai fini della pace perpetua è l'unica ammissibile in quanto prevede che l'obbedienza alle leggi dipenda dall'assenso che i cittadini hanno dato a esse. Perciò è naturale pensare che, dovendo far ricadere su di sé le calamità della guerra, si astengano dal farla.
In una costituzione monarchica invece gli uomini non sono cittadini ma sudditi e il re è proprietario dello Stato senza farne parte e, non subendo i danni della guerra, non ha remore nel farla.
Non vi è identità fra repubblica e democrazia. Infatti gli Stati si definiscono in base alla forma del dominio (e allora sono: autocratici, aristocratici o democratici) e in base alla forma del governo (e allora sono repubblicani o dispotici). La forma democratica nel senso proprio della parola è necessariamente un dispotismo perché stabilisce un potere esecutivo in cui tutti deliberano sopra uno solo e quindi tutti deliberano anche se non sono tutti, il che è una contraddizione della volontà generale con se stessa e con la libertà. In ogni forma di governo che non sia rappresentativa il legislatore coincide con l'esecutore, e ciò è inammissibile. ["Allo Stato dispotico come forma cattiva di Stato, Kant contrappone come forma buona la repubblica, intesa non come l'antitesi della monarchia, ma come la forma di governo che, applicando il principio della separazione dei poteri, in modo particolare del potere esecutivo dal potere legislativo, evita il vizio più grave dello Stato dispotico in cui la volontà pubblica (espressa dalla legge) è sostituita dalla volontà del sovrano. (…) Per costituzione repubblicana Kant intende, in questo contesto, una costituzione fondata sui tre principi delle libertà dei cittadini, della dipendenza di essi da un'unica legislazione ispirata all'idea del contratto originario, e dell'uguaglianza di tutti." N.Bobbio]


2) Il diritto internazionale dev'essere fondato su un federalismo di liberi Stati.
Per gli Stati che interagiscono fra loro l'unico modo per uscire dallo stato naturale di guerra senza leggi è quello di rinunciare alla propria libertà selvaggia e sottomettersi a leggi pubbliche e attive formando una federazione di popoli.
Infatti i popoli, in quanto Stati, sono come singoli individui che vivono nello stato di natura (privi di leggi esterne). Pertanto si ledono a vicenda con la sola vicinanza e ciascuno, per la propria sicurezza, può e deve esigere dall'altro di entrare con lui in una costituzione che garantisca a ognuno il proprio diritto. Tuttavia gli Stati si rapportano fra loro con la guerra anche se dichiarano di ricorrervi per ragioni di diritto. Ma la guerra, anche se vittoriosa, non può decidere la questione di diritto e il trattato di pace non pone fine allo stato di guerra. D'altra parte il dovere di uscire dallo stato di natura, che il diritto naturale impone agli individui, non vale per gli Stati (che hanno già una costituzione al loro interno). Ma la ragione, suprema potenza morale legislatrice, condanna in modo assoluto la guerra come procedimento giuridico ed eleva a dovere immediato lo stato di pace che dev'essere creato da una convenzione di popoli.


3) Il diritto cosmopolitico dev'essere limitato alle condizioni dell'universale ospitalità.
Esso trae le sue motivazioni dal diritto originario del comune possesso della terra (che è terra di nessuno) ove, data la sua forma sferica, gli uomini non possono disperdersi isolandosi all'infinito, ma devono incontrarsi e coesistere. Quindi non si tratta di filantropia ma di un diritto di visita spettante a tutti gli uomini, quello cioè di offrirsi alla socievolezza in virtù del comune possesso della superficie della terra.


Primo supplemento: garanzia della pace perpetua.


La natura costringe l'uomo a fare ciò che la ragione gli impone come dovere e che egli, senza una coazione, non farebbe. La natura, è cosi garante di una società giuridica universale, anche contro la volontà degli uomini (eterogenesi dei fini).
Queste sono le disposizioni provvisorie che la natura ha imposto agli uomini: a) possibilità di vivere in tutte le parti della terra; b) necessità (a causa della guerra) di popolare anche le regioni più inospitali; c) necessità (a causa della guerra) di entrare in rapporti di reciproca legalità.
Avendo previsto che gli uomini potessero vivere dappertutto, la natura ha dispoticamente imposto che essi dovessero vivere, dunque anche contro la loro inclinazione e senza che a ciò li obbligasse il senso del dovere originato da una legge morale.
Se la natura vuole che una cosa avvenga non ci impone il dovere di attuarla ma la fa di per sé, sia che noi vogliamo sia che non vogliamo (fata volentem ducunt, nolentem trahunt).
Per attuare i suoi scopi, senza che sia per questo compromessa la libertà, la natura opera sul triplice piano del diritto: a) pubblico, b) internazionale, c) cosmopolitico:
a) Quando non, bastassero le discordie intestine, il pericolo esterno della guerra comporta la necessità di darsi delle leggi coattive e di costituirsi come Stato per poter resistere. Dato che la costituzione repubblicana (la sola perfettamente conforme al diritto) è difficile da attuarsi a causa dell'egoismo degli uomini, e dato che solo in uno Stato ben organizzato si evitano i danni prodotti dalle contrastanti forze umane, la natura si serve dello stesso egoismo degli uomini per venire in soccorso della volontà generale fondata sulla ragione e l'uomo è costretto a essere, se non moralmente buono, almeno un buon cittadino.
b) L'idea del diritto internazionale presuppone la separazione di molti Stati vicini e indipendenti fra loro. Questa separazione, attuata dalla natura attraverso la guerra e causata dalle differenze di lingua e di religione, è comunque meglio di una monarchia universale (cioè un dispotismo senz'anima destinato a cadere preda dell'anarchia) cui ogni Stato tenderebbe per realizzare una pace durevole mediante la propria dominazione sul mondo.
c) Mentre sapientemente separa i popoli ostacolando la loro unificazione dispotica sotto il controllo di un unico Stato, la natura favorisce la loro unificazione, non attraverso il diritto cosmopolitico che da solo non garantirebbe contro la violenza, ma attraverso lo spirito commerciale. Cosi per la forza del denaro (e non già per motivi morali) gli Stati si vedono costretti a promuovere il più possibile la pace.


Secondo supplemento: articolo segreto per la pace perpetua.


E' contraddittoria la presenza di un articolo segreto in materia di diritto pubblico, tuttavia bisogna prevedere un unico articolo di questo tipo che dice: "Le massime dei filosofi circa le condizioni che rendono possibile la pace pubblica devono essere prese in considerazione dagli Stati armati per la guerra".
Ciò non significa che i filosofi debbano esercitare il potere politico (che inevitabilmente corrompe il libero giudizio della ragione), ma che essi devono essere lasciati liberi di parlare pubblicamente.


Appendice


I - Sulla discordanza fra morale e politica in ordine alla pace perpetua.
La morale è una legge pratica che si uniforma al principio: se devi puoi. Infatti un dovere che andasse al di là della possibilità cadrebbe da sé fuori del campo morale. Non può quindi esservi conflitto fra la politica come dottrina pratica e la morale come dottrina teorica del diritto (non c'è conflitto fra teoria e pratica).
L'uomo pratico (per il quale la morale è semplice teoria) nega che l'uomo, data la sua natura, voglia ciò che è richiesto per conseguire lo scopo che conduce alla pace perpetua. A tale scopo infatti non è sufficiente la volontà di tutti gli uomini singolarmente presi (unità distributiva del volere), ma è necessario che tutti insieme lo vogliano (unità collettiva del volere) e ciò si può attuare inizialmente soltanto attraverso la forza coattiva su cui si fonda il diritto pubblico.
Dunque il diritto pubblico, come quelli internazionale e cosmopolitico, non si possono fondare altrimenti che sui principi empirici della natura umana? Certo, se non esiste alcuna libertà e alcuna legge morale su di essa fondata, ma tutto ciò che accade o può accadere si riduce a puro meccanismo della natura, allora l'unica sapienza pratica è la politica (come arte di sfruttare tale meccanismo per governare gli uomini) e l'idea del diritto è priva di contenuto.
Ma bisogna distinguere fra il politico morale e il moralista politico. Il primo intende i principi della prudenza politica in modo che possano coesistere con la morale e si adopera, senza violare quei principi, per correggere i difetti nella costituzione dello Stato e nei rapporti fra gli Stati. Il secondo si foggia una morale secondo i suoi interessi di uomo di Stato lasciandosi guidare dal principio materiale dello scopo. Le sue massime sono: a) fac et excusa cioè cerca a posteriori le giustificazioni per un'arbitraria iniziativa dello Stato sul popolo o su uno Stato vicino; b) si fecisti, nega, cioè nega la tua responsabilità di fatto e attribuiscila piuttosto alla debolezza della natura umana (che impone, per esempio, la guerra preventiva come mezzo di difesa); c) divide et impera, ovvero promuovi la discordia nel tuo e negli altri popoli per presentarti poi come paladino dei più deboli.
Il moralista politico non può perseguire la pace perché ritiene che le ingiustizie, attuate da sovrano e popolo e da popolo e popolo, si giustifichino reciprocamente. L'uomo in questo modo sarebbe destinato a non migliorare mai e ciò che resterebbe ingiustificato sarebbe il senso ultimo della creazione.
A queste disperate conseguenze saremmo spinti inevitabilmente se non ammettessimo che i principi puri del diritto hanno realtà oggettiva. Il diritto degli uomini dev'essere tenuto come sacro, per quanti sacrifici ciò possa costare al potere dominante. ["Il politico morale rappresenta per Kant l'ideale del buon politico, il quale è colui che, pur rendendosi conto delle difficoltà di attuare hic et nunc lo scopo finale dell'unione universale degli Stati attraverso la costituzione di una comunità giuridica, opera sempre in modo da non renderla impossibile, anzi da avvicinarsi a essa gradualmente" N.Bobbio]


II - Dell'accordo della politica con la morale secondo il concetto trascendentale del diritto pubblico.
La pubblicità fornisce un criterio, presente a priori nella ragione, per riconoscere immediatamente se una pretesa giuridica è o non è conforme alla giustizia (e quindi al diritto).
Pertanto si può chiamare formula trascendentale del diritto pubblico il seguente principio: "Tutte le azioni relative al diritto di altri uomini, la cui massima non è compatibile con la pubblicità, sono ingiuste".
Questo principio negativo (in quanto mi dice solo ciò che non è giusto), è etico (perché attiene alla dottrina della virtù) e giuridico (perché concerne il diritto). Pur essendo un assioma, e come tale indimostrabile, è di facile applicazione nei tre campi del diritto:
a) Nel diritto pubblico Si pensi alla questione della legittimità dell'insurrezione popolare contro un potere tirannico: per affermare immediatamente e a priori che tale insurrezione è illegittima basta riflettere sul fatto che il popolo, stabilendo il patto civile, non potrebbe mai rendere pubblica la massima di proporsi una ribellione perché in questo modo si attribuirebbe un potere legale sopra il sovrano e ciò non renderebbe possibile fondare alcuna costituzione (che era appunto ciò che si voleva stabilire). L'ingiustizia della ribellione si rende dunque lampante per il fatto che la massima di essa, qualora la si affermasse pubblicamente, renderebbe impossibile il suo proprio scopo.
b) Nel diritto internazionale. Il principio della pubblicità vale per i patti fra gli Stati a condizione che tali patti siano rivolti alla conservazione della pace fra i contraenti e con gli altri Stati. Si vedano i seguenti casi: 1) E' lecito per un sovrano non mantenere una promessa fatta a un altro Stato in nome della salvezza del proprio? No perché se avesse reso nota la massima di riservarsene l'eventuale violazione, nessuno avrebbe stretto un patto con lui. 2) Alcuni Stati minori possono coalizzarsi contro una potenza divenuta molto grande e attaccarla per prevenire il fatto che questa attacchi loro?  No, perché se rendessero pubblica questa loro intenzione sarebbero prevenuti e facilmente vinti dalla potenza maggiore. 3) E' lecito a uno Stato ,più grande assoggettarne uno più piccolo che spezzi la sua continuità territoriale? No, perché se questa intenzione fosse pubblica gli Stati minori si coalizzerebbero contro di esso e le altre potenze gli contrasterebbero la preda.
c) Nel diritto cosmopolitico l'applicazione è analoga a quella che si è fatta nel diritto internazionale.


La condizione dell'applicabilità di un diritto internazionale è che vi sia uno stato giuridico il quale esiste solo in una federazione di Stati che miri alla rimozione della guerra. Da una tale unione sono banditi: la reservatio mentalis (cioè la stipulazione di pubblici trattati in modo tale che si possano all'occorrenza interpretare a proprio vantaggio); probabilismo (cioè l'attribuzione cavillosa di cattive intenzioni agli altri); il peccatum philosophicum (considerare cioè che l'assorbimento di un piccolo Stato sia un peccato venialissimo se da ciò trae vantaggio uno Stato più grande per un preteso maggior bene del mondo).
La politica, che si accorda facilmente con l'amore umanitario, cioè con la morale intesa come etica, non si accorda affatto con la morale intesa come dottrina del diritto. Ma questa doppiezza della politica sarebbe facilmente smascherata se si consentisse al filosofo di renderne pubblici i principi.


Per cercare un accordo fra politica e morale si può quindi aggiungere un nuovo principio: "Tutte le massime che (per non venire meno al loro scopo) hanno bisogno della pubblicità, concordano e con la politica e con il diritto".
Le massime infatti avranno l'accordo del pubblico (ciò che è peculiare della politica), ma anche quello del diritto pubblico (e quindi della morale).

19/03/03

Lo scarafaggio puó vivere nove giorni anche se privato della testa, dopodiché...muore di fame sempre continuando quel discorso sulle catene di e-mail, lascio libere le idee: fa bene una volta all'anno impazzire... Nuovo buco è finito, magari a qualcuno è piaciuto, a molti altri sarà sembrata un'accozzaglia inutile di frasi che era meglio evitare. Passo di pala in frasca: ho scritto troppo. Per interi anni non ho fatto altro. Ora non ce la faccio. Saranno i ritmi universitari o sarà la vena che s'è estinta. Buttavo giù pagine su pagine. Ho un romanzo da finire ma ci vuole tempo per certe cose. Magari vi va di dargli un'occhiata... leggetelo e poi ripassate da qui e commentate please... Oggi sto così... non lascio niente, sarà che in certi momenti è meglio stare zitti.  

18/03/03

Non ci si può baciare i gomiti, stasera ci ho provato e riprovato: niente da fare. Odio le catene di sant'antonio di mail proprio per questo... arrivano cose infinitamente carine, come sta cosa qui dei gomiti ma ti restano appiccicati dubbi esistenziali: cavolo! Sono campato 21 anni senza sapere che anche volendo non potrò mai baciarmi un gomito! Meglio l'ignoranza? Preferite davvero non sapere come va a finire nuovo buco? (Di sicuro avete pensato:"e ora dove va a parare 'sta cazzata dei gomiti?") Era solo un excursus delirante per prepararvi all'ultimo delirio. Basta con i feuiletton: stasera il black hole chiude.


Forse. (il dubbio è uno dei nomi dell'intelligenza)

(11)
Il sottomarino giallo lo inghiottì dentro la sua pancia metallica e i fantasmi lo strapazzarono di coccole.
C'erano tutti: Bob Marley con tanto di cappello giamaicano, Kurt Cobain con l'aureola, suo padre con l'ultimo cd dei Beatles, il vecchio Dike con un altro topaccio tra i denti bianchi e Kafka con il suo piccolo scarafaggio.

-Voi non siete morti… come fate ad essere qui sotto?- sputò sta domanda ai Beatles e John gli rispose.
- Nessuno è morto, nessuno può morire nel sottomarino giallo. Noi continuiamo a vivere ogni volta che qualcuno semplicemente ci pensa o fischietta sotto la doccia una delle nostre canzoni. - Lo disse e iniziò a cantare. Tutti cantarono, perfino suo padre e addirittura Dike e lo scarafaggio. Forse anche il topaccio squittì qualche nota giusta.

- In the town where I was born
Lived a man who sailed to sea
And he told us of his life
In the land of submarines

So we sailed up to the sun
Till we found the sea of green
And we lived beneath the waves
In our yellow submarine

We all live in our yellow submarine,
Yellow submarine, yellow submarine
We all live in our yellow submarine,
Yellow submarine, yellow submarine

And our friends are all on board
Many more of them live next door
And the band begins to play

We all live in our yellow submarine,
Yellow submarine, yellow submarine
We all live in our yellow submarine,
Yellow submarine, yellow submarine

As we live a life of ease
Everyone of us has all we need
Sky of blue and sea of green
In our yellow submarine.

We all live in our yellow submarine,
Yellow submarine, yellow submarine
We all live in our yellow submarine,
Yellow submarine, yellow submarine

We all live in our yellow submarine,
Yellow submarine, yellow submarine
We all live in our yellow submarine,
Yellow submarine, yellow submarine! -


Che sound! Tutto il popolo del mare arrivò come se il sottomarino avesse promesso centomila posti di lavoro.
Qualcuno disse che quel sottomarino aveva dato vita ad un sogno e tutti tornarono a casa con il cuore traboccante di verde speranza.

(12)
Si svegliò inzuppato come un gran turchese. Sputacchiò un miliardo di granellini di sabbia e vide una cosa che non poteva essere lì. Il mare l'aveva sputato sulla spiaggia e gli aveva fatto un regalo. Gli aveva restituito la sua vecchia cazzuola. Si ritrovò a pensare a tutte le estati che aveva perso dietro a sogni in bikini mentre impastava caldarelle di cemento. La cazzuola era come l'aveva lasciata e la vide luccicare nella luce onesta del mattino e si lasciò illuminare da quel riflesso.

Aveva ancora quella moneta gialla in tasca, un piccolo dischetto di nichel e bronzo buono solo per una velocissima telefonata urbana. Il sole gli rimandava barbagli che lo lasciarono cieco per qualche secondo e in quel breve istante rivide l'acqua che gli riempiva i polmoni. Forse era morto e ancora non lo sapeva.

La moneta la lanciò ad una lumaca che passava di lì e lei lo ringraziò scotendo lievemente le sue viscide antennine. Si portò una mano ai capelli e toccò alghe e qualcos'altro che diede un altro scossone alla sua pazzia. Tra le alghe c'era il cappello di Bob! Non aveva sognato: era successo veramente.

-Sono pazzo solo che gli altri ancora non lo sanno. Per gli altri sono un normale, mediocre medicaccio della mutua. Non devo dire a nessuno quello che è successo stanotte, non capirebbero. Tu che ne pensi?- stava chiedendo consigli alla lumaca ma quella non gli diede retta, forse pensava che gli avrebbe fregato la sua monetina gialla.
Smise di nascondersi e scagliò con violenza cazzuola e cappello. Li scagliò dove l'acqua era più blu e li vide affondare lentamente come la sua vecchia vita. Gli stava dicendo addio e il mare stavolta parlò senza alghe sulla lingua.

STEFANO… PERCHÉ PIANGI? LO SAPEVI, L'HAI SEMPRE SAPUTO.
NON HAI POTUTO SALVARLO, NON È COLPA TUA. SMETTILA D'ILLUDERTI CON INUTILI PARADOSSI SPLATTER. QUELLA NOTTE AVETE SOLO CHIARITO TUTTO, NON HAI MANCO PENSATO DI SCUOIARLO. RICORDARE FA MALE…

Il ricordo tornò con tutta la sua forza. La luna sorrise nel cielo buio e anche Stefano sorrideva con il suo cappello giamaicano che gli penzolava sui capelli. S'erano seduti sulla terra bagnata e fumavano come vecchi Sioux. La loro amicizia non sarebbe mai finita, avrebbe resistito anche al risveglio dei morti. Magari sarebbero finiti nello stesso girone infernale a rosolarsi ben bene le chiappe sul calderone del vecchio Satanasso. Le alucce e le aureole non erano per loro. Meglio due paia d'ali di pipistrello, la codina a punta e pure il forcone appuntito.

Poi la notte era finita, svaporata via senza che se ne fossero accorti. Erano grandi e decisero d'andare a tagliarsi i capelli e magari pure le basette. Il 1980 era appena iniziato.

***

La campanella sbatacchiò quando entrarono e il barbiere li salutò scattandogli due belle foto ricordo. Diceva di collezionare tutte le teste che conosceva. Le forbici tagliarono e i pettini pettinarono e il barbiere fischiettava Penny Lane. A terra finirono i sogni del '79, finirono a tener compagnia al foglio che il barbiere aveva strappato dal calendario. Dicembre 1979…
S'erano salutati alla stazione con i lacrimoni lì lì per scendere. Si sarebbero rivisti solo vent'anni dopo.
Gianluca dentro una cassa di pino silvestre con la faccia ricucita in tutta fretta e Stefano quasi completamente sbiellato.

Stefano decise di farla finita. Si legò una caldarella di cemento indurito al collo e si lasciò affogare.

(13)
Dissero che s'era suicidato.

Stefano non si sarebbe mai suicidato, amava troppo la vita. Aveva solo voglia di fare un altro giro nel sottomarino giallo.


Forse era veramente pazzo ma chi può dirsi normale?
Tu stesso che leggi, sei normale?
Tu che scrivi, sei normale?
Voi che ridete o piangete, siete forse più normali di noi?
Se fossimo solo gli sterili desideri di qualche stella caduta?


Fine?