30/08/05

Bagheria morì d'improvviso

Eccovi il testo completo, in formato PDF, nemmeno 140 kb. Ne ho riscritto alcune scene e ho tagliato via il personaggio di Gigi. Il confronto Nino-Professore adesso è più diretto. Tutto quello che ho scritto deriva da fatti reali. Il fruttivendolo quel cazzotto l'ha dato a me. Ed è documentabile la fiaccolata per il rilascio di un indagato. Corrisponde al vero pure il male che viene dal mare. Resta ancora oggi un interrogativo inevaso. La scienza ufficiale non sa spiegarselo. E ogni anno ritorna. Puntuale.

Anche il cancro dei gerani ha chiesto e ottenuto la residenza a Bagheria.

Anche se contrabbando un pezzo di geranio da Partinico, Terrasini o Monreale e lo porto qui e mette radici, tempo due settimane e si ammala pure quello.



Grazie a tutti per l'attenzione che avete riservato a queste poche pagine. È stato bello condividere questo "work in progress" con voi. Ho scacciato il pasticcio siculo-italico su cui mi stavo incartando grazie soprattutto ai consigli di Demetrio e leggendo Vittorini e il suo intervento su PARLATO E METAFORA.



Buona lettura.



Cosa resterà di me, del transito terrestre?

Di tutte le impressioni che ho avuto in questa vita..."

Franco Battiato, Mesopotamia





Bagheria mori' d'improvviso (4)

quattro



Gli incubi mi hanno tenuto sveglio, hanno masticato pure quelle poche ore che sono riuscito a restare a letto. Ripensavo a Padre Barbisio, il gesuita che mi ha cresciuto. Mi aveva conquistato con i santini e con le storie a cui li accoppiava. Mi piaceva quella di San Tarcisio Martire, il ragazzo che si fa uccidere per trasportare l’eucaristia, una storia bella, vibra dell’amore che si raggruma sino all’estremo sacrificio, sino a incarnarsi in qualcosa di reale.

Volevo fare la stessa cosa per la mia città, per rivederla affiorare, piano piano, senza fretta.

Nino ieri sera l’hanno gonfiato di botte, ha sperimentato quanto costa non piegare la testa.



Era uno di quei pomeriggi che pure le mosche si lasciano cullare dall’aria che soffia lenta al centro della stanza, i cani fanno finta di sognare e corrono nel sonno. Io sono lì, seduto sulla poltrona a cantare qualche aria di Mozart. La musica si propaga, gonfia le tende. E aspetto solo che le fette di vitello si scongelino sopra il lavello. Se mi concentro riesco pure a sentire il ghiaccio che si scioglie e gocciola sull’acciaio. Goccia dopo goccia, insieme al sangue che ritorna liquido nei solchi di quell’ammasso di nobili proteine. Un colapasta capovolto tiene lontane le mosche che cercano un po’ di refrigerio nell’odore del sangue.



Ecco ciò che mi hanno lasciato questi sessant’anni: un mondo di ricordi da pettinare nella solitudine del pomeriggio, quando tutti dormono e pure il camioncino dei surgelati è lontano. Sono stanco. Immensamente stanco, una vecchiaia da inavvicinabile bucapalloni non me la concederanno. È finito pure il latte, devo andare al supermercato, uno dei pochi che hanno lasciato in piedi. Ci hanno provato gli ipermercati a mettere radici a Bagheria e il racket ha atteso con pazienza di ragno, quando hanno finito di avvitare le ultime lampadine hanno chiesto il pizzo e hanno ricevuto un no secco. La stessa sera dell’inaugurazione li hanno lasciati divorare dalle fiamme. Anche stavolta nessuno ha parlato.



Giro tra gli scaffali e lascio perdere tutte le cose che mi piacciono. Il medico all’ultima visita mi ha tolto pure i dolciumi, mi sono beccato il diabete senile e io l’ho preso a cannolate. Quello stesso pomeriggio sono andato sino a Piana degli Albanesi e sulla sponda del lago, con i modellini di aeroplano che mi volteggiavano sulla chierica, ne ho addentati quattro, di quelli grossi.

Il latte lo mettono in basso, dove relegano le uniche cose davvero utili, il resto ti riempie la vista coi colori bislacchi delle confezioni di ipercaloriche meraviglie, falsi bisogni che ci inoculano sin da bambini con le pubblicità tra i cartoni animati.

Con tre cartoni di latte penzolanti nel sacchetto di polimeri sono andato all’edicola di Giuseppe, ho preso il doppio cd di Battiato che c’era allegato al Corriere della Sera. Ci gioco ancora con la vita, chiedetelo in giro, prima che questo corpo ceda del tutto farò qualcosa per la piccola Bagheria, pure che devo prendere a ciabattate il sindaco e tutta la giunta comunale. E farò lo stesso con quelli che hanno incrinato le costole di Nino.



Era andato al cinema con un amico. Posteggiano davanti ad un fruttivendolo, l’orologio digitale appiccicato al cruscotto della R4 segna le otto e mezza.

Si avvicina il fruttivendolo e chiede se è possibile spostare la macchina, lo chiede con voce gentile, in italiano stentato. Nino esce l’orologio dalla tasca, lo confronta con quello sul cruscotto e chiede l’ora di chiusura dell’esercizio. Il verduraio lo guarda strano, si liscia il baffo all’Abatantuono vecchia maniera e risponde che il “Paradiso della Cucuzza” chiude alle otto. Nino sillogizza che già il verduraio è chiuso.

Il proprietario del Paradiso della Cucuzza stavolta dice che se non vuole un colpo di roncola sul parabrezza è meglio che sposta il macinino.

Non è che Nino voleva fare l’avvocato delle cause perse, quel ragazzo credeva ancora alla forza di un dialogo lucido e, soprattutto, voleva solo evitare di togliere la catenazza con cui ha già impiccato il volante alla pedaliera. Per tutta l’operazione sarebbe squagliato via il primo tempo del film. Il verduraio ripete furente, gli occhi come piccoli tizzoni, la faccia di braciere su cui si rosola un’incazzatura crescente, che tracima nel primo cazzotto che Nino si becca in pancia.



Quel posto è tacitamente riservato ai clienti a cui impaccare lattughe resuscitate e zucchine ricurve di marcio. Nino non desiste, si alza, si toglie gli occhiali e fa la domanda più inutile: ma perché?

Arrivano tutti gli energumeni che campano così, a fare i guardaspalle ai negozianti, agli stessi a cui chiedono un contributo per la comune serenità.

I gorilla tengono fermo Nino e il verduraio continua a pestarlo. Passa una volante e il poliziotto chiede spiegazioni, si è già creata una piccola folla attorno al ring delimitato dalla cesta delle melanzane. Se non c’è una denuncia il poliziotto non può agire. Nino si allontana, scuro in volto, si tiene lo stomaco e piange via la rabbia che gli brucia sul labbro spaccato. L’amico è scappato via al primo cazzotto, aveva già capito tutto.

29/08/05

Bagheria mori' d'improvviso (3)

- Ma perché mi sta dicendo tutte queste cose? Perché proprio a me?



Il professore rimase zitto per un buon quarto d’ora, pure la pipa si spense. Quando parlò aveva lo sconforto a fargli compagnia. Già, perché aveva deciso di cercare Nino e Gigi? Perché proprio loro? Con quale diritto poteva chiedere un simile sacrificio a due giovani vite?

Lui aveva avuto una vita lunga, era arrivato a vedere il cambio del secolo. Quel doppio zero che si immaginava così lontano quando sfogliava il suo sussidiario, si vedeva vecchio, magari con un auto spaziale come quella degli eroi di intrepido. E Nino invece era contento perché in tv passavano i film che aveva visto al cinema con Gisella, mano a mano nel buio, con molti fotogrammi perduti in un bacio leggero tra un popcorn e l’altro.



***

Tre





Era solo questione di prospettiva, questo lo capivo bene. Bagheria vista dall’alto non ha più nessuno sviluppo architettonico, la forma di chitarra che partiva dai tre portoni e finiva nella villa dei mostri che affascinò pure Goethe s’era perduta nei piani regolatori che approvavano di notte. Chi cercava di limitare i danni spariva nel campo di concentramento che si celava nella Industria Chiodi e Reti. L’aveva chiamato così Nino Giuffrè che cantava come un usignolo: campo di sterminio. Lo fanno cantare perché la mafia si sta evolvendo. Lo sta facendo di nuovo.

Ne ho conosciute già due metamorfosi. Mi rivedo piccolo, arrivò a malapena alla maniglia del portone di una villa di periferia. Sono con mia madre. Sul portone c’è un battente a forma di leone. Mi faceva una paura… E mia madre era lì, da Don Santo. Mio padre era in Marina, veniva ogni sei mesi e ci aveva affidati al suo padrino di battesimo, uno di quei galantuomini all’antica. Vivevamo ancora nella casa del Corso. Quando ancora i Bagheresi si conoscevano tutti, capaci di ricostruire le genealogie di tutti quelli che bevevano un caffé al bar Aurora. Come gli Ebrei.



Se non l’ha scritta Mosè, la Bibbia di sicuro l’ha scritta un siciliano. Tutti quei Davide figlio di Giosafatte, figlio di Zebedeo. Fanno ancora così le vecchie nonne quando le loro nipoti si azzardano a presentarle il nuovo ragazzo. Si giurano amore eterno a colpi di sms e non resistono alla prima cena in famiglia. Perché se non sei cresciuto qui non lo capisci la grandissima importanza che ha per una famiglia ricostruire il tuo albero genealogico. La domanda è spiazzante: a chi appartieni?



Pure io mi sono dovuto sorbire tutta sta trafila, mia suocera arrivò a parlarmi di antenati di cui mio nonno aveva dimenticato nomi e facce. E le luccicarono gli occhi quando capì che ero bagherese da otto generazioni, il minimo per essere considerato uno di loro.

Perché di bagheresi ne sono rimasti davvero poco. La borgata è diventata paese, il paese è diventato comune e il comune città. E nelle facce dei sessantamila abitanti è difficile ritrovare quei lineamenti e quella parlata che ci rendevano unici. Una nenia leggera, le vocali dilatate, la u onnipresente e quel senso di superiorità nei confronti dei palermitani. Enzo Sellerio diceva che c’era un motivo palese. Bastava riflettere sul fatto che i bagheresi autoctoni erano i servitori dei signorotti del Barocco. I palermitani si facevano la villa, la decoravano con le follie di tufo che hanno dato vita alle leggende sulla villa dei mostri e si facevano poi vedere in mutandoni dai bagheresi. Quando hai visto il Principe di Palagonia seminudo, magari col batacchio scosciato non puoi non sentirti superiore.



Ora Bagheria era un groviglio di promesse mancate, una matassa di strade che conducono in mezzo al nulla, coi tondini di ferro che arrugginiscono al sole. Vedi quei fossili di calcestruzzo e pensi che magari nei pilastri c’è lo zio del tuo compagno di banco, cancellato dalla vita e dal mondo perché aveva sgarrato con la figlia di Don Ciccio e poi non aveva voluto riparare. Torti e riparazioni, si va avanti così.



Questo Nino ancora non lo sa. Suo padre non gliel’ha mai spiegato perché non si passeggia più nel Corso. Perché lui non aveva manco un anno quando ogni giorno ammazzavano almeno due persone quando la mafia cambiò. E cambiò davvero. Si sporcò l’anima con i dollari che arrivavano con lo smercio di droga. Joe Petrosino aveva intuito giusto prima di finire su una targa ricordo mangiata dal verderame in Piazza Marina.



Il leone sul portone ruggì e venne Don Santo in persona, alto sino al cielo, con un cappello in testa che si levò per salutare mia madre. C’era un prepotente che doveva per soverchieria bucarci il tetto per metterci la sua canna fumaria. Mia madre e mia nonna gli chiesero gentilmente di evitare. Niente, quello ci bucò il tetto e quando pioveva la nonna doveva mettere un tegamino dove cadevano fastidiosissime gocce. Facevano un rumore infernale. Ti sentivi la testa picchiettare da quello stillicidio continuo. Ci pensò Don Santo a raddrizzare il torto. Non so come, ma nemmeno due giorni dopo che eravamo andati a squietare il leone sul portone, la canna fumaria non c’era più e avevamo un tetto impeciato con asfalto di primissima qualità.



Funzionava così. Tutto filava dritto, nessuno si ammazzava più per il segno del limite spostato notte tempo nel proprio podere. Tutti si salutavano, gli uomini lavoravano e le donne non dovevano temere nessun pericolo quando i loro figli si attardavano a giocare per la strada.

Lo Stato assente era stato egregiamente rimpiazzato. Chi non voleva adeguarsi semplicemente spariva. Ma poi arrivarono gli anni Ottanta e il vuoto lasciato dalla morte dei vecchi capimafia annullò il clima di tregua armata. Si incominciò a vedere il sangue macchiare i marciapiedi. E mia nonna faceva sempre la stessa cosa: chiudeva le persiane e alzava il volume della televisione. E se i miei figli non tornavano a casa prima del crepuscolo prendevano tante di quelle sculacciate da non potersi sedere per tre giorni. Ho visto gente decapitata prima di pranzo, assassini che si inginocchiavano nel sagrato della Madrice e aspettavano la loro vittima. Sparavano un colpo solo. Dritto nel petto.



E poi tutto finì. Solo che la gente non camminava più sino all’alba, le case ora venivano chiuse con grate alle finestre perché incominciarono i furti. Ho visto un marocchino per la prima volta a trent’anni. Prima mai. E ora c’è un intero quartiere che pare un pugno di kasbe, durante i loro festeggiamenti ammazzano un vitello in mezzo alla strada e le grida della povera bestia le senti entrarti in testa.

Non rimpiango i vecchi tempi. Non posso farlo dopo che si sa quanto costavano quella pace e quella serenità di facciata. Troppe ossa sbiancate al sole, senza pace.

E la città vista in volo pare essersi contratta e poi esplosa, intere betoniere hanno riversato calcestruzzo dove c’erano campi di limoni e prati di gelsomino. Di notte gettavano le fondamenta e la mattina dopo c’erano già decine di carpentieri a tirar su pilastri. In due settimane una nuova palazzina.

E ci donarono pure lo svincolo autostradale più brutto di Italia, con le macchine che vengono da Palermo che cozzano inevitabilmente con quelle che a Palermo vogliono andare. Code chilometriche, bestemmie che fanno impallidire chiunque e i vigili che si sono rifugiati al Comando dopo che hanno bruciato ben tre volanti. Nessuno dice nulla, nessuno vede nulla. Tutti ciechi e sordomuti qui.



Ma le cose non cambiano scegliendo percorsi alternativi. Se voglio evitare l’autostrada, la Statale 113 mi porta a Santa Flavia e poi a Casteldaccia e lì c’è la stessa aria marcia. L’immutabilità è avvilente. I ragazzi cercano di resistere ma si ingrigiscono dentro e fuori. Come succederà anche a Nino. Ho sbagliato. Ho sbagliato anche solo a pensare di poter fare qualcosa. Che potrebbe fare la cultura contro una calibro nove? Dovrebbe fermare la mano che ha già impugnato l’arma? Non ci credo. Non ci credo più.



Non ci credo dal '92. Sono tredici anni che ho perso ogni speranza. Perché non si può far saltare un'intera autostrada per cancellare chi voleva fare davvero qualcosa. Solo perché Falcone l'amava irrimediabilmente questa terra. Hanno fatto esplodere un pezzo di autostrada, il Giudice tornava in volo da Roma, mette piede a terra, decide di guidare e si vede la strada sparire, l'asfalto polverizzato. Una catastrofe che presto hanno avvolto nei lenzuoli. Le loro idee cammineranno sulle nostre gambe, l'abbiamo gridato. L'abbiamo scritto sulle lenzuola. Le lenzuola. Sempre le lenzuola. Che prima stendevamo per far vedere che la nostra sposa era arrivata illibata. Sangue di verginità perdute, speranze perdute. Sempre sulle lenzuola. Che sbiancate dal sole assomigliano a vecchi sudari. Sindoni di civiltà perdute. Lenzuola e lì, dove il Giudice perse la sua battaglia hanno messo un doppio obelisco. Una minchia di pietra che si incula il cielo.

retroazioni (o feedback che dir si voglia)

parlano del mio BAGHERIA MORI' D'IMPROVVISO. E siccome è una delle cose nuove di questa vita altrettanto nuova, riporto qui ogni commento per farne tesoro. E volare alto.


"solo un piccolo parere il mio Tonino... direi che la prima parte mi è piaciuta molto, l'incipit mi ha fatto venire i brividi , diciamo che la primissima parte è di respiro, ci scaraventi dentro la tua Bagheria e ce la fai vivere così come è. Nella seconda parte tu prendi nuovamente il sopravvento, la narrazione ti si avvolge addosso e si allontana. Certi periodi si allungano forse troppo e si appesantiscono e il vecchio professore si confonde con gli altri personaggi in un'unica identità. Non conosco di preciso le aspettative di Demetrio, io amo il ritmo della tua scrittura e il tuo voler stretto il filo dell'aquilone ma credo che a volte"



Questo era rimasto nelle mie bozze...un commento alla tua prima Bagheria, come vedi non ho terminato di scriverlo se non nella mia mente... già scrivendolo avevo rinunciato a spedirlo.

Quello che leggo oggi è ben diverso, posso solo dare una piccola preferenza alla prima parte forse per quel filo di speranza che traduce, forse perchè sebbene in modo diverso la mia terra è affetta dallo stesso cancro e di quello spiraglio ne ho bisogno.

Bravo Tonino



Lisa

***



sono contento e no. se posso dire.

contento perché hai incominciato a fare i conti con qualcosa che non sia te stesso, ma nello stesso tempo non sono contento perché ci caschi dentro di nuovo.

è bello l'inizio, come diceva lisa, perché viene fuori il tuo mondo, senza che tu ci sia, poi poco alla volta il mondo tuo diventa nuovamente orizzonte e ritorna la figura del laureato, innamorato.

Intendiamoci è una cosa legittima, ma perché dare a questa figura il primo piano, quando Bagheria era così bella? Perché avvitarti su questa tua figura e lasicare perdere il paese intero?

mh.

questo mi convince di meno, mi convince molto il discorso sulla mafia, meno il discorso sul fatto che la cultura vincerà la mafia.

io chiederei a te più crudezza e meno idilio.

ecco.

il resto è forte: soprattutto la lingua, hai imparato secondo me a dosare quella tua volontà di pasticcio linguistico, trovando una via mediana e giusta.



Demetrio


 

la guerra selvaggia degli allegati

É sempre tempo di raccolte, i quotidiani e i periodici, da tempo, allegano qualsiasi cosa: dvd, cd interattivi, libri, enciclopedie, videocassette, cataloghi d'arte, antologie di fumetti, saggi storici, dossier monotematici, video-inchieste, etc. etc. perfino gli intoccabili Meridiani che costituivano il mio desiderio nascosto... quante letterine a Babbo Natale per averli tutti, almeno uno all'anno. Approfittando dello sconto di Dieci Euro che la Mondadori concedeva...



Bene, mi fa piacere, è sempre cultura. Certo, lontana anni luce dalla cultura spazza-sofferenze che sognavano i baffi di Elio Vittorini sull'editoriale del primo numero del Politecnico, ma le coordinate e le ascisse spazio-temporali mutano gusti e preferenze.



Non basta più il contenuto del giornale a stimolare l'acquisto. E Gianni Riotta può continuare a dire all'infinito che la mano oscura che cerca di strizzare il Corriere lo fa perché ancora i giornali e i giornalisti sono visti con un senso di rispetto. Il giornale vacilla, anzi: il quotidiano è diventato quell'entità cartacea che danno come allegato alla videocassetta o alle tette del calendario. Lo usano per avvolgere il volume, come prima facevano le venditrici di uova "a parte di casa". La stessa fine che facevano gli articoli di Alberoni del lunedì del Corriere secondo Michele

Serra: finivano ad avvolgere la verdura ancora prima di essere letti... Ora tocca a tutto il quotidiano, pure alle AMACHE del suddetto Serra. Non è servito a nulla la patina di colore della versione FULL COLOR che ora ci delizia le giornate.



Mi è venuto a trovare un ricordo, un piccolo sketch di Gene Gnocchi (che non ho mai capito se mi sta simpatico o no, o proprio la sua schietta antipatia me lo rende simpatico?): Gene era un ciclista dopato e narrava le origini del suo dramma. Era tutta colpa degli inserti e degli allegati dei giornali.

Voleva semplicemente un giornale da mettere nella giacchetta per combattere il vento con quel rimedio che sa di cose antiche e buone ma non aveva fatto i conti con gli allegati. Il quotidiano, il libro, il cd, la videocassetta lo appesantivano così tanto che aveva dovuto ricorrere al doping per riuscire a completare la gara.



La storia si ripete e si amplifica: analizziamo uno dei tanti casi. Che ne so? Io mi ricordo quando Repubblica propose l'enciclopedia Utet in 20 agili volumi. Ma è già preistoria. Faccio un piccolo viaggio nel tempo, che al mio cuginetto di cinque anni gilel'ho detto: tutti possiamo viaggiare nel tempo, bastano i ricordi. Gabriellino ci ha creduto e per due settimane mi ha chiesto se poteva tornare il bravo bambino che era prima di abusare delle parolacce appena imparate. Ecco, mi auguro che la stessa voglia possa venire a noi Lettori di quotidiani.



Dicevo: viaggio nel tempo, mi ricordo quella mattina di settembre del 2003.

L'Edicolante (idea Universale che raggruppa tutti gli edicolanti del mondo) aspira sempre a guadagnarsi un aggettivo possessivo: vuole essere il TUO EDICOLANTE. Anzi, di più, vuole essere il Tuo Edicolante Di Fiducia, il tuo edicolante Hi-Fi. Ammiro questa dedizione ma c'è al fondo nero del barattolo un paradosso. Per chi come me ama vagabondare da un'edicola all'altra sulla scia delle emozioni (e soprattutto per non trovarsi di fronte all'imbarazzante situazione di un conto di 75 euro alla tua richiesta del Corriere della Sera [sommando quello che il tuo edicolante gentilmente ti mette da parte]). Il sistema però mi (ci?) impedisce di svolazzare da un'edicola all'altra. Anche se voglio acquistare mi impediscono di farlo.

E passi pure l'arrembaggio vergognoso che scatenano i volumi gratis dati in pasto alla massa per innestare la fidelizzazione (ho visto cose che voi Lettori non potete neanche immaginare: Giufà qualsiasi scesi dalla campagna alla ricerca del Nome di Rosa con l'Eco [offerta lancio del primo volume della biblioteca del 900 di repubblica] o peggio ancora le orde barbare che reclamavano pane e enciclopedie, tutti volevano il sapere dalla A alla Apra, anche in duplice copia, se possibile. E poi col Caravaggio del Corriere, insomma la storia si ripete ogni ad maledetta nuova raccolta. Con L'universo di Repubblica, tutti con in mano i baffi di Hemingway...



Ma c'è qualcosa che mi fa prudere il cervello e rotolare innominabili estremità sferiche. Passo ai fatti e poi tiro le somme.

Ogni mattina il mio cane mi porta a passeggiare (chiunque abbia un quattrozampe capirà cosa intendo: siamo noi attaccati al guinzaglio e non viceversa), e ogni mattina vedo lei: l'edicola ottagonale di fronte alla sede distaccata del Municipio. L'edicola ottagonale è ancora in ferro e vetro, senza orpelli di plexiglass e alluminio lucidato a specchio e senza nemmeno una maniglia cromata. Un'edicola che sa di passato, un piatto bello pieno in cui saziarsi di parole stampate. Procedo: attacco il cane a un palo dell'Enel, ci ripenso e preferisco una zampa di una moscia panchina di ferro e mi appropinquo. Chiedo il Corriere della Sera con il doppio CD di Battiato. Preparo già dieci facce di Dante sul palmo della mano.

E l'edicolante mi risponde laconico: "esaurito".

Cribbio, penso: sono le 7:17, ci sono lettori così mattinieri? Il Corriere c'è, è ancora impacchettato, il CD si è già estinto.

Stavolta dico basta, mi piazzo sulla panchina e lì attendo. Perché, cascasse il mondo, voglio vederci chiaro in questa faccenda. E resto lì, col cane che mi slinguazza le mani. Si fanno le 8 ed ecco arrivare la processione dei dipendenti del Municipio.

Tempero l'udito e la vista ed ecco che i miei sospetti si concretizzano.

"Dottore, tenga il Corriere col BATTIATO, gliel'ho tenuto da parte."

Mi vedo come in una foto. La mia faccia una maschera di rabbia, la faccia dell'edicolante ridotta a brandelli di pelle, sangue e spregiudicato senso degli affari; i denti lucidi sull'asfalto. Riapro gli occhi e placidamente, senza far nulla, riprendo il mio vagare.



Perché questo è il mercato, dolcezza! E non posso farci niente. Mi auguro che almeno Tullio Avoledo ne tragga un nuovo "elenco telefonico"...

28/08/05

Bagheria mori' d'improvviso (2)

due





– Sei bella stasera, come una poesia di Paul Celan. Prima che lo sconforto se lo portasse via. Lo sai perché iniziò a scrivere? Per sopravvivere. Per dire al mondo che era ancora vivo e capace d’amare. – Nino s’era innamorato davvero. Certe cose si sentono. Dentro, più in fondo. È come quando a un banchetto mangi troppo e riesci a capire quale sarà la tartina o la cucchiaiata di cous-cous che ti condurrà all’indigestione.



Quella dell’amore come indigestione era una delle tante teorie sballate del neolaureato. Ma Gisella lo amava anche per questo, perché il mondo non le sembrava più così mediocre da quel venerdì di fine ottobre che l’aveva incontrato alla Feltrinelli di via Maqueda. Se l’avesse saputo, il professore avrebbe avuto un'altra stella d’orgoglio da appuntarsi in petto, Nino aveva trovato l’amore in libreria, dove lui stesso l’aveva mandato a cercarlo.



Nino se lo ricordava bene, il professore non aveva voluto insegnargli come si faceva un nodo scorsoio e lui, che già aveva difficoltà ad annodar cravatte, aveva desistito dal suo intento. Il professore però l’aveva spedito a comprare le poesie di Celan e lui l’aveva ascoltato.



E s’era laureato proprio con una tesi su Celan e, quando fu il momento di decidere che sentiero imboccare, scelse di tentare il dottorato di ricerca proprio grazie alla sua bella tesi. In quel venerdì d’ottobre doveva comprare due libri per il dottorato, i libri non erano arrivati ma trovò qualcosa di meglio: Gisella.

Quindi, con un'altra delle sue famose deduzioni sbilenche, Nino era giunto alla conclusione che Gisella gliel’aveva fatta conoscere il Professore. E si mise pure in testa che doveva andarlo a ringraziare.



Ci andò una mattina di settembre, con la barbetta rifilata a dovere e il ciuffo imbrigliato dal gel. Il professore lo accolse con un abbraccio.

L’appartamento del Prof. era colorato come un tramonto, tutti i toni caldi del mare al crepuscolo, quando la stella gialla si va a bagnare i filamenti di idrogeno a pelo d’acqua.

In quella casa Nino aveva passato tanti pomeriggi, intento a condire le sue filippiche con il sottofondo del pensiero e della pipa del professore.



- Nino, stavolta che cos’è? Che cos’è che ti avvampa il cuore? Se resterà anche una sola cosa di questo mio transito terrestre, vorrei che fosse avvolto dalla stessa luce che finalmente hai pure tu. - Ho trovato quello che cercavo da una vita. E ora tutto ce l’ha un senso. Tutte le notti a faccia a faccia col nulla, il sapore delle parole antiche che nessuno compone più, suona bene questa vita nuova, suona giusta. Solo che qui c'è qualcosa che attenta sempre alla nostra felicità, cercano di squagliarci i sogni nel loro acido di malinconia.

- Lo so. Sono quarant’anni che voglio mandare tutto all’aria e andare a scaldarmi le ossa in una spiaggia. Come fanno quelli che ce l’hanno il coraggio di cambiare davvero. Ma tutto quello che mi lega qui mi sembra sempre così precario, penso sempre che devo esserci. Devo esserci quando nascono i miei nipoti. Devo essere in fondo all’aula comunale quando cercano di dire che la mafia non esiste.

- Lo dicono ancora! È agghiacciante: arrestano un boss e qui fanno la fiaccolata per rilasciarlo. Perché era solo "un povero cristo", "uno che lavorava e faceva lavorare". E ora cercano il capo dei capi proprio sotto la strada che porta al liceo. C’è una certa ironia: chissà quante volte ho camminato sulla testa del Boss. E forse quell’anarchica della mia cagnolona gli ha pure cacato sulla pelata. Ma da dove viene tutta questa delusione? Cos’è che ci ha avvelenato il sangue e i fogli di tutti i nostri futuri calendari? I progetti si seccano presto. Per quanto puoi combattere come l’hidalgo di Cervantes? Di volare con la testa e col cuore nessuno ne ha più voglia. Lo sento: capiterà pure a me se non faccio qualcosa.



Il prof ascoltava e annuiva. Annuiva pure la sua pipa che faceva nuvolette che si spegnevano presto, come le promesse di un bambino che si è appena mangiato tutti i pan di stelle.

- Io non ci credo che tutti sono marci. Non è possibile. Nessuno può volere segarsi via le ali e dire addio al mondo e ai sogni. Qual è l’origine di tutto? Lei non può non saperlo. Ha speso tutta la vita per cercare di capire.

- Prima dimmi una cosa: hai mai provato l’abbandono?



Nino ci pensò su e poi disse un sì netto.



- E allora sai che è la sensazione peggiore che qualcuno possa sperimentare. Può condurre alla pazzia. Soprattutto perché chi abbandona lo fa sempre in modo subdolo. Non ti lascia intuire nulla, dall’oggi al domani ti ritrovi il letto vuoto e troppo grande. Dai amore e ricevi una coltellata da chi proprio non t’aspettavi e, ancora peggio, sei pronto a porgere ancora una volta il petto. Perché non puoi crederci, non vuoi crederci che chi ti ha detto tutte quelle belle parole che vibravano di forza e verità, spargeva nell'aria della notte solo minchiate orbe che t’hanno obnubilato l’autostima.

- Analisi perfetta…

- Già, l’ho provata mille e mille volte. Una piccola morte che ti taglia via, ti scaglia lontano dal tuo sorriso più bello. Ti toglie la speranza. E quando ti muore la speranza non puoi fare altro che aspettare. Al buio.

- E questo che c’entra con quello che sta accadendo a Bagheria? Perché lo sa che è vero: qualcosa sta accelerando il processo, la cancrena non si arresta…

- C’entra, eccome se c'entra. Bagheria, la Sicilia, i siciliani si sono sentiti abbandonati. Da sempre, dallo Stato, dai vari politici che hanno fatto incetta di voti e ci hanno lasciato soli. Sempre di più. Compriamo l’acqua per cucinare pure un tegamino di pasta. Ci mancano i servizi minimi. E il lavoro è un’utopia. E ora la precarietà a cui hanno consegnato il vostro futuro farà il resto. Il “posto” diventerà il vostro sogno proibito. Andrete avanti, per inerzia. Sentendovi sempre più abbandonati e inizierete a fare cose stupide. Guarda: ora sono gli emulatori dei lanciatori di sassi dal cavalcavia. Lanciano perché pensano che è l’unico modo per ricordare al mondo e al telegiornale che esiste pure l’isola triangolare. Che non deve esserci solo quando servono tutti e sessantuno i nostri seggi, o quando a qualcuno viene la fregola della crema al pistacchio.

- Ci hanno abbandonato tutti. Gli americani ci avevano detto che saremmo diventati una delle stelle della loro bandiera. Hanno preferito l’Alaska. E ho detto tutto. Una landa di ghiaccio perché qui c’erano troppi soldi in ballo. Le analisi si perdono, perché tra le coppole non si può mai muoversi senza temere di ricevere una schioppettata in piena faccia. O saltare in aria con tutta un’autostrada. Chi ha provato a lottare è andato a concimare la terra.

- Già, un giorno scriverò la mia "Antologia di Spoon River". Farò parlare loro, le anime dei morti, di quelli delusi e di quelli incazzati. Sono, siamo sempre di più...

24/08/05

marco s'è trasferito su vibrisse

«Scrivo da quando ho dodici anni – anche se la mia prima esperienza di scrittura è stata con una Lettera 32 a undici anni (mi sono subito messo a scrivere un romanzo – non un racconto o una poesia o una riflessione: dico: proprio un romanzo; il che mi sembra molto significativo: sedersi davanti a una macchina per scrivere con l’intenzione di dare corpo a uno scritto lungo e articolato credo significhi più di tutto che non ci si è seduti lì per caso, ma per starci).

Non mi vergogno ad ammettere queste cose; so di persone che si vergognano ad ammetterle – e si inventano storie le più strampalate. Io no. Poi dico queste cose anche perché si capisca che la scrittura non è un’attività che ho cominciato in seguito alla lettura di qualche autore particolare (in effetti a undici anni non avevo ancora letto nessun libro di narrativa – anche se ero rimasto molto colpito dalle copertine dei libri di Agata Christie; osservavo le copertine e dai titoli cercavo di immaginarmi il contenuto del libro) o in seguito alla frequentazione di qualche autore particolare. Il mio è sempre stato e continua a essere un desiderio e un bisogno autentico.»



continuate a leggere

22/08/05

Meridiani con la Vaginite

E siamo arrivati anche a questo: i Meridiani ora escono col Tu!* (ovvero con uno di quei tanti giornali colmi di munnizza femminina).

La prossima settimana Hemingway a solo 1 euro in più. E pensare che prima erano la collana più prestigiosa (49 euro l'uno!)... Rappresentavano la consacrazione a classico per un contemporaneo. Addirittura quando pubblicarono quelli di Camilleri si gridò allo scandalo...

Sono un piccolo reazionario. Prima comprare un meridiano all'anno era per me un rito ineluttabile. Approfittavo dello sconto di Natale. E ora?

Va bene, la diffusione culturale... la cultura alle masse.

Però un discorso è abbinare Tutto Pavese con L'Espresso, altro Calvino col TU!



Dico, ritrovarsi Palomar e la conclusione sulle lucciole che chiude il sentiero dei nidi di ragno tra la pubblicità dell'assorbente per tanga e il test su che tipo di amante sei...

Vacillano pure le certezze della lobby culturale. A quando l'opera di Spadaro nel Dash?



Comunque, reazionario sì, scemo no. Ho ordinato due copie del meridiano in questione. E se gli altri sono sotto i 20 euro li prendo (quasi) tutti...



*nella pubblicità c'è scritto che escono anche con tutti gli altri periodici mondadori




I Meridiani, frutto di un'iniziativa unica nel panorama editoriale italiano, nacquero nel 1969. L'intento era di offrire al pubblico - in una raffinata, maneggevole veste editoriale, capace di soddisfare anche il bibliofilo più esigente - le opere degli scrittori più rappresentativi di tutti i tempi e di tutte le letterature. Il progetto iniziale, promosso da Arnoldo Mondadori, venne elaborato e approfondito da Giansiro Ferrata (il primo direttore della collana), da Vittorio Sereni, da Sergio Polillo e da altri. Dopo qualche tempo, divenne responsabile editoriale della collezione Luciano De Maria, l'attuale "editore incaricato" dei Classici e direttore della collana.
Nell'affrontare il primo programma della collezione che affiancava ai classici antichi e moderni alcuni prestigiosi autori novecenteschi, la Mondadori poteva valersi delle ingenti risorse del suo catalogo che da anni teneva in esclusiva scrittori come Kafka, Joyce, Mann, Ungaretti, Montale, ecc. Nel giro di qualche anno la collezione si affermò pienamente presso i lettori, pubblicando via via le poesie di Ungaretti e di Quasimodo, i romanzi di Kafka, L'Ulisse di Joyce, le Opere scelte di Poe, il Faust di Goethe, ecc. Tra le iniziative culturalmente più prestigiose sono da segnalare l'edizione con testo a fronte del "Teatro completo" di Shakespeare a cura di Giorgio Melchiori; tutte le "Opere" di Pirandello nella nuova edizione diretta da Giovanni Macchia; e "Alla ricerca del tempo perduto" di Proust, tradotta interamente dal solo Giovanni Raboni (e, per la prima volta nell'editoria mondiale, commentata da Alberto Beretta Anguissola e Daria Galateria). A queste iniziative, si sono aggiunte "Tutte le poesie" di Goethe, pubblicate integralmente, fuori di Germania, per la prima volta nel mondo, con testo originale a fronte, un ampio commento e traduzione parziale delle "auto-chiose" goethiane.

12/08/05

Bagheria morì d'improvviso

Di freak siciliani mi sono ingozzato per troppo tempo. Cucuzze e le sue derivazioni sono state solo un esercizio di stile. Ecco, l'amico Demetrio s'augurava che prima o poi mi dessi una smossa. Che trovassi finalmente la forza di scrivere qualcosa di nuovo e di bello. Non lo so se questa cosa che vi lascio prima dell'ultima micro-vacanza può leggersi in quella direzione. So solo che era un anno che non mi sentivo così bene dopo aver lasciato libere le dita nella tastiera.
Buona lettura



....



Bagheria morì d'improvviso, una mattina di inverno. Morì in silenzio, così come aveva vissuto, stanca di essere nominata nei tg sempre con la stessa presentazione, fotografata sempre di profilo, coi vecchietti sullo sfondo a giocare a carte.

Morì che tutti eravamo distratti, accecati dall'amore o persi ad inseguir lucertole sui muretti di tufo. Non ci furono esplosioni, e nemmeno funghi atomici o piogge radioattive. La città si svuotò piano piano. A poco servirono le supposte di vita giovane che l'Università di Palermo gli propugnò installandosi in una delle ville seicentesche. Ancora meno fece un'intera generazione d'artisti quando decise di dipingere il centro storico con colori belli e vivi. La città si spense piano, come Orano con la peste che covava aspettando il momento giusto per ripresentarsi sulle code dei topi.



Ci provarono quelli della Sinistra Giovanile coi loro striscioni sgrammaticati, ma le loro parole non servirono a lenire la lenta agonia, non tutto era imputabile alla lotta alla pelata di Berlusconi. Pure i neri avevano poco da sventolare le croci celtiche e gli altri orpelli. Niente, tutte le proposte si arenavano e scoppiavano al sole, implodevano, si piegavano scimmiotando al contrario i girasoli: invece di seguire il moto della nostra stella gialla, i bagheresi si spingevano sempre più giù, sempre più al fondo, nel buio delle soffitte che dividevano coi sorci verdi che i nonni usavano per terrorizzare i nipoti.



Davanti a un bar del corso il garzone continuava a gettare manate di sale, per scacciare il lercio dai pavimenti lastricati di belle e inutili intenzioni. Non servivano i comizi, non serviva nulla. Nemmeno andarsene era una soluzione. E così, anno dopo anno, la città sembrava il set di un film di Romero. Ma almeno nella pellicola c'erano gli zombi, qui manco quelli, nessuno se la sentiva nemmeno di barcollare. Vivacchiavamo a stento. E la fine sembrò più vicina quando anch'io andai in pensione.



Per anni dalla mia cattedra avevo provato a smuovere le coscienze. Cercavo di svegliare i più giovani dal torpore che s'era già portato via pure i miei due figli. Tutti mi dicevano che ero pazzo, che la mia azione era l'ennesima lotta contro i mulini al vento. Che le mie parole erano più inutili dei legnetti del gelato, che almeno quelli servivano a togliere la merda dalle scarpe. I miei discorsi invece ammontichiavano deiezioni ideologiche in quei cervelli troppo giovani per avere già provato quell'impermeabilità alla speranza che costituisce il filamento di DNA che ci accomuna tutti: dal giornalaio al benzinaio, dal ladro al pescivendolo. Tutti abbiamo l'anima intossicata da un disamore tetro e coriaceo.



Ma almeno un manipolo dei miei studenti ce la farà, ne sono certo. Smuoverà questo stagno putrido prima dell'estrema unzione.

Perché non ci credo che tutte queste ore di bei discorsi non hanno trovato manco un grammo nei cuori giovani e teneri di tutta una generazione. Insegno da quando ancora erano permesse le scudisciate sui palmi. Da una vita o poco più.

E la mafia può farmi uno shampoo allo scroto coi suoi silenzi e le sue mezze parole.

O può pure cacciarsi una piantagione di zucchine su per il culo di Binnu e dei suoi scagnozzi. Che a sentire il TG 5, o, almeno, quello che resta del TG 5, tra un servizio canino e l'altro, Binnu è più duro di una zucca verde. Lo paragonano a Rambo, può stare fuori, al freddo, infischiandosene dei settant'anni di vita vagabonda. Se non fosse un mafioso, sarebbe un'icona per tutta una generazione. Meglio del Che. Binnu la Bestia Sanguinaria che qui gestisce pure la caduta delle foglie d'autunno. Che controlla pure la caducità delle nostre esistenze. Che andava sino a Monreale solo per vedere i cavalli correre e poi se ne tornava sotto il suo cielo trapunto di stelle a vivere sui nostri sogni e sulle nostre speranze.



Lo possiamo capire solo noi che cos'è la mafia, quegli spilungoni di Hollywood ve ne hanno data una rappresentazione melodrammatica e ci hanno poco da ridere sulla Sicilia e sul fatto che qui tutto è melodramma. Mica che facciamo una pagina d'opera per ogni questione. beh, quasi... qui i picciriddi o si chiantano la prima bua o fanno una reazione che se la sognano pure tutti gli incornati per San Firmino. Quelli che non piangono li tirano su con una logica elementare, dicendogli che la vita va fottuta prima che ti fotta lei. Che devono campare tutti, che, chi può, deve lucrare ma sino a un certo limite. Perché tutti devono mangiare.



Me lo ricordo ancora: dovevo denunciare la nascita di mio figlio, del mio primogenito. Ci vado la stessa giornata in cui mia moglie me l'ha donato dopo dieci ore di travaglio e trovo la scrivania vuota. E vuota è pure la sedia dell'usciere. Ripasso l'indomani e si ripresenta la stessa situazione. Perché qui che cosa sia un deja-vù manco abbiamo bisogno di spiegarglielo ai bambini: l'immobilità non produce manco una momentanea sospensione dell'incredulità, né tanto meno della coscienza. Si ripresenta ogni giorno uguale che non ti meravigli se una situazione la rivivi all'infinito.

Al terzo giorno capii pure io, anzi, me lo fecero capire: se non ci mettevo in mezzo al certificato almeno diecimila lire mio figlio non sarebbe mai stato registrato. E mi piegai. Perché qua mica che puoi decidere di pisciare controvento. Lo possono fare solo loro, solo sulla tomba tua e dei tuoi ideali.



Guccini potrebbe riscriverla "Dio è morto", tagliando via l'Altissimo e rimpiazzando il grande Assente con la Speranza. Solo che l'ultima strofa potrebbe pure lasciarla come vestigia di una vecchia scoreggia. Non ci sono segnali. Mi illudo di vederli ma i segnali di fumo sono solo le emissioni di azoto che rilasciano le ossa macinate e sbiancate dal sole. Ogni mattina esco di casa presto, prima che i miei concittadini organizzino già la vita di tutta la comunità nell'intervallo tra due caffé.

Esco e prendo una copia del Corriere, me lo leggo prima del pranzo. Prima che l'acqua della pasta sia giunta ad ebollizione. Lo leggo e lo sconforto lo vedo uguale in tutto il mondo, solo che qui lo sconforto è già rassegnazione, la rassegnazione è già angoscia, e l'angoscia è già morte.



L'altra mattina ho rivisto due miei vecchi alunni, in rapida successione. Nino stava passeggiando con la sua cagnolona, l'ho riconosciuto subito, è l'unico che qui cammina con la paletta e il sacchettino per gli escrementi del quattrozampe. E poco dopo ho visto Gigi, sempre più confuso, in bilico tra i dolori del mondo e la storica mancanza di pilu femminile che gli toglie il sonno e la serenità.



Nino era sereno, un po' più stempiato, con meno pancia del solito. Forse ha trovato la donna giusta, quella che non ha mai smesso di cercare nemmeno quando voleva che gli insegnassi come fare il nodo scorsoio per dire addio al mondo e alla vita. Se dovessi indicare un campione di quel melodramma che caratterizza i siciliani, non avrei dubbi. Nino è peggio di Amleto quando inscena la sua pazzia. Solo che Nino a Bagheria ha poco da squagliare in dilemmi, nessuno gli cala più manco la testa e lo lasciano filosofeggiare sulla sua opera di attualizzazione della filosofia platonica. Già, quel ragazzo ci ha abbastanza sale in zucca e sa che i paroloni volano presto, i miti platonici invece possono arrivare alla gente e aderire meglio alle teste di ciaca dei nostri concittadini.

Ma la luce che gli ho visto negli occhi non derivava dalla laurea in filosofia che s'è beccato a dicembre. Quella è la serenità che ti dà solo un amore vissuto bene, senza intossicarsi nelle discussioni che ora vanno di moda. Senza fare i test dei giornalacci femminini per capirci. Un ragazzo, una ragazza e la voglia di stare bene assieme. Gliel'ho sempre detto ai miei picciotti che nella vita conta solo quello che la testa brillante di Mozart ci ha insegnato con la bella musica del suo Flauto Magico: ogni Papageno deve cercare la sua Papagena, la sua metà femminile che lo completa e lo appaga e allora sì che l'amore, quello vero, l'unica cosa al mondo che si merita davvero la maiuscola, ci renderà davvero liberi.



Gigi invece è buio, ma quella è solo la scoccia che offre al mondo. Mi ha detto pure che vuole piantare tutto e andare a coltivare caffé in una Comune. Io lo so che lo muove un semplice sillogismo: Gigi non trova una che gliela dà - Nella comune tutte la danno a tutti - Gigi deve andare in una Comune. Povero picciotto, nella sua semplicità mi ci rivedo prima che mi cadessero i capelli, prima che i pochi bulbi piliferi superstiti s'incanutissero.

Ecco: Gigi e Nino sono un buon punto di partenza. Li devo contattare e risvegliarli.Però dovevo agire con discrezione, senza attirare troppe curiosità. Qua le donne stanno sempre semi-nascoste dalle persiane, ore e ore, nei balconi, a gustarsi le vite degli altri. E poi parlano con chi di dovere. E pure che la mia età mi fa essere più tracotante non posso mettere nei guai quei due ragazzi. Devo agire leggio leggio, come una flatulenza nella notte.



Stamattina mi sono svegliato rinvigorito, la luce che filtrava dalle vertebre della serranda mi ha leccato via ogni timore. La speranza mi è rifiorita negli occhi, l’ho visto pure mentre mi rasavo, sorridevo di un sorriso bello e pieno. Di nuovo.



Sapevo bene quello che c’era da fare, sono stato un professore per così tanti anni che conosco le abitudini dei giovani. Non ci vuole poi molto, da che mondo e mondo, a quell’età, e non solo a quella, l’attrazione fisica muove il cuore e i piedi.

Con Nino agivo a colpo sicuro, quel sorriso non era da avventurette destinate a sbiadire presto, s’era zitato di certo con qualche brava ragazza.

Mi piazzai nella parallela alla sua strada e aspettai che cavasse fuori dal box la sua Renault 4, la macchina meno discreta del globo: una vettura verde pisello più rumorosa di una mandria di bufali d’acqua.



La mia Cinquecento poteva stare attaccata alla sua targa senza problemi. E lo feci: lo seguii, curva dopo curva, sino a Trabia. Qui si fermò in una bancarella di libri e si mise a toccare tutte le copertine dei volumi a due euro. Il mio cuore di docente di letteratura ebbe un sussulto, avevo fecondato un giovane lettore con la fiamma viva del piacere della lettura. Un fuoco inestinguibile.



Nino prese un Vittorini e due Pavese. Non poteva essere un caso. Avevo martellato i miei alunni per tutti i miei trentacinque anni di carriera sempre con “Conversazione in Sicilia” e le poesie e il diario di Cesare Pavese.

Se li fece mettere in una busta e si rimise al volante. La macchina sussultò più volte prima di accendersi.

L’ho seguito per una settimana, lasciandogli però tutta la privacy possibile e ne sono certo: so pure dove sta la sua ragazza, una ragazza bella come una promessa mantenuta. E bravo Nino!



Con Gigi fu ancora più facile, quelli che non hanno ancora il cuore arroventato dalle frecce intinte d’amore devono occupare il tempo con surrogati. Di solito i tipi come Gigi fanno giochi di ruolo o volontariato. Conoscendo il gusto per l’eccesso del mio vecchio alunno, Gigi magari fa entrambe le cose.



Di certo non farò mai un sei all’enalotto ma i miei studenti non hanno segreti per me. Gigi aiuta i bambini al doposcuola organizzato dai Gesuiti e con quelli più svegli organizza tornei di giochi di ruolo.



Io devo solo gettare l’esca, sta a loro decidere se accettare o no. Li lascerò liberi, pure di sbagliare. Pure di tirare lo sciacquone sulla loro ultima possibilità.


10/08/05

Elogio di Paperone. Un adorabile avaro

di ALESSANDRO BARICCO



INCREDIBILE cosa siano riusciti a fare partendo da un elementare personaggio di Dickens. Un personaggio, oltretutto, sgradevole, perfino un po' pauroso, inquietante: invischiato in una storiella natalizia moraleggiante che lo costringe a una conversione un po' posticcia. E in effetti il primo Paperone era un personaggio sgradevole come lo Scrooge dickensiano: implacabilmente cattivo, solo da far paura, crudele sino all'eccesso; anche i tratti del disegno erano senza pietà, descrivevano un papero perso, decorato da un ghigno cinico che non aveva nessuna parentela con un sorriso.



Come siano riusciti da lì a generare il personaggio più simpatico della banda dei Paperi, è cosa che non riesco a spiegare. So però che è successo. Per quanto Paperino sia geniale, per quanto Paperoga resti il protagonista di memorabili storie, per quanto Archimede Pitagorico resti sempre nel mio cuore, il più divertente è lui: Paperone.



Cioè, non è tanto questione di essere divertente o no: il fatto è che senza di lui non esisterebbe niente. Voglio dire, se ci si pensa bene, lui è come Don Giovanni o Amleto (bum, l'ho detta): personaggi che non abitano un mondo ma lo generano, e se loro scomparissero, tutto intorno a loro scomparirebbe, perché non avrebbe più una sua autonoma necessità. Per quanto Donna Anna sia un bellissimo personaggio, sarebbe mai esistita senza Don Giovanni? Sarebbero mai diventate memorabili le beghe della corte di Danimarca (pensa te, cosa c'è di più insignificante della politica danese?) senza la presenza di Amleto? Esisterebbe Paperopoli senza Paperone? No. Il suo Deposito troneggia simbolicamente in mezzo alla città rendendo chiaro anche a un bambino che lui, il vecchio papero miliardario, è l'origine e la fine di tutto. E per quanto esistano storie orfane in cui lui non compare, si può ben dire che non accade qualcosa, veramente, in quel mondo, prima che sia lui a volerlo. Se ne stanno lì, tutti, a fare la loro vita regolarmente che non finirebbe mai, quando all'improvviso arriva lui: il telefono di Paperino salta su come su una bomba, la porta del laboratorio di Archimede si spalanca, nella loro roulotte i Bassotti leggono una notizia che lo riguarda sul giornale: e lì inizia tutto. Accade tutto. Niente da fare: lui è il protagonista, gli altri gli ruotano intorno. Lui è il genio.



Posso annotare sette cose che adoro di lui? 1. La vocazione all'eccesso. È forse il tratto più bello di Paperone, totalmente assente nel suo modello dickensiano, e quindi interamente attribuibile al talento degli uomini Disney. Paperone non piange: diluvia. Paperone non soffre: lui vive tragedie mostruose. Paperone non si limita a essere contento: lui levita in aria facendo un rumore da registratore di cassa. Si aggiunga che non c'è quasi mai proporzione logica tra causa e effetto: lui può riempire catini di lacrime per un cent smarrito. Può puntare un cannone contro il maggiordomo che ha buttato via una crosta di formaggio. Il suo numero migliore è il passaggio repentino da un eccesso all'altro: sta suicidandosi (confronta il punto 2), e due vignette dopo sta studiando con Archimede un sistema per raggiungere il pianeta Marte: neanche il Prozac produce simili sbalzi d'umore.



2. I tentativi di suicidio. Mi fa morire quando decide di suicidarsi. Le ragioni possono andare dall'assolutamente futile (la sua Paperòfole S.r.l. ha venduto otto pantofole in meno dell'anno prima) all'assolutamente grave (un meteorite sta puntando esattamente sul suo Deposito). La tecnica più usata è l'autoaffogamento nei dollari: di solito sprofonda reggendo cartelli con messaggi di commiato (addìo mondo crudele, cose così). Ogni tanto si butta dalla finestra, o approfitta di qualche baratro lì vicino. Di rado sceglie l'impiccagione: nel caso, la corda è sempre un saldo vecchio di cent'anni, comprata di terza mano durante la corsa all'oro.

Naturalmente non muore mai. Spesso ci mette meno di tre vignette a tramutarsi in un entusiasta della vita, che nulla teme, e sempre vincerà: vedi punto 1.



3. La violenza. Paperone mena. Spara. Bombarda. Non è un pacifico. A me piace molto quando incontra Rockerduck. Dopo tre vignette sono già lì che si menano. Mi piace il finale di molte storie: al Polo, o in Patagonia, o sull'Everest, Paperino che fugge e Paperone che lo insegue puntandogli addosso un fucile. Tempo fa avevo letto che alla Disney avevano deciso di farla finita: in omaggio al politically correct, non avrebbero messo più violenza nelle storie dei paperi. Che tristezza. Non so se poi l'abbiano fatto davvero, ma per me quella violenza è sempre sembrata come le cadute del Coyote giù dai canyon: iperboli della fantasia, messaggi di un meraviglioso mondo fantastico, dove la sofferenza, o la cattiveria si sono disfatte dal ridere.



4. Le frittelle. Piegato in due dalla depressione, col cilindro sulle ventitré, Paperone va da Paperino, entra in casa esattamente quando in tavola stanno arrivando le frittelle, si siede a tavola come un condannato a morte su una sedia elettrica, e poi divora tutto ingurgitando come uno struzzo chili di frittelle in pochi secondi ([ab]non vorrete negare a un vecchio le ultime briciole della sua vita?[bb]), rimanendo poi, improvvisamente obesizzato, ad agonizzare sulla sedia, mentre Paperino è ancora in piedi con la teglia delle frittelle in mano, e il cappello da cuoco in testa, allibito. Io questa gag la potrei rivedere mille volte: e mille volte mi farebbe impazzire.



5. Cartelli. Per quanto possa sembrare stupido, io leggo sempre i cartelli che sono fuori dal Deposito. Mica mi ci soffermo tanto, ma un'occhiata la do sempre. Una volta ce n'era uno che diceva: cosa fai qui? E un altro, bello, che mi è capitato di trovare, recitava: pensaci bene. Il migliore resta comunque il classicissimo, sintetico e perfetto: sciò.



6. I conteggi. Ogni tanto Paperone conta i suoi soldi. Lo fa in genere con un pallottoliere, ma non mancano le volte in cui si fida di elaboratissimi computer. L'operazione la seguo sempre con molta attenzione, perché, al momento di sparare il totale, aspetto al varco gli autori Disney per vedere cosa si sono inventati questa volta: per dire, mi ricordo un conteggio il cui totale era un incredibilione, tre fantastiliardi, sei megalioni e rotti. Sono cose che fanno piacere.



7. I nemici. Non si riflette mai abbastanza sul numero, sproporzionato, di nemici che può vantare Paperone. Rockerduck e i Bassotti già sarebbero abbastanza. Lui somma anche Amelia, Brigitta, Filo Sganga, più ladri vari, qualche vecchio avventuriero che rispunta dal passato, Spennacchiotto (l'inventore cattivo, spesso alleato coi Bassotti), gli altri miliardari del club che lo odiano, il sindaco che in genere lo flagella di tasse. Talvolta si trova contro perfino Nonna Papera (solo perché lui vuole costruire delle acciaierie al posto di campi di grano, o cosucce del genere). Paperone è il prototipo dell'individuo assediato: in questo senso è il classico personaggio in cui siamo portati, a torto o ragione, a riconoscerci.



Il fatto che ogni volta riesca a rompere l'assedio è una specie di rito liberatorio in cui il Paperone che è in noi festeggia una vittoria che, nella vita reale, è rarissima. In più lui vince, di solito, rimanendo avaro, egocentrico, iracondo, egoista, falso, cinico, cioè non perché si converte ma, al contrario, perché NON si converte: situazione in cui tutti sogniamo di trovarci.



Voilà. Queste sono le sette cose che preferisco di Paperone. Poi ce n'è a decine che sarebbero, comunque, da citare: il rapporto con la sua palandrana, il vezzo di nuotare nel denaro (ogni tanto ci va anche in barca), i profumi con cui lo fanno rinvenire (essenza di tallero, spremuta di doblone...), il rito della lettura a sbafo del giornale, il rapporto con Rockerduck, le donne della sua vita (le papere, va be'), ecc. ecc. Roba che non finisci più. E perciò mi fermo qui.



(La Repubblica, 4 novembre 2000)

09/08/05

cucuzze: the movie

Ninuzzu era stato tirato su dalle gambe cellulitiche delle sue tre zie che gli avevano rimpiazzato i genitori fricchettoni che avevano deciso di riprodursi subito dopo il matrimonio per poi piantare tutto in asso e girare il mondo. E così lui era cresciuto con Zia Benedetta, Zia Carluccia e Zia Concetta. Già avere una madre in certi momenti della vita pesa, averne tre vicarie era un peso insostenibile. Però Ninuzzu era venuto su bene, alle tre zie voleva bene e ai suoi genitori scriveva ogni mese una lettera in cui sintetizzava i suoi progressi a scuola e nella vita.

Aveva deciso di mettere su una piccola azienda con suo cugino Mariuzzu che era l'omonimo figlio di Mariuzzu il Magno, o, come dicevano le malelingue, Mariuzzu il Magnaccio, quel furbone che s'era messo in società col suo superdotato cugino per spillar soldi ai segaioli di tutto il mondo. Erano passati anni dal matrimonio che aveva messo fine agli affari: Angelino il superdotato e la sua amata Giulietta erano partiti per il continente e di loro non si era saputo più niente.
Mariuzzu Junior voleva ripercorrere le orme del padre, però facendo qualcosa di più pulito, soprattutto perché altrimenti le tre zie gli lasagnavano il cervello con rosari coatti e viaggi punitivi in giro per tutti i santuari d'Italia. E a lui già gli bastava la statuazza di Padre Pio che campeggiava in giardino, alta sino alla sua finestra, al terzo piano della villetta di periferia in cui suo padre aveva investito gli ultimi soldi rimasti. QUella statua era una forma di risarcimento alla collettività: Mariuzzu il Magno aveva insozzato la coscienza della sua città e ora la ripuliva con quella statua del fraticello di Pietralcina che faceva concorrenza al Cristo benedicente di Rio.

Ninuzzu aveva accresciuto il suo cervello con le letture in biblioteca e, da quando s'era zitato con Carmelina, aveva quella serenità necessaria al mondo del business. Era solo questione di tempo, Mariuzzu e le sue minchiate avrebbero sfondato. E con loro si sarebbe arricchito tutto il paese.
Ninuzzu aveva le idee chiare, con la capacità di spargifissarie di suo cugino potevano benissimo mettere su un copione di un film di sicuro successo, magari un drammone edificante, un melò tipo la saga del Padrino. Il set ideale era il loro paesino. COme comparse potevano scritturare tutta la popolazione cittadina. Ma qualcosa era nell'aria. Il vento stava cambiando, disse qualcuno mollando una scoreggia da competizione.

Mariuzzu e Ninuzzu, che volevano diventare i nuovi Ciprì e Maresco, decisero di mettere in scena NONITA, la parodia che Umberto Eco aveva cavato fuori da Lolita di Nabokov. Per il ruolo principale chiamarono Johnny U Confusu, un picciotto calabrese che s'era fatto conoscere per la sua faccia tosta. Come regista e direttore della fotografia pigliarono invece Dario U Cunigghiu, che dicevano se la cavava bene in due cose: con la macchina da presa e nella velocità delle spinte pelviche, proprio come l'animale peloso da cui aveva avuto il soprannome. E così arrivò il giorno dell'inizio delle riprese.


continua?

Nonita

Per tenere allenate le dita sulla tastiera e per sopperire a un grave mancanza della Rete, ho ricopiato per voi un piccolo classico. buona lettura



[ Il presente manoscritto ci è stato consegnato dal guardiano capo delle carceri di un paesino del Piemonte. Le notizie incerte che l'uomo ci diede sul misterioso prigioniero che lo abbandonò in una cella, la nebbia di cui è avvolta la sorte dello scrittore, una certa complessiva, inspiegabile reticenza di coloro che conobbero l'individuo che vergò queste pagine, ci inducono ad accontentarci di ciò che sappiamo come ci appaghiamo di quel che del manoscritto rimane – il resto roso dai topi – e in base al quale pensiamo che il lettore possa farsi un’idea della straordinaria vicenda di questo Umberto Umberto (ma non fu forse, il misterioso prigioniero, Vladimiro Nabokov paradossalmente profugo per le Langhe, e non mostra forse questo manoscritto l’antivolto del proteico immoralista?) e possa infine trarre da queste pagine quella che ne è la lezione nascosta – sotto la spoglia del libertinaggio una lezione di superiore moralità.]


Nonita. Fiore della mia adolescenza, angoscia delle mie notti. Potrò mai rivederti. Nonita. Nonita. Nonita. Tre sillabe, come una negazione fatta di dolcezza: No. Ni. Ta. Nonita che io possa ricordarti sinché la tua immagine non sarà tenebra e il tuo luogo sepolcro.

Mi chiamo Umberto Umberto. Quando accadde il fatto soccombevo arditamente al trionfo dell’adolescenza. A detta di chi mi conobbe, non di chi mi vede ora, lettore, smagrito in questa cella, coi primi segni di una barba profetica che mi indurisce le gote, a detta di chi mi conobbe allora ero un efebo valente, con quell’ombra di malinconia che penso di dovere ai cromosomi meridionali di un ascendente calabro. Le giovinette mi concupivano con tutta la violenza del loro utero in fiore, facendo di me la tellurica angoscia delle loro notti. Delle fanciulle che conobbi poco ricordo, perché ero preda atroce di ben altra passione e i miei occhi sfioravano appena le loro gote dorate in controluce di una serica e trasparente peluria.

Amavo, amico lettore, e con la follia dei miei anni solerti, amavo coloro che tu chiameresti con svagato torpore “le vecchie”. Desideravo dal più profondo intrico delle mie imberbi fibre quelle creature già segnate dai rigori di una età implacabile, piegate dal ritmo fatale degli ottant’anni., mimate atrocemente dal fantasma desiderabile della senescenza. Per designare costoro, sconosciute ai più, dimenticate dalla indifferenza lubrica degli abituali usagers di friulane sode e venticinquenni, adoprerò, lettore, oppresso anche in questo dai rigurgiti di un’impetuosa sapienza che mi atterrisce ogni gesto di innocenza che mai tenti – un termine che non dispero esatto: parchette.

Che dire, voi mi giudicate (toi, hypocrite, lecteur, mon semblable, mon frére!) della mattutina cacciagione che si offre nel padule di questo nostro mondo sotterraneo al callidissimo amatore di parchette! Voi che correte per i giardini pomeridiani alla caccia banale di giovinette appena tumescenti, cosa sapete della caccia sommessa, umbratile, ghignante che l’amatore di parchette può condurre sulle panchine di vecchi giardini, nell’ombra odorosa delle basiliche, pei sentieri ghiaiosi dei cimiteri suburbani, nell’ora domenicale all’angolo degli ospizi, sulle porte degli asili notturni, nei filari salmodianti delle processioni patronali, alle pesche di beneficenza, in un amoroso ferratissimo ahimé inesorabilmente casto agguato per spiare dappresso quei volti scavati da vulcaniche rughe, quelle occhiaie acquose di cataratta, il vibratile moto delle labbra riarse, depresse nell’avvallamento squisito di una bocca sdentata, solcate talvolta da un rivolo lucente d’estasi salivare, quelle mani trionfanti di noduli, nervose nel tremolio lubrico e provocante dello sgranare una lentissima corona.

Potrò mai parteciparti, amico lettore, il languore disperato di quelle fuggevoli prede degli occhi, il fremito spasmodico di certi contatti labilissimi, un colpo di gomito nella ressa del tram (“Scusi signora, vuole sedersi?” Oh, satanico amico, come osavi raccogliere l’umido sguardo di riconoscenza e il “Grazie, buon giovine”, tu che avresti voluto inscenare lì stesso la tua bacchica commedia del possesso?), lo sfiorare un ginocchio venerando strisciando, col tuo polpaccio, tra due file di sedie nella solitudine pomeridiana di un cinema rionale, lo stringere della tenerezza trattenuta – sporadico momento del più estremo contatto – il braccio ossuto di una vegliarda che aiutavo ad attraversare il semaforo con aria contrita di giovane esploratore!

Le vicende della mia beffarda età mi inducevano ad altri incontri. Lo dissi, apparivo piuttosto affascinante, con le mie gote brune e un volto tenero di fanciulla oppressa da una morbida virilità. Non ignorai l’amore di adolescenti, ma lo subii, come un pedaggio alle ragioni dell’età. Ricordo che una sera di maggio, poco prima del tramonto, quando nel giardino di una villa gentilizia – era nel varesotto, non lontano dal lago rosso del sole che calava – giacqui nell’ombra di un cespuglio con una sedicenne implume tutta efelidi, presa in un impeto di amorosi sensi veramente sconfortante. E fu in quell’istante, mentre le concedevo svogliatamente l’ambito caduceo della mia pubere taumaturgia, che vidi, lettore, quasi indovinai da una finestra del primo piano, la sagoma di una decrepita nutrice piegata curvamene in due mentre si dipanava lungo la gamba l’ammasso informe di una nera calza di cotone. La vista folgorante di quell’arto ingrossato, segnato di varici, accarezzato dal moto inabile delle vecchie mani intese a srotolare il gruppo dell’indumento mi apparve (occhi miei concupiscenti!) come un atroce e invidiabile simbolo fallico blandito da un gesto virginale: e fu in quell’attimo che, preso da un’estasi irrobustita dalla distanza, esplosi rantolando in un’effusione di biologici consensi che la fanciulla (improvvida ranocchietta, quanto ti odiai!) raccolse gemebonda come un tributo ai propri fascini acerbi.

Hai mai dunque compreso, stolido mio strumento di differita passione, che tu fruisti del cibo di un altrui mensa, oppure l’ottusa vanità dei tuoi anni incompiuti mi ti si presentò come un focoso indimenticabile peccaminoso complice? Partita con la tua famiglia il giorno appresso mi inviasti dopo una settimana una cartolina firmata “la tua vecchia amica”. Intuisti la verità rivelandomi la tua perspicacia nell’uso accurato di quell’aggettivo, o fu la tua l’argotica bravata di una liceale in guerra con le filologiche creanze epistolari?

Come da allora fissai tremando ogni finestra nella speranza di vederne apparire la silhouette sfasciata di una ottuagenaria al bagno! Quante sere, seminascosto da un albero, consumai le mie solitarie deboscie, lo sguardo volto all’ombra profilata su di una tendina di un’ava soavissimamente intenta a un pasto biascicante! E l’orrida delusione, subitanea e folgoratrice ( tiens, donc, la salud! ) della figura che si sottrae alla menzogna dell’ombre cinesi e si rivela al davanzale per quel che è, un’ignuda ballerina dai seni turgidi e dalle anche ambrate di cavalla andalusa.

Così per mesi ed anni corsi insaziato alla caccia illusa di adorabili parchette, teso ad una ricerca che, lo so, traeva l’indistruttibile sua origine dal momento ch’io nacqui, ed una vecchia sdentata ostetrica – infruttuosa ricerca del padre mio che a quell’ora di notte non fu capace di trovare altro che costei, un piede sull’orlo della fossa! – mi sottrasse alla prigionia vischiosa del grembo materno e mi mostrò alla luce della vita il suo volto immortale di jeune parque.

Non cerco giustificazioni per voi che mi leggete (à la guerre comme à la guerre), ma voglio almeno spiegarvi quanto fatale fosse stato il concorrere di eventi che mi portò a quella vittoria.

La festa cui ero stato invitato era uno squallido petting party di giovani indossatrici e impuberi universitari. La flessuosa lussuria di quelle giovinette invogliate, il negligente offrirsi dei loro seni dal una blusa sbottonata nell’impeto di una figura di danza, mi disgustava. Già penavo di lasciare di corsa quel luogo di banale commercio di inguini ancora intatti, quando un suono acutissimo, quasi stridulo (e potrò mai esprimere la frequenza vertiginosa, il roco digradare delle corde vocali già spossate, l’allure supréme de ce cri centenarie?) un lamento tremulo di femmina vecchissima piombò nel silenzio l’accolta. E nel riquadro della porta vidi lei, il viso della lontana parca dello choc prenatale, segnato dall’entusiasmo spiovente della chioma canutamente lasciva, il corpo rattrappito che segnava di angoli acuti la stoffa dell’abituccio nero e liso, le gambe ormai esili piegate inesorabilmente ad arco, la linea fragile del femore suo vulnerabile profilata sotto il pudore antico della gonna veneranda.

La scipita giovinetta che ci ospitava ostentò un gesto di sopportata cortesia. Alzò gli occhi al cielo e disse: “E’ mia nonna” …

[ A questo punto termina la parte intatta del manoscritto. Da quel che è dato di inferire dalle linee sparse che se ne possono ancora leggere, la vicenda dovrebbe procedere come segue. Umberto Umberto rapisce dopo pochi giorni la nonna della sua ospite e fugge con lei, portandola sulla canna della bicicletta, verso il Piemonte. Dapprima la conduce in un ospizio di poveri ricchi, ove la notte la possiede, apprendendo fra l’altro che la vecchia non è alla sua prima esperienza. Sul far del giorno, mentre sta fumando una sigaretta nella semi-oscurità del giardino, viene avvicinato da un giovinetto dall’aria ambigua che gli chiede se la vecchia sia effettivamente sua nonna. Preoccupato lascia l’ospizio con Nonita ed inizia una vertiginosa peregrinazione per le strade del Piemonte. Visita la fiera dei vini di Canelli, la Festa del Tartufo di Alba, prende parte alla sfilata di Gianduia a Caglianetto, al mercato del bestiame di Nizza Monferrato, all’elezione della Bella Mugnaia di Ivrea, alla corsa nei sacchi per la festa patronale di Condove. Al termine di questo folle peregrinare per l’immensità del paese che lo ospita, si accorge che da tempo la sua bicicletta è sornionamente seguita da un giovane esploratore in lambretta, che elude ogni appostamento. Il giorno in cui, ad Incisa Scapaccino, porta Nonita da un callista e si allontana un istante a comperare le sigarette, quando torna si trova abbandonato dalla vecchia, fuggita col rapitore. Passa alcuni mesi in una profonda disperazione, e finalmente ritrova la vegliarda, reduce da un istituto di bellezza dove è stata condotta dal seduttore. Il suo viso è privo di rughe, i capelli tinti di un biondo rame, la bocca rifiorita. Umberto Umberto è colto da un senso di abissale pietà e queta disperazione alla vista di tanto sfacelo. Senza dir motto acquista una doppietta e va alla ricerca dello sciagurato. Lo trova ad un campeggio mentre sta soffregando due legnetti per accendere il fuoco. Gli spara una, due, tre volte, sempre mancandolo, sinché non viene afferrato da due sacerdoti in basco nero e giacca di cuoio. Prontamente arrestato viene condannato a sei mesi per porto d’armi abusivo e caccia fuori stagione.]


1959

Umberto Eco, Diario minimo, Mondatori, Milano 1975.

la legge del saggio orsacchiotto






Dice la legge del saggio orsacchiotto:

meglio un bel libro al cesso

che un libro di merda in salotto.



Stefano Benni

08/08/05

vecchi e nuovi nemici

La mia storica nemesi verbo-visiva, quel peperone di Supergiovane aveva detto che chiudeva i battenti. E, invece, il 28 luglio, quasi due anni dopo la nostra prima battaglia ha sganciato un comunicato misterioso. Meno 22. Non si sa cosa ma qualcosa di certo avverrà.

E allora ripassiamo la storia. Quando Splinder era giovane...



la prima battaglia



l'epilogo provvisorio



Ancora l'implume ma talentuoso Johnny Bravo deve mangiarne di pane duro. Perché il sottoscritto per due volte ha avuto perfino il sommo onore di scrivere sopra il pon pon del Coniglione. Chiedetelo a daX... o cercate negli archivi rosa della fine d'ottobre del 2004. Ora vado che la valigia devo chiuderla facendoci sedere sopra tutte le mie zie.

m'abbuttò

M'abbuttò la minchia. Di voi, dei vostri non commenti, di Ego Confuso e dei suoi dodicimila cambiamenti (forse perchè lo volevo io l'header con Johnny Bravo) e di tutte le blog puttanate, delle adolescenti che ci raccontano dei problemi della loro versione di greco o della prima volta che si sono cacciate su un assorbente interno.

E va bene, voglio passare alla storia come il blog meno commentato della storia.
Perché sottoscrivo quello che dice il saggio Yoshi:
"Sì perchè, dovete sapere, io non sono per niente uno spirito romantico. La mia aspirazione è quella di raggiungere una certa tranquillità economica che mi permetta di vivere sereno. Terribilmente piccolo-borghese? Può essere. Ma di solito chi dice ad un altro ma come sei piccolo-borghese! ha il culo parato che più parato non si può
Magari chissà, un giorno potrei fare il botto, decidere insieme alla Controparte di levare l'ancora e andarmene via. Niente è da escludere. Al momento però io resto qui. Resto qui e mi incazzo, ma poi mangio una pizza e mi passa."

Questo solo per dirvi che vado in vacanza e mi mancherete pure voi e i vostri silenzi.

un'intera notte faccia a faccia col nulla

Leggo Dylan Dog da più di dieci anni, dieci anni in cui sia io che lui siamo cambiati. Perché si cambia sempre per non finire lassù tra idrogeno e ossigeno a masticare rimorsi.
Mi ingolfo spesso.
Tra parole che già ieri masticai. Prima scrivevo per non sentirmi solo ma te l'ho detto, per te smetterei pure oggi, pure ora di danzare sui tasti di quest'alfabeto di plastica.
Dimmelo e ti risponderò. Nell'unico modo in cui sono capace, lasciando che siano le mie azioni a parlare per me.

Chiedimi di smettere e lo farò, come ho lasciato perdere i sogni delle nuvole parlanti sino a quando ti incontrai, come già dissi addio al fumo che uccide, a quello che consola, a quello che fa dimenticare. Perché il papavero bacia la memoria e lì, nel crepaccio, in fondo al ghiacciaio mi sono ritrovato a cercare me e me soltanto. Ho pianto sì, ho pianto. Per me, per Paul, per sua madre, per me. Di nuovo.
Con la macchina che arrancava, curva dopo curva ad aspettare la mia prima giornata senza pretese.
Dimmelo che non ero lì per caso, che qualcun altro ci aveva spedito lì. In mezzo ai pesci o in mezzo ai libri, non m'importa.
Rimanda indietro un'altra pizza che questa mia basta per tutte e due.
E sarà sempre così.
Non penso che non riuscirò più a scrivere. Lo sto già facendo. Queste finestre le apro solo per te.
Per farci respirare di nuovo.
Perché l'amore che strappa i capelli è tornato.


«Certo è necessario che almeno una volta nella vita un uomo si spinga fuori; egli deve accostare a sé almeno una volta in trepida meditazione la fiala preziosa, egli deve essersi sentito almeno una volta in tutta la propria terribile povertà, solitudine e lacerazione dal mondo intero ed essere rimasto un'intera notte faccia a faccia con il nulla»
Franz Rosenzweig, La stella della redenzione.

il primo giorno di scuola

Al primo giorno di scuola mi ci portò mio padre, quando ancora era maresciallo dei vigili urbani. Per non attirare critiche e note di demerito nel suo stato di servizio si fece mettere di turno alla mia scuola, per cinque anni di fila arrivavo a scuola nella Uno dei vigili.
Me lo ricordo, non volevo lasciare né la mano né il cappello bianco del mio papà, pure che mia madre mi aveva rimpinzato lo zainetto di Masters perché aveva letto che per mitigare il senso d'abbandono basta anche un solo giocattolo amato. E siccome è sempre meglio abbondare che mancare, ci mise tutta la mia collezione.

Io ero riluttante, giorno dopo giorno, all'asilo, la maestra arpia mi toglieva He Man e Skeletor e li buttava sopra il suo armadietto. Lo faceva perché lei aveva altri libri a guidare le sue azioni. Forse i suoi sacri testi le dicevano che i bambini devono subito abituarsi alla cattiveria del mondo. So solo che non ci volevo andare manco ammazzato all'asilo. Meno che mai volevo passare in prima.
E pure avevo studiato tanto per l'esame di primina, avevo superato un dettato su una barchetta di carta che sfuggiva a un vento maligno. Un dettato pieno di parole come becchettio, rollio, sciabordio...
Però il primo giorno andò bene, giocai con Tea e Antonio coi puzzle per cerebrolesi, quelli a dieci pezzoni macroscopici.

E mio padre, che m'aveva promesso sul suo distintivo che sarebbe tornato, mantenne la promessa. Mi riportò alla stazione dei vigili con la camionetta del nucleo infortunistica. E lì mi offrì un pezzo di pizza col prosciutto.

Dell'elementari mi ricordo un senso diffuso di serenità, almeno sino a quando non fecero la pesata pubblica degli infanti.
Sino alla terza elementare ero peso forma. Manco un grammo di grasso.
Poi pero' mia sorella ingrassò, e io che ero il suo paggio fedele la seguii. Mi mandava pomeriggio dopo pomeriggio all'emporio della Signora Margherita a comprare gli Yonkers e i Fonzies. E poi ce li mangiavamo felici, davanti alla Tv.
Proprio come Bart e Lisa quando si calano Grattachecca e Fichetto.

All'ombra di mia sorella sono cresciuto in anni, saggezza e diametro del girovita. Sino a pesare 60 chili in quinta elementare.
Mi ricordo Michele, il malacarne che si vestiva ogni Carnevale sempre da Punk - bella forza: una maglietta sfardata e un jeans macchiato e una cicatrice storta fatta col rossetto della mamma! - che s'arrampica per sbirciare nella finestrella dove il medico mi pesa e mi misura la pancia e le cosce. E poi dice a tutti il mio peso. Volevo semplicemente sparire.

il posto delle cucuzze

Mariuzzu e Marilù si conobbero grazie ad una zampata del destino che qui si arrota le unghia sui sogni degli innamorati. Dicono i vecchi che l'amore è l'unica cosa che ci salva, che smuove montagne e ti fa aspettare un altro maggio sul calendario. Mariuzzu le sparava grosse, così grosse che manco dovevi fare lo sforzo di tentare di credergli, però erano fesserie innocue, giganteschi palazzi di minchiate che satellitavano sempre più lontani dalla verità. E filavano giorni e minchiate, tutti e due, innamorati e gonfi di piccole piccole menzognuzze sempre più leggere.
Un giorno di novembre, il cugino di Mariuzzu incontrò Marilù e una sua amica al mercato del pesce. Lui cercava un tonnareddo da fare a tutto dentro, lei una spatola da digerire prima dei consueti due giorni che richiede la tonnina o qualunque altro pesce ammuddicato.
Il cugino si chiamava Ninuzzo, e l'amica di Marilù, che era bella come una promessa mantenuta, non lo voleva conoscere manco ammazzata, già s'era saziata dei cugini passati. Perché qui funziona così, appena ti fai zita cerchi di espandere la tua influenza nella famiglia in cui sei entrata intessendo una ragnatela di parentele confluenti.
E così Carmelina s'era assuppata più serate untuose del mocio vileda di Don Ciccio che risaliva al sessantasei, quando Don Ciccio era andato a dare una mano agli angeli del fango col suo fedele mocio.
Carmelina sazia e confusa dalla bellezza di Ninuzzu decise in un frammento di secondo: quello era l'uomo della sua vita.

Capitelo, picciutteddi! Sono e saranno sempre le fimmine a decidere. Fateci caso, tutte le figure influenti della mitologia sono femmine: Giove Pluvio può scagliare fulmini e saette tra i nembi dell'Olimpo ma basta che a Giunone acchiana la gelosia che Giove ha poco che discutere. E così via, Venere tiene le fila del mondo. E Ninuzzu chi era per opporsi alla freccia d'amore intinta? Si innamorò pure lui e fece la strada dal mercato ittico a casa ripetendo quel nome appena conosciuto, accarezzando il ricordo fresco fresco di quegli occhi di cielo e di mare, quei capelli ricci come i tentacoli di un purpiceddo duci duci.
Mariuzzu ci mise la sua, disse che era stato lui a lavorare nell'ombra. Che l'aveva capito subito che Carmelina e Ninuzzu si sarebbero piaciuti subito. Grattando tra le fissarie, Ninuzzu venne a sapere che l'amato cuginetto prima aveva proposto Carmelina a tutti i suoi amici, da Alfredo a Zosimo. Ma Carmelina che era donna oculata, ricciuta e lungimirante aveva subito capito di che pasta erano fatti i compari di Mariuzzu. Gente buona solo a tirar tardi all'osteria, capaci di consumare interi patrimoni per la festa del patrono giocando alla zecchinetta.
Ninuzzu era diverso. Aveva gli occhi di picciriddu, gli occhi di chi ancora si meraviglia quando un aquilone si alza in cielo, gli occhi veri di chi non ha mai smesso di sperare.

E così consarono la serata. Ninuzzu si preparò per bene, s'accuzzò la zazzera proletaria e si pulì pure le orecchie con due coton fioc nuovi, scansando l'arte del riciclo a cui l'aveva abituato suo padre. Pigliarono la lapa di Ninuzzu e correndo lungo le curve della statale arrivarono nella bella sera di Palermo con Marilù e Carmelina che aspettavano in un angolo ben illuminato di Piazza Indipendenza. Se ne andarono al cinema tutti e quattro. Carmelina parlava e parlava, Ninuzzu si beveva quel nettare di parole e sorrisi, pareva che non avesse fatto nient'altro che aspettare Carmelina da tutta una vita. E magari era pure vero.

Di altre donne si perse la memoria, si sentiva di nuovo Adamo e in quel giardino c'era lui e Carmelina, pure la serpe tentatrice se n'era andata. Capita così quando sei innamorato, pure in mezzo al traffico, tra le grida e le bestemmie vedi e senti solo lei. Voleva spremersi un po’ la faccia per vedere s'era vero. Se quella donna stava parlando proprio con lui. Si sentiva tutto un rigurgito d'amore, avrebbe pure baciato il culo peloso di Mariuzzo da quanto bene si sentiva.

E il primo appuntamento si spense piano piano, cicaleggiavano in doppia coppia. Con Mariuzzu che solleticava il piloro di Marilù cacciandole in bocca la lingua con tutto il radicone e Carmelina che sembrava ancora più bella di quando teneva sotto l'ascella la spatola.
Poi cadde la scala e tutto subì un imprevista accelerata. Perché quando l'amore arriva mica che suona il campanello, no, ti entra dentro a colpi d'ariete, ti butta giù ogni resistenza. Puoi solo affogare in quel mare di miele e lasciare che Venere nuoti felice.

Era chiaro: Ninuzzu e Carmelina erano reciprocamente cotti. Arrostiti per bene dai dardi dell'amore architettarono su come rivedersi.
Venerdì s'erano incontrati in pescheria, domenica erano stati al cinema, ci voleva qualche altro set in cui incrociare finalmente lingue e destini.
Venne loro incontro la dea Cozza, il mitile olimpico che protegge tutte le donne che hanno un bel cervello ma la faccia capace di attirare solo le cacche di uccelli in volo. La dea Cozza scelse di spingere nel limbo nero della notte della non speranza una delle sue vestali, Lisetta, che tutti conoscevano come Occhi di Purpu per un difetto alle palpebre che la faceva assomigliare a un quadro di Picasso venuto male.
Lisetta era stracotta di Ninuzzu ma nel cuore di Ninuzzu campeggiava solo e soltanto Carmelina.
La mortadella che ricopre gli occhi di tutti gli innamorati non corrisposti si andava ad aggiungere al difetto palpebrale, un cocktail micidiale.
Lisetta invitò alla festa per il suo trentaduesimo compleanno Ninuzzu e Mariuzzu. Mariuzzu naturalmente poteva portare Marilù e di conseguenza anche Carmelina.

Ninuzzu aveva deciso. Non sapeva manco il cognome di Carmelina, né tanto meno il suo numero di telefono, però sapeva bene che quella sera i loro destini si sarebbero saldati assieme.
La dea Cozza, intamata come le sue assistite, si mosse a pietà. Cercò di ritardare la disfatta della sua Lisetta. Ma Venere e Amore adorano le cozze scoppiate e agirono di conseguenza. Così, per insugare la faccenda.

La lapa di Ninuzzu era posteggiata in un magazzino diroccato che pareva quello in cui era stata ammucciata l'arca dell'alleanza nel primo Indiana Jones.
Mariuzzu, che aveva l'ormone a mille, aiutò Ninuzzo a tirar fuori il loro mezzo di locomozione ma giusto giusto una corda impigliata nella lapa aggangò la scala che serviva per salire nel soppalco. La scala cadde e aprì la fronte di Mariuzzu, era una ferituzza nica nica, meno di un graffio di gatto ma nella mente di Mariuzzu quel graffio divenne una ferita mortale.
Perché a Mariuzzu le minchiate sgorgavano spontanee come acqua sorgiva. Ninuzzu premette tutto l'acceleratore, posteggiò dove poteva posteggiarsi solo le autoambulanze e portò in braccio Mariuzzu al pronto soccorso.
Il medico ricucì lo strappo, Marilù fu costantemente aggiornata e alla fine Mariuzzu poté riabbracciarla vomitandole il consueto vagone di minchiate.

In tutto questo Lisetta aspettava a casuzza sua, con le sue amiche, cozze quasi quanto lei. Aspettava Ninuzzu tagliuzzando tonno che spalmava su toast già muffuti. La birra era calda come pisciazza e la serata era partita stitica.
Poi arrivarono Ninuzzo, suo cugino e le loro dame. A Lisetta si spezzò il cuore al primo sguardo. Perché dietro quegli occhi a palla c'era un cervello fino fino.
Pianse sulla tortazza a forma di coniglione e tutti mangiarono panna, zabaione e lacrime.

Ninuzzu non aspettò la torta, prese la mano di Carmelina e sotto casa di Lisetta, ispirato da una pioggerellina leggia leggia la baciò.
Carmelina non attendeva altro, mise la turbina alla sua linguetta di pesca e si baciarono sino a che Mariuzzu e Marilù dissero che forse era meglio spostarsi da lì, dato che già erano arrivati i pompieri col telone per evitare che Lisetta si spiaccicasse al suolo.
Ninuzzu seguì il consiglio di Mariuzzu e si spostò prima che Lisetta sfondasse l'asfalto con le sue coscione grosse come polene di vecchi galeoni.
Carmelina lo guardava estasiato, perché certe cose si sentono dentro. Lo senti davvero che la felicità ti tracima fuori, ti senti bene come quando tua madre ti permetteva di ripulire la ciotola dall'impasto della torta al cioccolato.
Certo, non sarebbero mancati i momenti bui. Perché la vita o è avariata o è varia.

Ninuzzu faceva il lavoratore socialmente utile alla Biblioteca Comunale e passava la grande maggioranza del tempo a leggere.
Leggeva di tutto, poesia e prosa, saggi e disagi. Da un po’ di tempo la poesia gli era entrata nel cuore. Se la sentiva gorgogliare dentro, proprio come faceva lo stomachino di Carmelina che mangiava lenta lenta come una mandria di lumache ma digeriva più veloce di uno stormo di aquile.
Aveva letto di un poeta greco che parlava di Itaca, di ricordi di zaffiro e dell'arrivo dei Barbari.
Ecco, proprio la poesia dei Barbari gli era entrata dentro, gli dettava dentro quello che aveva sempre cercato di mettere a fuoco.
Quello che capita a tutti, per anni accarezziamo una sensazione, così soffusa che ci accompagna sempre discreta. La sentiamo ma non riusciamo a metterla a fuoco perché ci mancano le parole esatte per imbrigliarla.
Ecco, con quel poeta greco Ninuzzo aveva trovato la rete per catturare quel concetto. Nel suo paesino tutta una vita aspetti che qualcuno arrivi, lo fai per non dedicarti davvero a nessuna occupazione. Tampasii, così, metti turaccioli di finte occupazioni, inizi milioni di progettucoli senza concluderne manco mezzo.
Come quel paese che aspettava i Barbari perché almeno erano una soluzione, gli permettevano di continuare a vivacchiare.

Con Carmelina era la prima volta che si sentiva di potersi impegnare sul serio. Perché puoi stare tutta la vita in mezzo alla gente e sentirti più solo del lampionaio che commosse il Piccolo Principe nei suoi viaggi interplanetari.
L'amicizia, quella vera, svapora presto. Lampeggia in alcuni momenti e poi si ritira, scoppia al sole come le cicale. Ma l'amore no. Se trovi la tua metà non ti sentirai mai solo.
Le stesse parole gliele ripeté qualche tempo dopo la madre di Carmelina.
Uguali, e capì che si somigliano davvero solo gli amori che si meritano la maiuscola.
Quelli destinati a chi ci crede che la speranza colora una vita.
Che piuttosto che aspettare impotenti i Barbari si possono costruire mura più solide, spade più taglienti.

Mariuzzu finì a fare il politico e Marilù traghettò con lui nel mondo degli adulti, quello fatto di piccole verità annacquate di più o meno grosse bugie. Però l'unica cosa importante era che Mariuzzu amava sul serio Marilù. E cosa c'è di più bello?
Lisetta fuggì con il figlio di Mommo il Cornuto che faceva il camionista. Con lui fu felice, si mise a contrabbandare sigarette e cogli introiti si rifece le palpebre e una mezza rimonta.

E Ninuzzu mantenne l'unica promessa per cui si sentiva pronto: amò Carmelina di un amore bello e vario. Non ci fu monotonia, annaffiarono ogni giorno la meraviglia che li aveva avvicinati tra le spatole e i tonnareddi. Vissero bene, fecero una nidiata di picciriddi e uno ci venne coi capelli rossi e ricci, lo chiamarono Giannuzzu e passò alla storia come il più grosso cacciapalle della Sicilia Orientale.

Perché mica che solo Mariuzzu le sapeva sganciare grosse...