C’è la chiesa che praticamente è sul fiumiciattolo.
Ha le pareti di pietra grigia e misera. Non sta in alto, questa chiesa, ma sotto.
Tutto il paese incombe. Il campanile, per dirti, arriva all’altezza del ponte, che collega l’abitato alla via Salaria. Quindi se siamo quaggiù, come ora che è notte e tira un vento umido che ti fa le ossa molli, non vediamo niente del paese. Siamo intabarrati e io ho tirato pure su il cappuccio della giacca, mentre tu tieni i capelli sciolti e sei bella, di una bellezza strana che s’intona a questa pietra a questa notte a quest’acqua corrente.
Qui, ci dice l’uomo, erano le prigioni. Le ultime persone che furono chiuse dentro – e ci indica una porticina che si apre su di un muro, senza finestre o sbocchi, ma chiuso – erano delle partigiane.
Quando i tedeschi fuggirono, se le scordarono dentro. Gli americani le volevano liberare, ma poi si accorsero che per la gente del posto quelle erano due poco di buono. E allora le tennero imprigionate ancora un po’, poi una notte le portarono in montagna e le tagliarono i capelli. Perché a quel tempo la bellezza di una ragazza era tutta nei capelli.
Io ti guardo adesso che tieni le tue dita tra i capelli, e sorridi con me al racconto che ci pare lontano.
E penso che la bellezza sia qualcosa di cui non si riescono a trovare bene le parole: il problema della bellezza, della tua ad esempio, di quella di questo paese, è dirla. Renderla a tutti manifesta. Dobbiamo poi testimoniarla? Oppure tenerla nascosta qui, come cerco di fare io ora, come faccio quasi sempre. Io la bellezza la nascondo, la subisso di parole così da non farla vedere, da fare in modo che nessuno se ne accorga che c’è la bellezza.
*
Incominciamo a camminare per il paese che non conosce se non scale.
E noi saliamo prossimi ad uno strano silenzio.
Questo paese conta 10 abitanti, 4 cani e 30 gatti. Noi due siamo un di più. Le scale partono dovunque, non c’è una regola se non quella di assecondare le bizzarrie della crosta del monte, che scende giù mica diritto come i disegni dei bambini, ma sempre con salti e sbalzi e sfromboli per poi finire nell’acqua comunque.
Alcune scale sono tortuose, ripide e strette, che ci passa giusto un cristiano. Ai lati ci stanno le case, anche loro messe su alla rifusa come ciotole in una credenza: è normale vedere il balcone di un’abitazione sullo stesso livello della porta d’ingresso di un’altra.
Questa confusione di piani, di mescolamenti mi fa venire in mente il presepe.
Proprio quello che ci stupisce da bambini: il cielo neroro, la stella gialla gigante, le case mezze diroccate da cui spunta improvviso un uomo in abiti da soldato saraceno, dove senti il martellare del maniscalco e le donne con le brocche che vanno alla fonte.
Tutto è grande uguale, vicino o distante che sia.
Sospendiamo le nostre manie d’ordine, i nostri orizzonti definiti, le linee prospettiche e semplicemente siamo il sasso, la casa, la lastra di pietra, il passo che facciamo e il ciottolo che toccato cade verso valle.
Anche la sospensione e la credulità - sappiamo che nessun soldato in foggia araba ci assalterà dietro l’angolo, eppure temiamo; sappiamo che saliti fino in cima non ci sarà nessuna capanna con nessun dio bambino, eppure lo speriamo – fanno parte della bellezza: ma come fai a dirle?
Saliamo e parliamo appena, il fiato fa dei ghirigori come tocchi di polistirolo.
Cosa pensi?, mi fai.
Al paese attaccato ai sassi come se fosse il muschio.
E vorresti raccontarlo.
Sì, ma mi viene di dire niente, perché alla fine chiudo più che aprire, invece di invitare allontano.
La scala si fa ripida, la cadenza degli scalini è irregolare: rischio sempre di prendere una storta, di inciampare. E’ una mia fissa d’un po’ di tempo che “dire le cose” le guasti. Eppure sento che c’è una parte di me, che mi dice: se scrivi devi farti capire, devi fare in modo che ognuno stia dalla tua parte. E io mi accorgo che se dovessi dire a te, che mi cammini affianco, e a tutti del paese e della sua storia finirei per essere oscuro.
Vi comunicherei qualcosa che intuite bellissimo, ma di cui non potete farne esperienza.
Ma se scrivere è mettere in relazione, come faccio io a dirvi il bene, che c’è qui?
Mi ricordo cosa scrisse Kertez, e mi viene ora mentre giriamo l’angolo e tu mi dici: questa casa mi ha sempre creato spavento, io la vedevo da laggiù.
Mi indichi un altro budello di strada appena visibile e al fondo una finestra, quella della tua camera presumo io. Kertez dice un pensiero del tipo: il male ha sempre una ragione, è qualcosa di comprensibile, mentre il bene - scrive - è veramente un fatto che sfugge alla nostra comprensione.
Ora. Se io non riesco a scrivere questo, vuol dire che fallisco, vuol dire che qualcosa del mio scrivere non funziona o non funziona come io vorrei.
Non è un problema di poco conto.
E come faccio? Ti posso prendere da parte, ora che saliamo le scale e due cani ci vengono dietro, e dirti: io non riesco a comunicare la bellezza?
E tu capiresti cosa ti sto dicendo? O faresti spallucce?
*
Forse sto così, perché ho iniziato ad insegnare e a guardare i miei alunni. A loro non interessa lo studio, loro vogliono fare i tre anni, prendere il “diplomino” e andare a lavorare in officina, o fare le vetriniste, le commesse. Sembra che non aspirino a niente di più.
Ho fatto leggere in classe alcuni stralci di libri parlavano dell’adolescenza (Salinger, Conrad, Pavese e Brizzi). Poi ho detto: scrivetemi le vostre “impressioni” – se ci pensi bene non è molto diverso da cosa sto facendo ora, io scrivo le impressioni su di un paese visitato di notte con te - e uno di loro ha scritto: “Questi due testi sono molto belli e scritti bene, solo che ci sono parole complicate e difficili da capire, così anche se molto belli a me non piacciono perché non capisco tutto e non capisco tutto il significato”.
Sono parole che chiamano in causa me e chiunque scriva.
Il mio alunno dice: ho letto delle cose, ne ho intuito la grandezza, ma non mi possono piacere, perché non capisco. Ovvero le parole che ho letto non entrano in relazione con me, non mi cambiano, non mi smuovono, ma rimangono bloccate in una sorta di limbo.
E’ un grido d’aiuto, il segnale che molte volte noi, io per primo, costruiamo testi bellissimi ma incomprensibili.
Per me la scrittura è mettere in relazione; è prendere la parola in un’assemblea, è scrivere una lettera, è dare del ‘tu’ a qualcuno. Se tutte queste opzioni non vanno a segno, allora ho fallito.
E perché hai fallito?, mi dici tu, in fin dei conti tu ai tuoi alunni non hai proposto i tuoi testi, forse li avrebbero capiti.
E’ qui sta il problema – so che questo dialogo lo sto inventando, perché salendo su verso la cima del paese abbiamo parlato di asini, di cavalli e cani, di come sarebbe bello se… -, perché io penso che quelle parole siano rivolte a chi bene o male fa della scrittura qualcosa di più del semplice “caro diario”.
Significa che molti dei discorsi fatti hanno - tutti e sempre - il sapore della truffa. Rimangono un inganno per i lettori, perché in realtà molte delle cose che io vado scrivendo, che molti di noi vanno scrivendo, tagliano fuori una parte enorme di persone. Noi decidiamo, ognuno di noi ha i suoi 12 lettori, di escludere dai propri discorsi un numero imprecisato di lettori.
Ad esempio io so benissimo che queste riflessioni non sono per tutti. Leggendo, qualcuno dei miei alunni mi direbbe: prof. ma che voleva dire? Cosa c’entra questo con me? Cosa significano per me il paese nella notte, i partigiani, il presepe, lei che cammina con la morosa insieme ad un vecchio? Cosa ha a che fare con me con quello che sono e capisco? Come queste cose entrano in relazione con ciò che io sono?
Lei non mi dice niente, finirebbe il mio alunno, lei è una truffa.
E io non potrei dirgli altro che dargli ragione.
Infine siamo arrivati in cima. E visto dall’alto il paese sembrava la mano di un vecchio.
Ha le pareti di pietra grigia e misera. Non sta in alto, questa chiesa, ma sotto.
Tutto il paese incombe. Il campanile, per dirti, arriva all’altezza del ponte, che collega l’abitato alla via Salaria. Quindi se siamo quaggiù, come ora che è notte e tira un vento umido che ti fa le ossa molli, non vediamo niente del paese. Siamo intabarrati e io ho tirato pure su il cappuccio della giacca, mentre tu tieni i capelli sciolti e sei bella, di una bellezza strana che s’intona a questa pietra a questa notte a quest’acqua corrente.
Qui, ci dice l’uomo, erano le prigioni. Le ultime persone che furono chiuse dentro – e ci indica una porticina che si apre su di un muro, senza finestre o sbocchi, ma chiuso – erano delle partigiane.
Quando i tedeschi fuggirono, se le scordarono dentro. Gli americani le volevano liberare, ma poi si accorsero che per la gente del posto quelle erano due poco di buono. E allora le tennero imprigionate ancora un po’, poi una notte le portarono in montagna e le tagliarono i capelli. Perché a quel tempo la bellezza di una ragazza era tutta nei capelli.
Io ti guardo adesso che tieni le tue dita tra i capelli, e sorridi con me al racconto che ci pare lontano.
E penso che la bellezza sia qualcosa di cui non si riescono a trovare bene le parole: il problema della bellezza, della tua ad esempio, di quella di questo paese, è dirla. Renderla a tutti manifesta. Dobbiamo poi testimoniarla? Oppure tenerla nascosta qui, come cerco di fare io ora, come faccio quasi sempre. Io la bellezza la nascondo, la subisso di parole così da non farla vedere, da fare in modo che nessuno se ne accorga che c’è la bellezza.
*
Incominciamo a camminare per il paese che non conosce se non scale.
E noi saliamo prossimi ad uno strano silenzio.
Questo paese conta 10 abitanti, 4 cani e 30 gatti. Noi due siamo un di più. Le scale partono dovunque, non c’è una regola se non quella di assecondare le bizzarrie della crosta del monte, che scende giù mica diritto come i disegni dei bambini, ma sempre con salti e sbalzi e sfromboli per poi finire nell’acqua comunque.
Alcune scale sono tortuose, ripide e strette, che ci passa giusto un cristiano. Ai lati ci stanno le case, anche loro messe su alla rifusa come ciotole in una credenza: è normale vedere il balcone di un’abitazione sullo stesso livello della porta d’ingresso di un’altra.
Questa confusione di piani, di mescolamenti mi fa venire in mente il presepe.
Proprio quello che ci stupisce da bambini: il cielo neroro, la stella gialla gigante, le case mezze diroccate da cui spunta improvviso un uomo in abiti da soldato saraceno, dove senti il martellare del maniscalco e le donne con le brocche che vanno alla fonte.
Tutto è grande uguale, vicino o distante che sia.
Sospendiamo le nostre manie d’ordine, i nostri orizzonti definiti, le linee prospettiche e semplicemente siamo il sasso, la casa, la lastra di pietra, il passo che facciamo e il ciottolo che toccato cade verso valle.
Anche la sospensione e la credulità - sappiamo che nessun soldato in foggia araba ci assalterà dietro l’angolo, eppure temiamo; sappiamo che saliti fino in cima non ci sarà nessuna capanna con nessun dio bambino, eppure lo speriamo – fanno parte della bellezza: ma come fai a dirle?
Saliamo e parliamo appena, il fiato fa dei ghirigori come tocchi di polistirolo.
Cosa pensi?, mi fai.
Al paese attaccato ai sassi come se fosse il muschio.
E vorresti raccontarlo.
Sì, ma mi viene di dire niente, perché alla fine chiudo più che aprire, invece di invitare allontano.
La scala si fa ripida, la cadenza degli scalini è irregolare: rischio sempre di prendere una storta, di inciampare. E’ una mia fissa d’un po’ di tempo che “dire le cose” le guasti. Eppure sento che c’è una parte di me, che mi dice: se scrivi devi farti capire, devi fare in modo che ognuno stia dalla tua parte. E io mi accorgo che se dovessi dire a te, che mi cammini affianco, e a tutti del paese e della sua storia finirei per essere oscuro.
Vi comunicherei qualcosa che intuite bellissimo, ma di cui non potete farne esperienza.
Ma se scrivere è mettere in relazione, come faccio io a dirvi il bene, che c’è qui?
Mi ricordo cosa scrisse Kertez, e mi viene ora mentre giriamo l’angolo e tu mi dici: questa casa mi ha sempre creato spavento, io la vedevo da laggiù.
Mi indichi un altro budello di strada appena visibile e al fondo una finestra, quella della tua camera presumo io. Kertez dice un pensiero del tipo: il male ha sempre una ragione, è qualcosa di comprensibile, mentre il bene - scrive - è veramente un fatto che sfugge alla nostra comprensione.
Ora. Se io non riesco a scrivere questo, vuol dire che fallisco, vuol dire che qualcosa del mio scrivere non funziona o non funziona come io vorrei.
Non è un problema di poco conto.
E come faccio? Ti posso prendere da parte, ora che saliamo le scale e due cani ci vengono dietro, e dirti: io non riesco a comunicare la bellezza?
E tu capiresti cosa ti sto dicendo? O faresti spallucce?
*
Forse sto così, perché ho iniziato ad insegnare e a guardare i miei alunni. A loro non interessa lo studio, loro vogliono fare i tre anni, prendere il “diplomino” e andare a lavorare in officina, o fare le vetriniste, le commesse. Sembra che non aspirino a niente di più.
Ho fatto leggere in classe alcuni stralci di libri parlavano dell’adolescenza (Salinger, Conrad, Pavese e Brizzi). Poi ho detto: scrivetemi le vostre “impressioni” – se ci pensi bene non è molto diverso da cosa sto facendo ora, io scrivo le impressioni su di un paese visitato di notte con te - e uno di loro ha scritto: “Questi due testi sono molto belli e scritti bene, solo che ci sono parole complicate e difficili da capire, così anche se molto belli a me non piacciono perché non capisco tutto e non capisco tutto il significato”.
Sono parole che chiamano in causa me e chiunque scriva.
Il mio alunno dice: ho letto delle cose, ne ho intuito la grandezza, ma non mi possono piacere, perché non capisco. Ovvero le parole che ho letto non entrano in relazione con me, non mi cambiano, non mi smuovono, ma rimangono bloccate in una sorta di limbo.
E’ un grido d’aiuto, il segnale che molte volte noi, io per primo, costruiamo testi bellissimi ma incomprensibili.
Per me la scrittura è mettere in relazione; è prendere la parola in un’assemblea, è scrivere una lettera, è dare del ‘tu’ a qualcuno. Se tutte queste opzioni non vanno a segno, allora ho fallito.
E perché hai fallito?, mi dici tu, in fin dei conti tu ai tuoi alunni non hai proposto i tuoi testi, forse li avrebbero capiti.
E’ qui sta il problema – so che questo dialogo lo sto inventando, perché salendo su verso la cima del paese abbiamo parlato di asini, di cavalli e cani, di come sarebbe bello se… -, perché io penso che quelle parole siano rivolte a chi bene o male fa della scrittura qualcosa di più del semplice “caro diario”.
Significa che molti dei discorsi fatti hanno - tutti e sempre - il sapore della truffa. Rimangono un inganno per i lettori, perché in realtà molte delle cose che io vado scrivendo, che molti di noi vanno scrivendo, tagliano fuori una parte enorme di persone. Noi decidiamo, ognuno di noi ha i suoi 12 lettori, di escludere dai propri discorsi un numero imprecisato di lettori.
Ad esempio io so benissimo che queste riflessioni non sono per tutti. Leggendo, qualcuno dei miei alunni mi direbbe: prof. ma che voleva dire? Cosa c’entra questo con me? Cosa significano per me il paese nella notte, i partigiani, il presepe, lei che cammina con la morosa insieme ad un vecchio? Cosa ha a che fare con me con quello che sono e capisco? Come queste cose entrano in relazione con ciò che io sono?
Lei non mi dice niente, finirebbe il mio alunno, lei è una truffa.
E io non potrei dirgli altro che dargli ragione.
Infine siamo arrivati in cima. E visto dall’alto il paese sembrava la mano di un vecchio.
1 commento:
ciao, tonino, volevo dirti che se ti fa piacere inserire qualche articolo dal tuo blog sul rifugio dei moai (anche se vecchio - la cultura non ha tempo) a noi fa piacere, vai su scrivi articolo e saremo felici di inserirlo! saluti e auguri di buone feste!
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