21/03/05

la mela bucata (l'epilogo)

Io sono stato sempre pessimista, mi immaginavo che, pure che avevo tirato le ascisse e le ordinate per calcolare al millesimo il punto preciso dove iniziare a scavare, ci saremmo ritrovati sotto il culo rachitico di Padre barbone intento a sganciare le sue caccoline secche secche dentro alla tazza, seduto lì sudato col breviario in mano.

No, i calcoli erano corretti. Finimmo tutti nel cesso delle ragazze, lo avevo riconosciuto da quei cestini speciali che servono solo per buttare gli assorbenti già zuppi di sangue mestruale.

Era uno di quei momenti in cui il tempo si ferma e tu ti trovi lì, ritagliato dal contesto, come se stessi rivedendoti in tempo reale la moviola di quello che ancora devi dire e lo vuoi gridare a tutti che stavolta non avrai paura di poter sbagliare ancora. L'adrenalina ti pulsa sincera in corpo, i fiumi di sudore ci mettono un'eternità a scivolarti via dalla fronte. Li avevo tutti dietro, li sentivo, avevano paura. Paura per quello che avevano sognato sin dalla prima erezione consapevole. Era sempre la solita faccenda, la distanza che seapra i sogni dalla realtà è un pelo di fica su un abisso. Mio padre  me lo diceva a cadenza regolare, puoi schivare perfino una raffica di mitra ma mai e poi mai potrai resistere alle promesse che svolazzano tra le cosce di una fimmina, dopo quella perla concludeva il discorso con un vecchio proverbio: "tira più un pelo di fimmina che i buoi del carro della Madonna della Milicia". I buoi del carro della Madonna del Santuario di Altavilla della Milicia sono 6, muscolosissimi, capaci di spostare i diversi quintali del carro monumentale, l'iperbole era azzeccata come poche.

E ora ne capivo tutta la sua terribile verità. Nelle faccende di sesso siamo tutti indifesi, dove siamo più umani siamo ancora più scoperchiati.

Capimmo solo allora che Francesco Paolo era ancora vergine, come e più di noi. Il dubbio divenen certezza quando l'ultimo di noi, Casimiro Sconzolato, attraversò pure lui la breccia che avevamo aperto nel cesso delle fanciulle.


Quello che avvenne dopo non ve lo posso dire, meglio ancora, non ve lo voglio dire. Perché ci siamo passati tutti, quando per la prima volta ti trovi una donna tra le braccia il cuore ti sta per traboccare fuori dallo sterno, te lo senti martellare giù, giù sino allo scroto.ò Sei tutto un punto interrogativo, il tuo corpo cerca di proteggere quello stesso pisello che non facevi che vantare come capace di sfardare mutande e reticenze. Quando stai per realizzare il film che ti sei sbobinato in testa a ogni segone ti prende una strizza che sale dalla bocca dello stomaco, scoprimmo che, per fortuna, le donne non ce l'hanno l'ansia da prestazione e soprattutto ci restammo come merli svacantati quando ci si presentò davanti la Verità nel mezzo del turbine delle nostre reciproche spacconaggini.

Mentre noi cercavamo di arrivare dalle donne, loro che sono sempre più preparate e sveglie di noi, avevano già trovato il modo di calarsi nel nostro balcone.

C'era da restarci abbagliati da quella situazione, in amore vince chi fugge. Almeno così dicono, quella lunga lunga notte non ci furono vincitori. Alla fine riuscimmo a raggiungere le ragazze e bene o male arrivò pure l'alba che ci trovò con una luce tutta nuova negli occhi.


Di Francesco Paolo sappiamo solo che quella notte qualcosa cambiò pure in lui, gettò via gli scatoloni di materiale porno che aveva accumulato nella sua vecchia vita e incominciò quella nuova chiedendo la mano di Marcella a Padre Barbone, si erano zitati col buono. Padre Barbone si scoprì che organizzava quei ritiri spirituali proprio per dare una mano ai giovani a mettere giudizio in fatto di femmine. Perché era un uomo buono e dalle larghe vedute, sapeva che oramai era anacronistico impedire ai picciotti di sfidare la curiosità e i falsi e ideologici tabù, così preparava la donnine con corsi intensivi e poi le metteva una specie di cintura di castità fatta di rosari intrecciati. Le donne se la sfilavano senza guastare manco una pallina e se la rimettevano. Sono quelle cose che solo loro sanno fare, come sfilarsi e rinfilarsi un reggiseno dalla manica di una t-shirt attillata. E Noi ci avevamo messo una vita solo per capire come sganciare i reggitette...


Non lo so se le cose andarono proprio così, l'oblio mi lecca impietoso i ricordi. E troppo spesso la fantasia cicaleggia sorniona colorando i giorni troppo uguali dell'adolescenza che ora liquidiamo con un sorriso.

20/03/05

come eravamo (la terra del sogno, 1998)

 La seguiva da troppo, troppo tempo per non riconoscerla subito.


La strada era la sua vita, ogni fossa era una delle tante cazzate che aveva frettolosamente ricoperto con la pala dell'oblio.

Il suo scooter tiene testa all'ostile salita, uno sguardo in alto dove le soffici nuvole affondano nell'azzurro.

Accelera e pensa. Rimastica quelle due parole, lo fa in tutti i momenti della sua piatta giornata: CARPE DIEM. Facile dirlo! Strappare anche un solo giorno al tempo che fugge, che cazzata! Lui voleva con tutte le sue forze tirare a sé l'attimo fuggente, non c'era mai riuscito.

Troppo calmo, quel silenzio di ghiaccio lo infastidisce.

Un cancello cigola, nessuno che ci metta un po' d'olio! Terra, terra desolata. Perché continua in questo squallido gioco masochista, smuovere un dolore che sta per sopirsi! La sua giacca di pelle gli pesa sulle spalle, la lascia cadere su una vecchia lapide avvolta dalla gramigna.

In un'altra vita ha vissuto o vivrà quest'incubo, si chinerà, strapperà la gramigna, lo farà per un'intera notte. Inutile, ricrescerà sempre. Non si può sradicare un vecchio dolore.

L'erba bagnata si piega sotto il peso dei suoi stivali, si sente piegare anche lui.

- Tutti dormono sulla collina - fischietta.

Quella canzone. La sua canzone.


Una canzone che ancora deve essere scritta, il suo futuro, quei due occhi. I suoi occhi.

La sua lapide, il suo nome. Non quello della sua amata, il suo. Muore vivendo?

Non sa più quello che dice, vorrebbe lasciarsi sprofondare in quella fossa. Inghiottire terra desolata e dimenticare, bere rugiada e dimenticare. DIMENTICARE I SUOI OCCHI.

Scava, le sue dita urlano ma lui scava. Scava, gratta qualcosa di duro. La bara, martella sulle cerniere, una pietra scheggia il coperchio. È aperta.

Non è lei, non è lui. Soqquadro, una parola che non riesce a digerire.

Alla rinfusa cerca in quel disordine. Tutto quello che ha messo via.

Un po' di rumore, foto che hanno preso polvere, ricordi e rimpianti… una vecchia canzone.

Noi moriamo costantemente, giorno dopo giorno.

Questo è il segreto dell'immortalità, morire e ricominciare.

E lì sotto ci sono anche tutte le pelli che ha mutato, tutti gli sguardi che non ha saputo cogliere, le parole appena sussurrate… gli attimi che sono fuggiti via, per sempre.

"ho eletto l'amore a mio rifugio"

 finisco "Lamento di Portnoy" e torno.

14/03/05

diari tristerrimi (l'ultimo articolo sul mondo dei blog)

Di tutto un blog

di Gianluca Nicoletti



(ttL n. 1454, 12/3/2005)



LA blogosfera italiana si è costruita come un universo piramidale non scalfibile ed elitario. Altro che libertà espressiva e letteratura spontanea. A dettar legge sono qualche decina di fighetti, alcuni ben supportati e vellicati da amici con addentellati old mediatici e quindi ogni loro ruttino diventa sublime espressione di novità, porto ad esempio il partorir neologismi del calibro di "intelluguale" che in un'agape "galattica" è stata sancita come civettuola definizione dell'intellettuale che operi in rete.

Ohimè, in nome dell'intelleguaglianza stiamo ancora all'idolatria del nuovo che è tale perché scribacchiato in rete. Consunti simposi sul significato della scrittura on line appesantiscono i server di bittume superfluo, ipermetropiche compilazioni secernono spossatezza nel loro essere illimitate nello spazio disponibile. Avere limiti tipografici nello scrivere significa allenarsi a comprimere concetti che stimolino all'illimitatezza. Il blog invece si espande verticalmente verso il basso e tende all'indefinito. Un anellide che si riproduce per partenogenesi ogni qualvolta qualcuno ne innesti la testa nel content manager system.

Comunque si sa vien da chiedersi perché alle nostre latitudini essere blogger sia assimilato all'appartenenza ad una compagnia di giro che si rafforza di dibattito in dibattito, ma a volte si assottiglia se qualcuno ce la fa e passa dal codice binario alla vecchia carta inchiostrata. Anche recentemente la supremazia del solito zoccolo duro è stata sancita dal Focus della "Casaleggio Associati" che disegna una blogosfera italiana su cento astri splendenti (sempre gli stessi) che autoalimentano il loro olimpo linkandosi e rilinkandosi a vicenda. Citandosi e track-backandosi moltiplicano le loro perle di saggezza, arguzia e antagonismo tarocco nell'ipercubo multimediale, ma se non ne parla qualche giornalone per eccellenza si ha l'impressione di aver perso tempo.

Il focus però ne vede solo cento. I cento che sopravvivono nei blog roll dei loro adepti in perenne sindrome di Stendhal. Vengono evidenziati quelli più interconnessi tra loro e quindi più visibili perché più citati dagli altri, una sorta di famiglia Auditel cyberfighetta che esprimeun parere omogeneo rassicurante e conservatore. Il suk dei sottoblog, i paria che si devono accontentare di plebee con-directory? Non appaiono nella ricerca. Quelli sono i reietti che nascono e muoiono senza nemmeno un righino da parte di chi "tiene i contatti" con i multiple name, gli anonimus e gli hacker pentiti?

Per loro il destino delle piccole emittenti di fronte al monopolio dei grandi network ci sono, ma senza diritto di parola. Non prendiamoci in giro, anche nell'inframondo resta sempre in piedi lo stesso meccanismo che vale nella vita reale. Non ci scandalizza, ma se essere blogger significa avere tanti link e la spalletta dei preferiti compiacente ai soliti noti, si deduce che anche questo umile esercizio non è per tutti. Si dirà dove è la sorpresa? Nessuna, solo che ci si immaginava qualcosa di più estremo e rivoluzionario, un sistema che avrebbe potuto abbattere le limitazioni spazio temporali, i condizionamenti sociali e culturali insomma la rete poteva essere in questo caso qualcosa di più che un limbo artificiale in attesa di un editore vero.

Escono illustri antologie dei blogger italiani, costoro si fanno vedere anche in giro, molti sono riconoscibili per robusti "sconfinamenti" nella parte oscura della forza e quindi dove è la novità? Forse nelmeccanismo che permette una facile ed immediata pubblicazione, editor intuitivi e alla portata di tutti. Perfetto e bellissimo, ma ancora ci chiediamo cosa

c'è di nuovo? Il link equivale al riconoscimento di chi è del giro, i premietti e i bannerini che certificano i premietti, le intervistine e le scuolette di scrittura sul mestiere di scrivere il web... Insomma il maestrinismo di quelle/i che al liceo prendevano bei voti e stavano ai primi banchi si è impossessato di ogni sregolatezza nella blogosfera.

Se vogliamo cogliere un'altra costante che aleggia sottile in tutto un'accezione saturnina più radicale.

Si guardi il calendario delle bloggers femmine pubblicato on line quest'anno, no quasi nessuna sorride. Per lo più sono assorte, evanescenti, vestite di spleen anche laddove siano spogliate.

Perché mai le signorine palliducce che trasognano fotarelle da risvolto di copertina blasonata non realizzano che tra loro e le veline aspiranti aspiratrici cambia solo il punto di vista. Loro son quelle che si sentono belle dentro, le altre dentro e fuori non fa differenza, per tutte loro l'importante è esser viste. Le une sventoleggiano curvilinee beltà rese ancor più vere dal sintetico fotoritocco le altre affidano al permalink l'eternità del loro diario e denudano anime lacerate in luogo di nature lacerate (... che pur resero celeberrima la melassa di Melissa).

Il blog tipo, se evitiamo quelli di personaggi già noti e fisiologicamente euforici da successo, è un diario tristerrimo dove il logorio del quotidiano distrugge irrimediabilmente la voglia di vivere. Tra lo/la/l? scrivente e il resto del mondo esiste una patina limacciosa che rende catarattico anche il punto di vista di un adolescente. Ho bei ricordi di anni di bloggazione gioiosa, chissà perché oggi mi gira così? Sarà forse un problema solo mio, ma aggiungere all'html editor un tool che secerna Prozac potrebbe aiutare non poco.

Sarà per il fatto che mi sento annichilito dal pullular garrulo di scintillante facondia che sprizza da ogni blog in cui mi capita di zampettare neghittoso alla ricerca di sochè da trasformare in parole piombate.

Molti lo fanno per la sorpresa di chi vive ignorando la rete, e per sua fortuna vive anche benino. Il blogger è anche materia prima di fabbrica editoriale, libri fatti di chat, di sms, e pure di blog.

Facile riempire spazio con veloce cut paste della risulta sollevata dallo tzunami grafomane dei blogger conosciuti. Cannibalizzati per la gloria di "nuovi Cannibali?". Forse è terapeutico, meglio che rodersi il fegato è far la cronachina degli amichetti che spazzolan librerie dal parquet insalivato. E perché no? Qualche personale letturina da consigliare tanto per darmi un tono, quel che vedo alla mattina sfoglicchiando quotidiani, cito i citati, linko i premiati, lecco il fighetto. C'è poi lo sguardo in tv.

Scanalo qua e là, magari dico cose cattive su Sanremo, sfotto le conduttrici, tanto per darmi un tono con aria superiore compatisco tutti.

Mi spreco in metafore. Se avanza spazio un po' di sguardo interiore e tracce minimali di vita uggiosa.

Già allora si che sarei anch'io un vero blogger, spipparolandomi ripiegato su me stesso darei senso alla meraviglia dei bei compitini quotidiani e dei sorridenti battimani.

Già ma sono un cialtrone, scrivo solo per denaro e su commissione.

10/03/05

la mela bucata (4 e 1/2)

  Ci sentivamo come i topazzi che passano le giornate a intingere le code pelose nell'acqua tirchia e fitusa del fiume Oreto. L'attesa era finalmente finita. C'erano due strade, entrambe rischiose. O giocarsi la vita sul cornicione o superare l'ostacolo addentrandoci nel dedalo di viuzze che si snodava sotto la pancia dell'edificio. Nessuno di noi si sentiva di sfidare la legge di gravità, solo Batman e l'uomo ragno si muovevano lievi lievi sui tetti delle rispettive città. Noi preferivamo strisciare. Lo facevamo da una vita.

Sotto il pavimento della cucina c'era una botola che portava dritta in cantina, decidemmo di servircene, dalla cantina poi avremmo risalito il falso pilastro in cui correvano i tubi della fognatura. Non eravamo in America, non c'erano le condutture dell'aria condizionata.



A quell'ora Francesco Paolo aveva già consumato, almeno ci speravamo. Altrimenti ci finiva come nel vecchio proverbio che le nostre madri ci avevano spillato in testa: spesso chi va per fottere ci resta fottuto.

Rivolgemmo un'ultima occhiata a Sant'Ignazio e alla sua ostia gigante e ci calammo nel budello dove si schiantavano tutte le nostre speranze.

Io guidavo il gruppo e coccolavo i miei sogni d'amore. Da sempre mi dondolavo l'idea di regalare l'ingombrante verginità a una ragazza con gli occhi turchini, stavo per farcela. Bruciavo di passione, mi spingevo in quel buio, sempre più dentro al culo del peccato. Se ci avessero scoperto ci avrebbero rinchiuso nella cripta dei cappuccini a Palermo, insieme alla bambina mummificata e alla sua bambola. Sembravamo i Beati Paoli, avvolti nei sacchi meri dell'immondizia per evitare di macchiarci ed impuzzarci i vestiti. Ciccio aveva gli occhi fosforescenti a forza di stare incollato alla playstation, lo usavo come copilota, bastava tenere le braccia alzate e carezzare il tubo della fogna all'incontrario, sino a ciascun cesso. Saremmo sbucati dritti dritti nel cesso delle ragazze. Scavalcando così le telecamere e le bobine di filo spinato strappa-coglioni che Padre Barbone aveva messo in giro per i corridoi.

Continuavamo a salire, uno sull'altro, il falso pilastro era bello largo, di sicuro i vecchi proprietari lo usavano per nasconderci periodicamente qualche parente che aveva delle grane con gli sbirri. Ero stato io a scoprire quel passaggio segreto, cercavo un posto dove ammucciare i giornaletti porno e m'ero imbattuto nella nostra salvezza.

I tubi avevano dei rampini che li tenevano attaccati al muro, li usammo come una scala a pioli e continuammo la nostra salita. Passo dopo passo s'avvicinava la nostra meta.

- Ciccio, passami il mazzuolo. Se ho fatto bene i conti siamo sotto i cessi delle picciridde. Basta sganguliare questo falso telaio e passiamo dalla merda alla fica.



(continua...)

08/03/05

la mela bucata (4)

Restammo tutti alluccuti: cercavamo una fessura per farci strada e Padre Barbone ci aveva aperto nientemeno che un traforo. Non potevamo fallire, per quagliare finalmente con le nostre donzellette dovevamo però far sparire il sergente di ferro, quella Marcella che s'era piazzata nei sogni erotici di Francesco Paolo.

Ci riunimmo nei cessi del terzo piano, lì Francesco Paolo faceva le spugnature a Padre Cosimo che, oltre a puzzare di piscia di tirannosauro, era pure sordo come un'intera fabbrica di campane. Tra una spugnatura e l'altra affilammo il nostro piano. Ciccio Spastico aveva saputo dal prete portinaio che Marcella aveva un piccolo vizietto, le piaceva mettersi una vecchia tonaca come camicia da notte. Il prete portinaio era un vecchio porco, secondo lui quella con le tette grosse aveva qualche fregola particolare per i parrini e la sublimava così, andando a letto con la vecchia tonaca e nient'altro.



Francesco Paolo era sbiellato, se Marcella voleva sfogarsi con un parrino, lui avrebbe preso volentieri più voti della vecchia Democrazia Cristiana. Tutto avrebbe fatto per le promesse calde e bagnate che Marcella teneva incastrate in quell'impeccabile condotta.

Mancavano poche ore e finalmente avremmo consumato quello per cui c'eravamo allenati sin dalla nostra prima erezione.

Io aveva messo gli occhi su Carmelina che era bella, con le guance rosa e gli occhialetti sciddicati sul naso, pareva quella gran gnocca di Nicole Kidman in Eyes Wide Shut, coi capelli attaccati e gli occhialetti tondi.

Avevamo pagato e pregato, ci sentivamo come dovevano sentirsi i crociati prima di maciullare i mori del feroce Saladino. Dio lo voleva. Eravamo eccitati e blasfemi, un coktail micidiale. Padre Barbone doveva aver odorato qualcosa, e non erano le puzze di Padre Cosimo.

Per calmarci ci fece vedere i Simpson che poi bilanciò con dodici puntate di "Settimo Cielo". Ci portò pure una vascazza di gelato che pareva spacchio di toro, e per giunta lo sganciava in stitiche palline sopra dei coni che sapevano di pergamena. Non contento di questo, ogni tre coni si grattava le palle beate con la paletta del gelato. Vomitammo tutti, pure Marcella che trovò nelle sue due palline al limone quattro pelazzi di minchia e due cimici.



Le orazioni sembrarono liberatorie, cantammo i salmi con cuore lieto e con i piselli drizzati verso il cielo, crogiolandoci nel verde dei nostri sogni di sesso sfrenato e senza implicazioni. Nessuno protestò quando Padre Barbone ci spedì a letto. Erano le nove di sera.



Francesco Paolo s'attardò nella pulizia della sala mensa, strisciava quel mocio vileda con sentimento, sembrava quasi ballarci: una versione brufolosa e arrapata della Cenerentola di Walt Disney. Il mocio leccava il pavimento e i minuti passavano, il grande orologio della parete con Sant'Ingnazio che cavalcava un'ostia gigante segava la nostra attesa, sentivamo ogni minuto scivolarci addosso, liscio, verso la punta dolorante delle nostre mazze.

Nessuno riusciva a concentrarsi, Ciccio aveva portato il calendario di Alessia Marcuzzi e lo sfogliava freneticamente. Sulle tette di febbraio si bloccò pure lui. Mancavano solo due ore. Due ore e avremmo perso tutti la verginità. Io m'immaginavo un urlo liberatorio collettivo, in perfetta sincronia avremmo attraversato ciascuno l'imene della propria picciridda. Teoricamente sapevamo tutto, la pratica era un'avventura che non ci spaventava. Ogni pomeriggio della nostra vita l'avevamo passato sognando quel momento sulla tavolozza chiusa del cesso, con le mani vogliose a leggere tette con le dita come se fossero state fotografate in braille.

Maceravamo nel nostro sugo ormonale. L'attesa era quasi finita, Francesco Paolo si ritrovò un mozzicone di mocio in mano, aveva continuato a stricare il pavimento sempre più veloce. Le lumache tiravano fuori le corna a quell'ora, noi facevamo lo stesso. Se c'era qualche dubbio, l'esperienza del gelato lo aveva disintegrato. Avevamo sopportato tutto. Una fighetta soffice soffice valeva tanto? Sì, ci rispondemmo mentalmente in coro.



Marcella dormiva già, nuda dentro la tonaca. Francesco Paolo lasciò cadere il mocio e andò a fare quello per cui era nato.



(continua)

 

06/03/05

la mela bucata (3)

E così siamo partiti con dieci scatole di preservativi a testa, male che vada li lanceremo pieni d'acqua su Francesco Paolo se ci tira la sola.
Perché sta cosa del viaggio della speranza incominciava a puzzare di marcio, il volpone era pimpante, con 240 euro in più in saccoccia aveva già messo gli occhi e una decina di spunti per seghe su Marcella, la stratettuta responsabile del ritiro spirituale. Era lei che doveva tenere separati noi maschi dalle sue bambine. Lei e le sue tette ce la mettevano tutta, tra noi e le fanciulle aveva messo pure due piani zeppi di gesuiti, il ritiro si svolgeva nella bella villa che un signorotto aveva lasciato in eredità ai gesuiti. 6 piani in stile liberty.

Francesco Paolo non l'avevamo mai visto così servizievole ed educato, s'era pure pettinato i peli del culo per fare colpo su Marcella che, da grande e consumata puttanona, agitava il suo potenziale erotico per far sfacchinare il poveraccio. Non sapeva più che fare per sedurla, aveva già speso più della metà del capitale nello spaccio della canonica dove il prete portinaio arrotondava le entrate vendendoci magnum e cuccioloni a prezzi astronomici. L'astinenza dai dolci era compresa nella settimana di silenzio e preghiera, quindi le trasgressioni dovevamo pagarle a caro prezzo.

Noi avevamo adocchiato le pupe giuste per noi, Ciccio Spastico aveva puntato lo sfilatino su Maria Eleonora che portava un vestitino fiorato semitrasparente che dopo una giornata di lavoro e preghiere le si attaccava addosso mettendo in risalto il suo fisico in piena fioritura, ogni volta che il vento le alzava di qualche millimetro l'orlo del vestito, Ciccio aveva un attacco, finiva a terra a incularsi i lombrichi per stemperare l'eccitazione. Il massimo della sua vita sessuale sino ad allora era stato sognarsi Lara Croft con le zizze appuntite che, a colpi di pistola, gli faceva saltare via i vestiti prima di saltargli addosso.

Luigi Sciddicato aveva scoperto che con la poesia riusciva a rincitrullire Luisetta che era piccola e pelosa, a ogni endecasillabo Luisetta si slacciava un bottoncino della maglietta, consapevole che passata una certa età i suoi peli sarebbero stati un ostacolo blocca-approcci.
E poi scoprimmo che almeno su una cosa Francesco Paolo non aveva mentito: pure le femmine hanno gli istinti sessuali. Eravamo sconvolti: anche loro erano un ammasso in ebollizione di ormoni e curiosità.
Proprio per questo Padre Barbone passava la notte a passeggiare per i corridoi, con gli occhi che ci spiavano nel buio insivato dei corridoi, pareva una civetta, passeggiava con le gambe magre magre arraspandosi la minchia e provocando un rumore che ricordava quando Vincenzo il Salumaio infilava i pezzi di cacio nella grattuggia elettrica.

Passavano così le giornate, pregando, elemosinando stentate pomiciatine da consumare quando Padre Barbone andava a cagare dopo il pranzo e la notte c'era l'inevitabile segone collettivo per stemperare l'eccitazione accumulata nella giornata.
Padre Barbone già il secondo giorno aveva commesso il suo primo errore. Colpito da come Francesco Paolo lavorava senza mai lamentarsi, sottoponendosi ai lavori più schifosi, tra cui spiccavano le spugnature a Padre Cosimo che puzzava di vecchie scoregge ed era peggio dei cani, quando lo bagnavi puzzava ancora di più. Padre Barbone fu tanto sorpreso che senza pensarci si grattò per bene e nominò Francesco Paolo nostro responsabile.

(Continua...)

 

la mela bucata (2)

        Francesco Paolo aveva organizzato tutta la nostra estate, in cambio di venti euro a testa ci avrebbe portato lì dove le fiche abbondavano vogliose. Lui era cresciuto a colpi di cinghia e bestemmie, suo padre gli aveva raddrizzato la schiena e i sogni e ora lui spiccava nel mucchio. Si faceva strada con intrallazzi e piccole estorsioni, gli piaceva cucire ragnatele di dissapori che servivano a ristabilire il suo ruolo di capo. Noi che manco avevamo il coraggio di andare all'edicola a comprare il calendario di Max lo veneravamo.
        Era lucido e pratico nelle sue decisioni: forse un pò squadrato ma con tutti quei colpi di cinghia e quei segoni non potevamo aspettarci di meglio. Noi eravamo una dozzina di sbarbatelli, così timidi da nasconderci dietro i brufolazzi che ci sfregiavano la faccia. Avevamo la voce bianchiccia, appena ingrigita da qualche incontrollabile tono basso. Per capirci, sembravamo i cugini di campagna con i pantaloni ancora più stretti.
        Tutto l'anno avevamo risparmiato per riuscire a frequentare il prestigioso tour erotico che Francesco Paolo in un impeto di creatività aveva intitolato "La Mela Bucata". Ciccio Spastico gli aveva chiesto delucidazioni sul nome. Ciccio era in grado di stare attaccato alla playstation per tredici giorni di fila, rimandando l'inevitabile evacuazione sino a diventare dello stesso colore della Preside che soffriva di una stitichezza incrosta-budella da quando aveva trovato suo marito che stantuffava una bambola gonfiabile ordinata sul sito della MariuzzAngel Sucking Cock Enterprise.
Francesco Paolo gli aveva risposto: - Hai presente la favola di Adamo ed Eva, il serpente, la mela e tutto il resto? Bene, io la vedo così: quella gran troiona di Eva stufa di quel paradiso voleva impiccantire la situazione con uno spettacolino hard, aveva chiesto aiuto al biscione che le aveva consigliato di usare la mela, Eva doveva alzarsi sulla punta dei piedi per acchiappare la melaccia che penzolava tranquilla dall'albero. E, nel farlo, doveva far vedere a quel gonzo d'Adamo uno sculettamento da manuale. La mela bucata si riferisce all'inevitabile conclusione della prima pornonovella della nostra cultura. Noi faremo pure così, bucheremo più mele possibili. Parola di Francesco Paolo, il leggendario Sfardamutande. O ci riesco o vi restituisco tutti i picciuli. Lo giuro su tua madre.

    A Ciccio Spastico ciondolava la testa, si figurava tutta la faccenda secondo la rigida logica dei videogiochi, uno sparatutto in 3D, lui aveva solo la sua mazza e una missione: soddisfare sino all'estasi più donne possibili. Avrebbe bucato almeno due dozzine di mele.

        Francesco Paolo aveva avuto un'idea geniale: accodarsi al viaggio dell'oratorio. Con la sua parlantina spaccacoglioni era andato da Padre Barbone, un gesuita vecchio, sputacchiante e con le piattole. Al parrino s'era presentato come un peccatore bisognoso di sostegno spirituale, una pecorella sperduta che aveva taciuto per troppo tempo la sua giovane coscienza per dedicarsi con ardore a migliaia di atti impuri. Padre Barbone si grattò la minchia in segno di ammirazione, riversò un doblone di catarro nella sputacchiera e dette il suo assenso: Francesco Paolo e quelle altre dodici anime perdute potevano seguire la settimana di silenzio e preghiera.
Il vero obiettivo di noi tredici peccatori erano le tette delle quindici giovinette del dopocomunione, era una verità universalmente riconosciuta, le baciapile erano delle grandissime troione. E avevano dei capezzolini che frizzavano contro le magliettine che il sudore le appiccicava alla pelle, ne sentivamo l'odore a metri e metri di distanza.

(continua...)

 

la mela bucata

    L'estate lumacava scodinzolandoci sui banchi e la panza dello Zio Filippo emergeva viscida e lasciva, tra i pelazzi della zona ombellicale facevano mostra di sé residui antecedenti alla morte di Taninu u panellaru. Si capiva che ci sarebbe successo qualcosa in quei tre mesi di libertà che albeggiavano appena. Il professore manco ci provò a tenerci ancorati ai banchi, si stette tutta la mattina a leggersi il giornaletto porno che aveva infilato tra le pagine del Manifesto.
    La campanella si era allenata sin da maggio, giorno dopo giorno suonava sempre più presto, un minuto alla volta aveva guadagnato mezz'ora nel personalissimo fuso orario dello zio Filippo. Alle 12 e 35 il trillo rimbalzò sui banchi e sulle lavagne in cui tutti avevano scritto i loro buoni propositi, in cui campeggiava l'impegno comune di infilare lo sfilatino in più fanciulle possibili, era quello uno dei pochi pregi nel frequentare l'istituto tecnico, essendo tutti maschi uno poteva tranquillamente puzzare, scoreggiare e fuggire dalla doccia quotidiana che quelli del Liceo dovevano farsi per convivere accanto ai brufoli delle verginelle. Noi potevamo saltare tutta la trafila ormonale e piazzarci subito in pole position con le donnine appena sbocciate.
    Eravamo rozzi e bisognosi di cure e le donne si sa, aspirano ad avere un cucciolotto da crescere e svezzare. Se sei bello pettinato e profumato non attiri la pietà femminile, basta trascurare per qualche mese le più elementari norme igieniche per trovare un plotone di infermierine pronte a metterti in tiro.
O almeno così ci aveva detto Francesco Paolo rincoglionendoci ricreazione dopo ricreazione.
Noi ci affidavamo a lui che si vantava di aver visto più fiche di tutto l'ordine mondiale dei ginecologi. Qualcuno malignava che poteva essere pur vero se si faceva rientrare nel computo tutte le fiche slabbrate stampate su carta su cui Francesco Paolo aveva perso la vista. Lui non si curava delle malelingue, si pettinava le sopracciglia con una spazzola d'acciaio fregata all'officina dello zio e si smerigliava qualche brufolo sparandosi un segone tra le pagine del manuale di informatica.
continua 

05/03/05

affidarsi a una storia

Dicono che noi siamo quello che leggiamo e, specularmente, noi leggiamo quello che siamo.

Io sono gli incubi nel Maine di Stephen King, sono il Lettore delle notti d'inverno di Calvino, sono Odisseo e il Grande Inquisitore sconfitto dal bacio silente del Risorto. Ho aspettato nelle notti bianche il mio singolo attimo di beatitudine sognando il vecchio che sognava i leoni. Ho aspettato l'arrivo dei Tartari e dei Barbari e ora aspetto anch'io una parola ventura sotto la stella della fontana con Lolita e l'aviatore e il serpente giallo. Sono stato tutte quelle pagine. Ho scolato quelle parole, ne ho succhiato linfa e midollo e poi ho scritto. Non l'ho fatto per scaricare quello che faticavo a trattenere. L'ho fatto perché scrivere distilla un liquore vivo, vero e vitale. Non possono essere solo belle bugie bucate. Vita e arte si cercano, l'invidia le ha tagliate in due come le sogliole e poi ci hanno detto che l'arte non ha figli. La statua di Pigmalione resta una bellezza di marmo e il silenzio di neve tenta di affogare i nostri dicotomici furori.
Siamo lacerati e svacantati. Abbiamo creduto che tutte le vite si assomiglino in virtù di una semplice constatazione: sono tutte raccontabili, sono tutte storie.
Poi qualcosa accade, lo nota benissimo Antonio Spadaro nell'editoriale bombacartaceo di questo mese:
«Affidarsi a una persona significa, in fin dei conti, affidarsi a una storia, che diventa la nostra. Fidarsi di una persona significa credere in una storia, buttarcisi dentro, riconoscerla come significativa, "affidabile", degna di fiducia. Non è facile discernere quelle che lo sono veramente e quelle che sono sono abbagli, infatuazioni.

Ma questo è anche il ruolo della critica letteraria. Davanti alle storie e alle esperienze che il genio dell’arte ci propone sono possibili due atteggiamenti: o ci si crede (e allora esse si dispiegano nella loro potenza rappresentativa ed evocativa) o non ci si crede (e allora la pagina e la vita restano mute e dure). La visione dell’artista, il mondo da lui ri-costruito in maniera più o meno verosimile (e ciò poco importa) richiede una fiducia di base. Si avvia così un gioco di interpretazioni e significati, ma anche di giudizi e scelte. La critica non è un puro discettare di qualità stilistiche o di generi, perchè ha il compito di scegliere quali storie siano «degne di fede», e quali siano gli effetti di questo affidamento.

Leggere (ma anche vedere un film) significa dunque entrare con «fede» in un mondo diverso rispetto al nostro per comprendere a fondo il senso proprio della nostra vita. Non avere "fede poetica" significherebbe, alla fine, narcotizzare il reale, spegnerlo, renderlo piatto, superficiale, scarno, secco.

Una vita senza storie e senza fede nelle storie sarebbe ben povera. Lo sappiamo bene: più una persona è ricca interiormente, più ha storie significative da raccontare e più è disponibile ad ascoltarne alla ricerca di "storie affidabili".»
 

04/03/05

Il silenzio degli animali

Sono l'unico iscritto alla specialistica in filosofia estetica dell'università di Palermo. Rettifico, c'è un'altra iscritta che però viene dal DAMS e deve recuperare le materie filosofiche nel quotidiano giochetto di crediti e/o debiti che chiamano università.

Tutti gli altri, i pochi, pochissimi laureati del corso in filosofia della conoscenza e della comunicazione hanno preferito seguire altre strade. Non appagati nell'aver scelto di laurearsi con variopinte riflessioni sul linguaggio degli animali, raddoppiano la dose e aspirano a specializzarsi. Provo ad arrischiarmi in un'ipotesi azzardata: vuoi vedere che, vista la sete di sacro che la frangia estremista del cattolicesimo ci propina quotidianamente, i miei (ex) colleghi vogliono fare i novelli san francesco e mettersi a discettare con le fiere?

Vabbè, il mito di Orfeo mi è sempre piaciuto, pizzica e spizzica la lira il bel greco e le bestie feroci si piegano al suo volere, con le note rincoglionisce pure il Signore degli inferi e la sua venefica consorte.

Però non possiamo, se ci autoproclamiamo amici della Verità, non rabbrividire di fronte alla tragica prospettiva che vede la filosofia piegarsi alla scientificità. I nomi delle materie sono una spia preoccupante: cambiano quotidianamente. Devono suonare sempre più tecnici. Ah, quanto sono lontani i tempi in cui il giovane Törless sognava Kant. 

03/03/05

ah, la miserabile realtà

CAMILLE: Ve lo dico io, se non trovano tutto riprodotto in copie rabberciate, disperso in teatri, concerti e mostre d'arte, non hanno né occhi per vedere, né orecchie per sentire. Se uno si intaglia una marionetta da cui si vede pendere il filo che la tira e le cui giunture a ogni passo scricchiolano in versi giambici di cinque piedi, che carattere, che coerenza! Se uno prende un sentimentuccio, una sentenza, un concetto, e gli mette giacca e calzoni, gli fa mani e piedi, gli pittura la faccia e lascia che quell'affare si dimeni per tre atti finchè da ultimo o si sposa o si spara - un ideale! Se uno strimpella un'aria d'opera che riproduce gli alti e bassi dell'animo umano come una pipa di terracotta piena d'acqua e fa il verso all'usignolo - ah, l'arte!
Spostate la gente dal teatro alla strada: ah, la miserabile realtà!
Essi dimenticano il loro Signore per i suoi cattivi copisti. Della creazione che intorno e dentro di loro si rigenera ad ogni istante, ardente, spumeggiante e luminosa, non sentono né vedono nulla. Vanno a teatro, leggono poesie e romanzi, ne imitano le smorfie con le loro facce, e delle creature di Dio dicono, come sono banali!
I Greci sapevano quel che dicevano quando raccontavano che la statua di Pigmalione si era animata ma non aveva avuto figli.
DANTON: E gli artisti trattano la natura come David, il quale in settembre disegnava a sangue freddo gli assassinati mentre venivano buttati dalla prigione alla strada, e diceva: colgo gli ultimi sussulti di vita in questi scellerati. (Danton viene chiamato fuori.)
CAMILLE: Che mi dici, Lucile?
LUCILE: Niente, mi piace tanto vederti parlare.
CAMILLE: Mi senti anche?
LUCILE: Ma certo!
CAMILLE: Ho ragione? Hai capito che cosa ho detto?
LUCILE: No, veramente no. (Rientra Danton.)

Georg Büchner, Opere, Mondadori, Milano 1999, p. 40 

02/03/05

metafora, memoria, mistero

L'amore era qualcosa di completamente diverso. Non era roba per gente adulta, e tanto meno per i suoi genitori. Star seduti la sera presso la finestra aperta e sentirsi soli, diversi dai grandi, incompresi ad ogni risata e ad ogni sguardo ironico, non potere spiegare ad anima viva quello che si sente di essere, e struggersi di trovar qualcuno che capisca... questo è l'amore! Ma per questo bisogna essere giovani e soli. (p. 38, edizioni Einaudi Tascabili)

***

... quel certo ricordo plastico di una persona amata, non soltanto della memoria ma fisico, che parla a tutti i sensi, così che non si può fare nulla senza sentirsi al fianco l'altra persona silente e invisibile. (p. 7, edizioni Einaudi Tascabili)

Robert Musil, I turbamenti del giovane Törless.




Gli impegni della laurea specialistica mi tengono lontano dalla tastiera, aggiungeteci pure la necessaria disintossicazione derivata dall'aver danzato su quest'alfabeto di plastica sino alla notte prima della consegna della tesi. Già, ho preso pure io il titoletto e manco me ne sono accorto. Perché ci sono cose ben più importanti. Sino a quando, esame dopo esame, devi riempire le righe del libretto universitario vedi come obiettivo finale il momento in cui, incravattato, stringerai la mano del Presidente della commissione che ti dichiarerà dottore. Poi ci arrivi e, davvero, neanche te ne accorgi. Rapido e indolore, in quindici minuti ho dovuto comprimere tutti i libri che avevo letto su Paul Celan. Ce l'ho messa tutta, mi sono toccato il naso per trecentosettantasei volte e ci ho infilato la cecità selettiva, le baggianate di George Steiner (è necessario, come sempre, il parricidio dei nostri grandi maestri per spiccare il volo) e un vagone di speranza.

Una bella esperienza, la poesia è per Paul Celan tendenzialmente un messaggio che va in cerca di un Altro, a quell'altro tende il fare poetico. Io il mio Altro l'ho trovato. Così, per caso, tra gli scaffali della Feltrinelli di via Maqueda. Ero lì, in mezzo ai testi di filosofia, contento nel vedere che quella gran testa brillante di Diego Fusaro (il padre di www.filosofico.net) aveva curato ben due libri della serie filosofica della Bompiani. Ero lì, beato, nel paradiso di carta, a pochi metri dalla gigantografia di Bukowski che sbevazza con la puttanona. C'era la mia valigia di pelle a tenermi compagnia e mi sento chiamare. Era la fidanzata di mio cugino, il mitico Piero che i dicotomici lettori conoscono bene. Non era sola. Accanto a lei c'era il mio futuro.
 
Fu un incontro di bella letteratura, io stringevo in mano Philiph Roth e lei l'Aleph di Borges.
Dopo una lunga, lunghissima meditazione durata si e no meno della dissolvenza in nero che mettono tra una scena e l'altra, avevamo già reciprocamente deciso. Mi piace pensare che qualcuno l'aveva già scritta quella scena, semplicemente perché era tutto perfetto. Da sempre mi gingillavo nell'idea che avrei incontrato la donna della mia vita in una libreria, magari esageravo coi dettagli, io con la barba e con la giacca di velluto - perché tutti i macchiafogli da grandi devono perpetuare i cliché - lei avrebbe avuto gli occhi azzurri, gli occhiali e una naturale eleganza. Doveva sapersi muovere tra i libri con disinvoltura, accarezzando le pagine e le copertine, evitando la pila dei titoli acchiappagonzi del tipo "tecniche di masturbazione tra batman e robin" o tutta la narrativa con la vaginite. Sarebbe stata una donna da einaudi o adelphi, tutt'al più da classici. Nella fantasia, la Donna (sfumata nell'indistinta metafisica delle idee maiuscole) avrebbe magari afferrato lo stesso libro che avevo in testa e nel cuore io.
Io, barbuto e disattento, le avrei chiesto scusa per l'involontario sovrapporsi delle nostre mani nell'atto sensualissimo di afferrare lo stesso identico volume, arroccato ben al di là dei best-seller.
Lei avrebbe sorriso, io avrei ricambiato il sorriso e avremmo fatto e rifatto l'amore sotto lo sguardo di Bukowski.

La memoria si confonde, realtà e fantasia accavallano le gambe. E io, semplicemente, mi ritrovo.
 

01/03/05

un nodo che dura più del suo legare

 Per anni ho schivato la mia sicilianità.

I primi racconti e scarabocchi parlavano del dottor Sgollek (il nome dei cereali al contrario) che era stato radiato dall'albo degli scienziati perché aveva cercato di costruirsi un figlio con pezzi di romanzi.
Avevo letto e riletto Frankenstein e i gialli di mia madre, mi sembrava logico che tutti i miei personaggi spuntassero sotto i tasti della lettera 22 con un cognome americano e finissero a schivar pallottole vaganti nei tuguri del bronx.

Poi l'epifania con Camilleri e Montalbano. Mi piaceva leggere di personaggi "russi di pilu e di pinsiero" e che "taliavano" gli orologi.
Cominciai a sentirmi monco. Avevo scritto con mezza testa e mezzo cuore lasciando l'eredità della mia terra triangolare fuori dalla pagina. Iniziai infilandoci parole siciliane che non riuscivo a rendere in italiano. Pruvulazzo. Cannavazzu, Filietto ru fangu, taliare e ritaliare... E poi ho continuato. Perché si scrive solo di ciò che si conosce. Ecco perché la stragrande maggioranza dei dicotomici personaggi ha 22 anni e il pisello. Mi viene naturale parlare del mio mondo. Scrivere mi serve a questo, ripeto: a salvare i miei kairoi, i miei eventi.


Bagheria è il mio sfondo ideale, prima o poi troverò un nome per una città che sia solo mia. Sarà lei, la piccola Bagheria trasfigurata. Come la Vigata di Montalbano o il villaggio di Macondo. Mia, solo mia. E ci sarà la vecchia strada fatta di curve e bestemmie e sgracchiate dei vecchi che fanno avanti e indietro sulla piazza principale. Ci sarà Pippo, l'edicolante che conosce i gusti letterari di tutti e riesce a far lievitare il conto dai 90 centesimi del quotidiano a più di 20 e rotti euro. Ci sarà il fruttivendolo che inneggia al ciavuru della cucuzza cantando i vecchi stornelli dei carrettieri... Oh bedda ca ti vitti allu culleggiu e mi facisti veniri u curaggiu, acchianu carricatu e scinnu leggiu...
E poi continua, cambiando ritmo, ripescando i canti di Rosa Balistreri: l'acciduzzu ri me cumpari senza pinne e senza ali si pusò supra a scagghiola, a testa rintra e l'ali ri fora...


Giusto 12 anni fa hanno cancellato Paolo Borsellino. Io avevo 10 anni e un solo ricordo. Le rare volte che ci arrischiavamo ad attardarci nella bella sera di Palermo, mia madre diceva a mio padre di accelerare. Era l'ora dell'implicito coprifuoco.
Perché qua è andata così, allo Stato assente si è preferito una rete di favori e nepotismi tra vecchie coppole e gerani.


Ho sempre pensato una cosa: nei negozietti di souvenir c'è sempre "a mafiusa" con le zizze di terracotta di fuori e la lupara sotto la sottana. A questa matrioska siciliana aggiungono dei cartelli con una certa filosofia di vita. "Il serpente che muzzicò mia suocera morì avvelenato", e poi il classico: "si tutti i curnuti purtassero un lampione in testa, minchia che illuminazione!".


Chissà perché io ho sempre meditato su quest'ultimo, trasponendolo: se ci fosse un lumino, un mozzicone di candela acceso in ogni luogo in cui hanno ammazzato qualcuno negli anni della grande guerra di mafia, minchia che illuminazione! Invece si è preferito rimuovere. La memoria pesa. Meglio ingoiare la pace del papavero e tirare avanti. Ci sarà sempre un nonno che insegnerà al nipote come si sbuccia un fico d'india senza spinarsi le mani, tanto basta.
E poi, semplicemente, ci sarà un 22enne che studia filosofia e si fa portare a passaggio dalla sua cagnolona:


Prima delle benefica arrifriscata nessuno s'arrischia a mettere fuori l'alluce, solo lui che si fa portare a passeggio dalla sua cagnolona. Gli scolano i sudori, le ascelle piangono ma lui continua, passo dopo passo con i bermuda inzuppati e i sandali appiccicosi. L'asfalto alita e all'orizzonte le auto vibrano nell'aria del pomeriggio con le case che sono chiuse a tenuta stagna, non deve uscire nemmeno un pò dell'aria scoreggiata dai condizionatori. Camus scriveva che basta poco per conoscere una città: "cercare come vi si lavora, come vi si ama e come vi si muore". A Bagheria le cose sono ancora più facili, si fa tutto allo stesso modo: con calma, senza premura. Si sa già che il ponte se lo terranno tra i progetti da snocciolare a ogni campagna elettorale, va così dai tempi di Federico II, quello sì che aveva capito tutto della Sicilia. La Scuola Siciliana era il migliore contributo che le tre punte dell'isola potessero regalare al mondo: dateci soltanto sole, mare e spunti per continuare a poetare.
Continua a camminare e suda, attaccato al guinzaglio, ripensa a quanto è bella Palermo la sera, tra i binari arrugginiti ad aspettare il treno che è ancora, per fortuna, lontano.
Le saracinesche sono tutte calate con i cartelli che ricordano che ad agosto si pratica l'orario unico, dalle 9 alle 13, senza eccezioni. Restano solo le macchinette dei tabaccai a sputare le assassine bianche e arancioni.
Il ragazzo cammina con i suoi dubbi arancioni in testa, livellando i marciapiedi.


Il Corso Principale lo porta sotto i salici di Piazza Garibaldi tra i bagheresi che ricordano degli americani le barrette di cioccolata e le camel, quelle buone, senza filtro in quell'estate del '43. Loro passano così i pomeriggi, seduti sui muretti grigi e sbrecciati delle aiuole comunali. Appoggiano le chiappe sui giornali passati o su pezzi di cartone, i più attrezzati si portano dietro un cuscino infilato in una busta della SMA. Parlano, ridono con in bocca dentiere che finiranno di pagare tra 4 anni. Arriva pure il reduce che si è perso le gambe su una mina inesplosa, non lo ammetterà mai ma inneggia ancora alla Buon'Anima e rimpiange la colonia estiva dove spediva i troppi figli che la moglie continuava a sfornare. Cammina il ragazzo, cammina dietro il cane, cammina attaccato al guinzaglio come se fosse un bambino che tiene la coda di un aquilone, qui si chiamano draghi volanti e si sono estinti, si vedono volare solo quelli dei cinesi nelle mattinate di vento lungo il bagnasciuga del Foro Umberto I nella bella Palermo. Nessun bambino se lo costruisce più facendo croci di bambù. Dicono che prima si passeggiasse sino alle prime ore dell'alba ora già alle 8 e mezza di sera nessuno più si arrischia a scendere in strada, sembra una città fantasma ma è un'impressione falsa come una banconota da tre euro. C'è troppo rispetto per i fantasmi e per le lumìe, questo è il vero motivo. I vivi dividono la città con i loro morti e lo fanno con equità: appena scende la notte tocca ai defunti passeggiare tra le ville del Settecento che tanto piacquero a Goethe. Sono morti tutti in una delle tante guerre di mafia, si sono beccati il loro colpo di livella e ora passeggiano vicino assassini e assassinati, nessun vivo si arrischia a uscire nell'ora dei morti, brucia ancora il ricordo di tutti quei colpi di beretta e quel gesto diventato troppo presto un'abitudine: al primo sparo toccava alla madre calare piano piano la serranda, accostare le tende e alzare il volume della radio e del televisore.


Cammina ancora il ragazzo, si passa un kleenex sulla fronte e pensa con quanta facilità si cambi bandiera sotto il sole di Sicilia, sì, ci si abitua a tutto qui, si cambia presto l'adesivo sull'auto a tempo d'elezioni come nell'URSS ci si spicciava a sostituire le facce sui muri a seconda delle decisioni del Politburo. Passeggia il ragazzo, passeggia sulla voglia di lavoro, sui posteggiatori abusivi che giurano che t'hanno taliato e ritaliato la macchina come se fosse "cosa loro".
I cani ci somigliano: dormono e mangiano senza pensare alla maledetta e amatissima Sicilia. Qui impari a sbucciare i fichi d'india a sei anni e subito dopo impari pure che devi accettare quello che il cielo ti regala, senza romperti la testa perché, si sa, domani andrà meglio. Lì quegli onorevoli cornuti si ricorderanno anche di noi e alle prossime elezioni - è cosa sicurissima - sale pure un mio cugino di quarto grado - è cosa arcisicura - mi sistemo pure io.
Te lo dicono e ci credono con la puzza di gerani che ci tiene compagnia e scaccia, dicono, gli scavagghi.


Cammina il ragazzo e pensa: "Sono venuti gli arabi e i normanni, gli svevi e gli aragonesi, i tedeschi e gli americani e siamo ancora qui a ricordare quanto ci piace questa terra dove nessuno compra i limoni e il sale. Basta poco, anche qualche caddozzo di sasizza alla Festa dell'unità e qualche litro di vino per ritrovare quella bella sensazione dei tuoi sette anni. Sì, quando giri un secchiello di sabbia bagnata e diventi re e imperatore di una terra che vedi solo tu".